Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Cesare Pavese è stato fascista?

Cesare Pavese è stato fascista?

di Pierfranco Bruni - 03/05/2016

Cesare Pavese è stato fascista?

Fonte: lavocedimaruggio

La storia “politica” di Cesare Pavese si intreccia con quella letteraria. Ma ha avuto veramente una “storia politica”? occorre necessariamente sfatare alcuni luoghi comuni e chiarire la sua posizione nei confronti soprattutto del Fascismo. L’importante è rileggere alcune pagine che danno un senso preciso del suo rapporto con la politica durante gli anni del fascismo e riconsiderare le sue posizione alla luce dei suoi scritti. Da qui si evince una visione abbastanza particolareggiata.

C’è immediatamente da precisare che Cesare Pavese risulta iscritto al Partito Nazionale Fascista dal 1933. Ciò lo si constata anche dalla Nota di “Denunzia per l’assegnazione al confino di polizia…” della Regia Questura di Roma, a firma del questore, datata Roma, II luglio 1935 –XIII.

In detta Nota, che riguardava una denunzia riferita a sette intellettuali compreso Pavese (gli altri erano Antonicelli Franco, Garosci Remo, Levi Alberto, Levi Carlo, Maffi Bruno, Muggia Giulio) al punto n. 7, riferito proprio a Pacese Cesare, si legge: “Pavese Cesare fu Eugenio: E’ iscritto al Partito dal 1933. è il direttore responsabile della rivista ‘La Cultura’ edita da Giulio Einaudi, alla quale ha dato anche la propria collaborazione letteraria./L’ambiente antifascista di detta Rivista è stato sufficientemente lumeggiato dall’Einaudi./Al Pavese vengono altresì imputati i rapporti mantenuti col Maffi Bruno, con la nota comunista Pizzardo Battistina, ed il favoreggiamento nella corrispondenza clandestina fra quest’ultima ed il Maffi allo scopo di eludere la vigilanza degli organi di Polizia./Infine frequentava assiduamente la casa della detta Professoressa, ove, come ha dichiarato il Maffi, sovente si parlava di teorie socialiste, teorie che la Pizzardo criticava come arretrate in confronto delle proprie più avanzate./Era uno dei più assidui frequentatori dei convegni di vario genere che si tenevano a Torino fra i componenti tutti il gruppo di antifascisti operanti, in vario modo; quelli denunziati al Tribunale Speciale o quelli che si colpiscono con provvedimenti di Polizia…”.

Le lettere che qui si ripropongono (soltanto in alcune parti) sono state pubblicate nel 1989 da Grisolia editore in un volume (“Cesare Pavese in Calabria”) di Giuseppe Neri. Le lettere non possono essere lette, comunque, in modo avulso dal contesto pavesiano. È naturale che vanno contestualizzate sia con la sua iscrizione al Partito, sia con la pubblicazione del Taccuino (agosto 1990) sia con una rilettura complessiva delle sue opere e in particolare di quelle dedicate al periodo della Resistenza.

scherma bruni legge libro

Perché Pavese, dunque, viene destinato al confino di polizia? Per aver fatto da intermediario nel ricevere lettere che erano destinate alla donna della voce rauca, ovvero a Tina Pizzardo. Questa è la verità. Non c’è alcun elemento di antifascismo nell’azione di Pavese. Ciò lo dimostrerà anche in seguito: sia con le missive dirette a Mussolini, sia con i suoi racconti, sia con annotazioni nel Taccuini pubblicati,come si è detto, nell’agosto del 1990 (si dice mai rintracciati prima o rimasti segreti) sia anche con la sua collaborazione alla rivista di Giuseppe Bottai “Primato”.

