Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / È stato un grande scrittore, Dario Fo? Meritava il premio Nobel per la Letteratura?

È stato un grande scrittore, Dario Fo? Meritava il premio Nobel per la Letteratura?

di Francesco Lamendola - 02/05/2016

È stato un grande scrittore, Dario Fo? Meritava il premio Nobel per la Letteratura?

Fonte: Il Corriere delle regioni

È stato un grande scrittore, Dario Fo? Meritava di ricevere il premio Nobel per la Letteratura, nel 1997, a preferenza di altri scrittori e poeti italiani, prima fra tutti Mario Luzi, o anche di altra nazionalità? La difficoltà di rispondere a queste domande discende, in gran parte, dalla difficoltà di separare la sua attività di attore da quella di autore delle sue stesse pièces, nel senso che è quasi impossibile immaginare le sue opere teatrali senza di lui sulla sena, senza che siano interpretate da lui stesso.

Lasciando in sospeso questa difficoltà preliminare, non ci resta che concentrare l’attenzione sulle sue opere dal punto di vista letterario, perché quello che gli è stato conferito era il Nobel per la Letteratura, e non per la sua bravura come attore. Si pone, quindi, con maggior precisione, la domanda: nelle opere di Dario Fo, dal punto di vista letterario, vi è la grandezza dell’arte? Vi è qualcosa che vada al di là della contingenza, qualcosa che le sottragga alla dimensione della polemica contingente, e che le innalzi ad autentica universalità umana?

Se passiamo in rassegna «Morte accidentale di un anarchico» (1970), «Pum! Pum! Chi è? La polizia!» (1972), «Non ti pago, non ti pago» (1974), «Il Fanfani rapito» (1975), e, soprattutto, quello che da molti viene considerato come il suo capolavoro, «Mistero buffo» (1969), l’opera che lo “rivelato” al vasto pubblico italiano e ha creato, intorno a lui, la leggenda del grande ribelle e del “buffone” che fa tremare i potenti con le sue ironiche, ma scomodissime verità, come facevano appunto i giullari del Medioevo; se passiamo in rassegna tali opere, troviamo in esse quella dimensione di universalità, quel trascendimento delle passioni nella dimensione superiore dell’are, quella perfezione  e quella concordanza di forma e contenuto, che contraddistingue le grandi opere letterarie, comprese quelle teatrali?

Per provare a rispondere, partiamo dal ritratto che delinea, di Dario Fo, un manuale di storia della letteratura italiana per i licei, che va per la maggiore e che realmente possiede dei pregi didattici non indifferenti; ma che, in questo caso, scivola, a nostro avviso, nel conformismo intellettuale più deprecabile, quello che avvolge di sottili e complicate argomentazioni un determinato argomento, per condurre il lettore a delle conclusioni che non sono tali, ma che sono soltanto la ratifica a posteriori di un giudizio positivo che era già scritto in anticipo, e ciò per la sola ed unica ragione che così vuole la cultura dominante, tutta rigorosamente progressista e di sinistra (da: G. Baldii, Giusso, Rozzetti, Zaccaria: «Il piacere dei testi», Torino, Paravia, 2012, vol. 6, pp. 759-760):

 

Anche se la carica politica dei suoi spettacoli suscita sempre reazioni decise, a favore o contro, Fo è in un certo modo diventato un'istituzione. A ciò ha contribuito l'assegnazione del premio Nobel per la Letteratura nel 1997.

A tal riguardo non sono mancate polemiche, anche accese. Al di là delle reazioni più viscerali, e di bassa lega per il premio prestigioso assegnato al "buffone", al "comiziante", il Nobel ha comunque sollevato un problema critico autentico: se Fo sia da considerare solo  un grande attore o anche un grande scrittore, se cioè le sue commedie possiedano un valore letterario autonomo dalle rappresentazioni sceniche, come hanno ritenuto i membri dell'Accademia svedese. è fuori di dubbio che i suoi testi, messi in scena in tutto il mondo, conservano la loro validità anche senza la presenza fisica dell'attore Fo e in contesti sociali e culturali lontani da quello di partenza. Però, se è lecito azzardare una risposta al quesito, quei testi sembrano realizzare appieno le loro potenzialità se legati alle doti del loro creatore: recitati da Fo sono un'altra cosa.

Straordinaria è infatti la sua presenza in scena, che si fonda su un'estrema duttilità nell'uso del corpo, nei gesti, nei movimenti, nella mimica facciale, nei registri della voce. Grazie a questi strumenti Fo riesce a dar vita ad intere scene, folte di personaggi, vivide e animate. Fo è quello che si dice un "animale da palcoscenico", che riesce a stabilire una corrente di simpatia con il pubblico. Inoltre è un grande "fabulatore", con la sua capacità di raccontare e far vivere storie.

MISTERO BUFFO: la materia giullaresca e "carnevalesca".

Lo spettacolo (di cui esistono numerose versioni, più o meno ricche e con notevoli varianti) consta di vari pezzi, in gran parte legati a tematiche religiose: donde il titolo, che si richiama ai "misteri" medievali, cioè alle sacre rappresentazioni. Però l'aggettivo "buffo" sottolinea che i materiali religiosi sono presentati da una prospettiva comica, perché visti dal basso, dall'ottica popolare ingenuamente deformante. Così, ad esempio, l'episodio evangelico delle nozze di Cana è raccontato da un ubriacone che ha particolarmente gustato la squisitezza del vino prodotto dal miracolo; la risurrezione di Lazzaro è narrata da un popolano curioso che assiste al miracolo come ad un semplice spettacolo. Il punto di vista popolare, che riduce tutto alla propria misura, che dà rilievo a ciò che è più grevemente corporale, che inserisce la sua ossessione della fame, dei soprusi, dello sfruttamento, produce un effetto di straniamento su una materia tradizionalmente rappresentata in tono alto. Comunque non si può ravvisare nel testo una dissacrazione irriverente  dei temi religiosi, come talora si è voluto polemicamente sottolineare; semmai Fo vuol ricuperare il valore sociale di un cristianesimo primitivo ed autentico, che è dalla parte delle vittime e degli oppressi contro le violenze dei potenti, a differenza del cristianesimo istituzionalizzato; o comunque vuol rendere quel senso di affettuosa  familiarità che connota l'atteggiamento popolare nei confronti delle cose di religione, delle figure di Cristo, della Madonna, dei santi. In altri casi Fo utilizza come fonte per i suoi pezzi la letteratura giullaresca medievale ("Rosa fresca aulentissima" di Cielo d'Alcamo, il "detto di Matazone da Caligano"), o si collega ad autori "carnevaleschi" rinascimentali come Folengo e Ruzante.

L'ottica dal basso, il rovesciamento "carnevalesco" delle prospettive, l'insistenza sul materiale e sul corporale intendono assumere un significato politico. La comicità popolare è assunta come espressione di una resistenza e di una protesta contro l'oppressione, la violenza, lo sfruttamento, la fame, la miseria. Ricorrendo ad un filone minoritario della letteratura come quello giullaresco o "carnevalesco", Fo mira a rileggere la storia da un punto di vista alternativo a quello ufficiale, da sempre veicolato dalla letteratura aulica, a dar voce a quegli oppressi che non hanno mai avuto voce. La contrapposizione tra la cultura popolare genuina e quella delle classi alte, giudicata strumento di menzogna e di prevaricazione, è indubbiamente manichea e semplicistica (si è visto tante volte [...] come anche la cultura alta possa assumere una prospettiva critica, più e meglio di quella popolare), ma proprio la schematicità si può dire che garantisca la forza immediata dello spettacolo.

 

Questa pagina di prosa è un perfetto esempio di quel conformismo culturale che ha consentito a personaggi letterariamente meno che mediocri, ma politicamente "corretti" (nel loro apparente anticonformismo), di occupare spazi e visibilità sempre maggiori, fino a diventare, appunto, "istituzioni", con tanto di ratifica internazionale - il premio Nobel per la letteratura, niente di meno! -, proprio loro che hanno fatto della lotta contro le istituzioni l'apparente ragion d'essere della loro opera e delle loro “battaglie” (come amano chiamarle, con enfasi ridicola ricavata dal gergo sindacalista); mentre scrittori e pensatori ben più degni di essi, e che avevano qualcosa di serio da dire quanto ai contenuti, sono stati tenuti costantemente ai margini, perché le recensioni dei giornali e dei telegiornali (anche di quelli che, teoricamente, li criticavano) erano tutte per Fo & Compagni, le poltrone erano già tutte riservate e non c'era praticamente spazio per nessun altro (un fenomeno analogo si è avuto nella politica, con l'occupazione permanente delle poltrone da parte dei gerontocrati).