Alla Nota citata a firma del questore, nella quale si elencavano i capi d’accusa, Pavese risponde con delle lettere alle autorità preposte. C’è già una precisa indicazione in una lettera indirizzata alla Commissione Centrale per l’assegnazione a Confino di polizia presso il Ministero dell’Interno datata Roma, 20 luglio 1935, protocollata in data 25 luglio, nella quale si legge: “…il sottoscritto Cesare Pavese… Richiamandosi al memoriale presentato alla Commissione per l’assegnazione a Confino in data 12 luglio 1935 – XIII, dove dichiara i punti che furono materia d’interrogazione nell’istruttoria da lui subita in queste Carceri Giudiziarie di Roma il 14 e il 15 giugno 1935 – XIII, egli riafferma come né a Torino né tanto meno in Milano abbia mai svolto attività politica di sorta./Sui due punti che gli vennero contestati, la gerenza della rivista Cultura e la corrispondenza del dott. Bruno Maffi, egli ritiene di aver dato, nel memoriale del 12 luglio, le spiegazioni più sufficienti a precisare come questi due fatti non costituissero affatto da parte sua una manifestazione politica, e tanto meno antinazionale./Quanto al primo, la gerenza della Cultura, egli insiste sul carattere tutto letterario e scientifico della rivista … (…) riafferma la purezza delle sue intenzioni e del suo sentimento nazionale, in quanto personalmente invitò ed ottenne come nuovi collaboratori, vari suoi camerati torinesi, tra cui il prof. Giulio C. Argan, il prof. Adolfo Ruata, il prof. Carlo Dionisotti, il dott. Aldo Camerino, l’avv. Norberto Bobbio. E ripete che di più ne avrebbe riuniti, onde trasformare l’antica e nota rivista, in una più agile e aperta alla vita contemporanea, se il sequestro di un numero della rivista per l’ ‘inopportunità’ di un articolo di storia non lo avesse deciso a dare immediatamente le sue dimissioni, come risulta da istruttoria”.

È precisa la posizione di Pavese e sono chiare le “giustificazioni” o le motivazioni per le quali si trovava a dirigere la rivista da puro letterato e da completo impolitico. D’altronde alcuni dei collaboratori citati da Pavese e chiamati a rinforzare la rivista collaboreranno addirittura con la rivista “Primato” di Bottai. Giulio C. Argan sarà uno stretto collaboratore di Bottai per le politiche culturali. È lo stesso personaggio che diventerà comunista e sindaco comunista di Roma.

Pavese dirà di più sempre in questa lettera del 20 luglio 1935: “…Ripete che egli frequentava esclusivamente la signorina Pizzardo come buona camerata sportiva e mai con essa ebbe a tenere discorsi di natura politica./Riconosce tuttavia di aver dato prova di leggerezza frequentando, nella sua posizione, persone di cui conosceva i precedenti, ma fa presente l’attenuante che si trattava essenzialmente di vecchi compagni di studio o di relazioni professionali./Ricorda a questa On. Commissione i nomi dei due camerati torinesi, avv. Giuseppe Vaudegna, capo dell’Ufficio Legale Sindacati Fascisti di Asti e avv. Renato Chabod accademico del Club Alpino Italiano. Costoro, se interpellati, egli è sicuro vorranno deporre sulla sua buona fede e sul sentimento nazionale a loro provati da lunga intimità”.

A questa missiva seguiranno altre comunicazioni nelle quali Pavese cercherà di dimostrare sia la sua buona fede e sia il suo senso di appartenenza ai concetti fascisti e nazionali. Addirittura c’è anche una lettera della sorella di Cesare, Maria Sini Pavese, indirizzata a Benito Mussolini nella quale si richiama la “appartenenza al Partito Nazionale Fascista” di Pavese.

In una ulteriore lettera dello stesso Pavese indirizzata direttamente a Mussolini, datata 15 gennaio 1936 – XIV, si sottolinea richiamandosi alla precedente corrispondenza: “Il 20 luglio presentai un ricorso dove difendevo la mia buona fede in quel fatto che fu materia di istruttoria a mio riguardo. Aggiungevo inoltre che mai io mi ero sognato di fare della politica, di qualunque genere, e tanto meno dell’antifascismo; e che comunque per quel tanto di leggerezza dimostrato nel mio reato, riconoscevo la mancanza e chinavo il capo. (…)/Mi rivolgo all’Eccellenza Vostra come all’ultima speranza che mi rimane (…)/Non mi rivolsi sinora all’Eccellenza Vostra – benché consigliatone da parenti e beneficati che ne conoscono tutta l’umanità – per una naturale ripugnanza a intralciare con piccole cose la giornata di Chi ha ben altro cui attendere…”.

Il 20 febbraio 1936 Pavese si rivolge al Ministro dell’Interno accettando il provvedimento adottato dal Regime ma afferma come “…egli non sia mai stato un elemento dedito ad attività antinazionale e come il suo reato non fosse assolutamente una intenzionale manifestazione politica, ma solo una leggerezza commessa per amicizia. Riconosce comunque il provvedimento e fa atto di piena sottomissione”.