Lasciamo perdere la palese contraddizione fra l'ammissione che le opere di Fo acquistano piena validità solo con la sua presenza scenica, e il tentativo di "giustificare" il premio letterario assegnato dall'Accademia svedese. Lasciamo perdere anche l'altra contraddizione, con il definire Fo un "animale da palcoscenico" e, subito dopo, dichiarare che egli sa stabilire una immediata corrente di simpatia con il pubblico: perché Fo, in quanto animale da palcoscenico, come i suoi simili e più di tanti suoi simili, stabilisce immediatamente una corrente, sì, ma che può essere, senza mezze misure, tanto di simpatia come di antipatia. A molti, Fo risulta scenicamente insopportabile: la sua faccia, la sua mimica, i suoi gesti, il suo grammelot, il suo auto-compiacimento, il suo narcisismo, la sua dissacrazione perenne di tutto e di tutti, la sua totale incapacità di assumere un punto di vista che non sia autoreferenziale, la sua assoluta incapacità di mettersi in discussione, come artista e come personaggio delle sue opere, oltre che come militante "politico"; la sua rocciosa convinzione, che dà sempre per scontata, di essere nella ragione e nella verità, di poter deridere tutti gli altri, tutti quelli che non la pensano come lui; di essere anche moralmente migliore, più pulito, più coerente, mentre gli altri, i "nemici del popolo", sono, immancabilmente, squallidi, sordidi, corrotti, sgradevoli, anche sul piano fisico: tutto questo, unito alla sua smorfia ghignante, al suo inalterabile sberleffo, alla sua provocazione facciale e gestuale, suscita la sconfinata ammirazione di chi non solo pensa, ma anche sente come lui, allo stesso modo che provoca una reazione di disgusto, di insofferenza e di autentico rifiuto in chi ha un diverso sentire, oltre che un diverso modo di vedere le cose. In questo senso, Fo è un autore profondamente divisivo; ma la divisione non passa fra chi condivide e chi non condivide le sue idee, bensì fra chi ama e chi detesta la sua fisicità. E questo è un argomento conclusivo, e nettamente negativo, quanto alla discussione se egli abbia o non abbia meritato il Nobel in quanto scrittore.

Il punto centrale della mistificazione che viene operata in questa pagina di prosa, ché non esistono altre espressioni per indicarla, è quello in cui si definisce il «Mistero buffo» un'opera basata sul rovesciamento "dal basso", che produrrebbe un effetto "straniante" fra la serietà dei temi (in apparenza religiosi, ma in realtà sociali e politici) e il loro "buffo" fraintendimento da parte del popolo. Si dice che «i materiali religiosi sono presentati da una prospettiva comica, perché visti dal basso, dall'ottica popolare ingenuamente deformante», ma non c'è niente di ingenuo nell'ottica che Dario Fo attribuisce ai suoi popolani: non sono popolani ingenui, ma caricature di popolani ingenui. Essi sono, alla lettera, degli idioti, e dietro la loro idiozia s'intravede il ghigno dell'Autore, che li manovra come burattini per insinuare, surrettiziamente, la sua interpretazione "progressista" della storia, più anarchica che marxista, anzi, più anarcoide che anarchica (perché i "veri" anarchici sono persone serie, e non buffoni demagoghi che sanno solo ridere di tutto e di tutti e prendere in giro chiunque non la pensi come loro).

Dietro il populismo e la demagogia di Fo, c'è, in realtà, una profonda incomprensione delle classi umili, della loro psicologia, della loro moralità: egli non li vede come sono, ma come vorrebbe che fossero: li vede come è lui. Ma lui non è un popolano ed è tutto, tranne che un ingenuo, è un intellettuale smaliziato, astuto, abilissimo nel fare di se stesso una "istituzione", nel trasformarsi in una bandiera che trascini le masse, se non verso il riscatto, almeno nella risata irrefrenabile; e poco importa se è una risata sgangherata e beota. Si vede che Dario Fo non si è mai degnato di leggere Manzoni, o, per venire ad un autore più recente, Eugenio Corti: non sa che la religiosità popolare può anche manifestarsi in forme ingenue, ma per nulla idiote; che è una cosa seria, e non una mera costruzione di preti subdoli e assetati di potere; che scaturisce da una sorgente viva e perenne, insita nella natura umana. Ma per Fo, materialista convinto, l'uomo non può essere che un animale evoluto a casaccio, e la sete di Dio è un concetto che gli risulta semplicemente incomprensibile. Egli dà per certo che sia stata creata artificialmente dai potenti, al fine di meglio sottomettere e sfruttare le classi inferiori; non lo sfiora neanche l'idea che possa essere un bisogno innato e strutturale della persona umana. Ed è ovvio che, partendo da simili premesse, la religione, quella vera, gli risulti incomprensibile; tutt'al più, arriva ad ammettere la funzione sociale che la religione cristiana ha potuto esercitare, beninteso al di fuori delle "istituzioni", brutte e cattive per definizione, tutte quante.

Il gioco di Fo viene allo scoperto laddove egli  «vuol ricuperare il valore sociale di un cristianesimo primitivo ed autentico, che è dalla parte delle vittime e degli oppressi contro le violenze dei potenti, a differenza del cristianesimo istituzionalizzato»: ed è lì che appare in piena luce ciò che egli si propone di fare, buttando in scherzo e in parodia, popolata di ubriaconi e di bifolchi che pensano solo a mangiare, bere e produrre rumori corporali, le cose più sacre della religione cristiana: vuole gettare un elemento di divisione fra gli stessi cattolici. "Promuove" i compagni cattolici di sinistra, strizza loro l'occhio, ammicca, fa intendere che, tra lui e loro, in fondo c'è ben poca differenza: sono tutti dalla parte del "popolo"; viceversa, mette alla berlina il cristianesimo "istituzionalizzato" , cioè la Chiesa, e specialmente i suoi vertici, e anche, naturalmente, i cattolici "benpensanti", che, guarda caso, coincidono sempre con i ricchi, e questi ultimi, immancabilmente, coincidono con gli egoisti, gli sfruttatori e, quindi, i "nemici di classe". Ed è un gioco, quello di Dario Fo, che può ritenersi pienamente riuscito. I cattolici progressisti hanno abboccato, i preti di sinistra ci son cascati in pieno; e l'attuale, gravissima crisi che la Chiesa cattolica sta vivendo, nasce proprio da questo malinteso: che, per essere dei veri cristiani, bisogna essere, per forza, dei nemici del papa e della Chiesa: a meno che il papa si chiami Bergoglio e che la Chiesa sia la Chiesa dei poveri (e solo dei poveri). Perché se il papa si chiama Bergoglio e se la vera Chiesa è (solo) quella dei poveri, intesi in senso puramente economico-sociale, allora la cosa è diversa: e tutti i Dario Fo di questo mondo possono gustarsi la bellissima sensazione che la storia abbia dato loro ragione, che essi sono stati i profeti generosi di un rinnovamento indispensabile della Chiesa, e che il vero cristianesimo, per merito di quelli come loro, sia stato finalmente ripristinato, dopo quasi duemila anni di inganni, di compromessi e di giochi di potere. 

Che tristezza. Se hanno ragione i Fo, allora hanno torto tutti coloro i quali prendono la vita, la storia e la religione con la dovuta serietà; che non pensano, né pretendono, di rimettere ogni cosa a posto, a suon di sghignazzi e di pernacchie; che conservano abbastanza lucidità intellettuale e onestà morale  per capire che il Bene e il Male, i buoni e i cattivi, non si dividono con una linea netta e sempre ben visibile, e, soprattutto, che chi crede di essere dalla parte giusta, forse è proprio quello che si sta ingannando, per un eccesso di presunzione etica e di orgoglio intellettuale...