La missiva si conclude con queste parole: “Supplica l’Eccellenza Vostra di volergli concedere il condono… assicurando che in avvenire ogni suo passo sarà calcolato a difendere quell’ordine e interesse nazionale, di cui Vostra Eccellenza è supremo assertore”. Dopo queste richieste e dopo aver dimostrato non solo la sua buona fede ma soprattutto di non aver fatto dell’antifascismo, anzi di essere stato fedele ai principi della Nazione, viene disposto il “proscioglimento confinato Pavese Cesare”.

Tutto questo cosa sta a significare? Ci sono numerose attestazioni che provano certamente il suo non antifascismo ma dimostrano ancora di più il suo anticomunismo nonostante quello che avverrà dopo il 1945.

D’altronde i foglietti “segreti” ritrovati e pubblicati su “La Stampa” mercoledì 8 agosto 1990 contestualizzano chiaramente un personaggio controverso ma anche un intellettuale che “culturalmente” non disdegnava una adesione al fascismo. Non tanto la sua iscrizione al Pnf nel 1933, non solo le lettere scritte da Brancaleone, qui in parte citate, non tanto la sua collaborazione alla rivista di Bottai, “Primato” quanto piuttosto sia il romanzo La luna e i falò (un romanzo rigorosamente anticomunista e vicino alla condanna di una Resistenza violenta) sia il romanzo precedente La casa in collina (dove affiora un misticismo straordinario e una rilettura, ancora una volta, della guerra partigiana in termini già allora di revisione storica) sia soprattutto il grappolo di foglietti apparsi, come si diceva, nel 1990.

Foglietti scritti tra il 1942 e il 1943. Si legge: “Noi siamo entrati in guerra poco preparati eppure resistiamo da due anni (ag. ’42). Chi l’avrebbe detto? Quando sarà finita dovrai rivedere tutte le tue idee sull’anima nazionale. Non sapevi che esisteva eppure eccola!”. “Il fasc. aveva posto dei problemi, se anche non tutti risolti. Questi salami negano fascis. e problemi e poi dicono che saranno risolti. Chi si vuol coglionare?”. “La guerra è destino come l’amore. Non siamo preparati. Ma se resistiamo da tre anni!”.

E qui entriamo proprio nel campo della “sua” concezione del fascismo: “Il f. non solo ha dato l’unità all’Italia, ma ora tende a dargliela repubblicana – contro l’opinione che in It. la repubbl. siano le repubbl. Naturale che incontri resistenza e sembri lacerarne la coscienza. Ma è il male della crescita”.

Si spinge anche oltre sino a commentare il programma venuto fuori dalla prima assemblea di Verona. Siamo nel novembre del 1943 e a Verona si discute della Repubblica del lavoro e di socializzazione e Pavese annota: “Il manifesto di Verona – purché sia sincero – mostra la tendenza che qualcuno auspicava da anni. Nessuno può negare che di fronte all’inconcludenza di agosto, esso affronti la responsabilità. Purchè sia sincero. Perché non dovrebbe esserlo? Siamo in un momento in cui non abbiamo più nulla da perdere e tutto da guadagnare. Tutto”.

E subito dopo ancora annota: “Solo gli antif. sanno il pregio del f.: tutto ciò che loro manca. E s’è visto che mancavano di tutto”. Il Pavese vichiano e gentiliano ha una sua forza interiore. Il senso etico che dà alla cultura resta fondamentale e da qui alla maturazione verso una idea forte di Nazione. In un altro dettaglio scrive: “…Gli intellettuali hanno contato troppo nella vita italiana. Essi sono vili, litigiosi, vanitosi. Bisogna tornare allo Stato, alle personalità politiche, superiori a quelli della cultura. Dicono che sarebbe barbarie, ma non è vero. Sarebbe ordine”.

Qui tocchiamo proprio il concetto dell’anti Gramsci e quindi dell’organicità dell’intellettuale in funzione di un legame Nietzsche – Gentile. Insomma un Pavese anticomunista ci sta tutto come un Pavese che “lavorava” intorno a modelli etici espressi proprio durante il Regime.

Non si può dire, leggendo questi foglietti, (insieme alle sue lettere e a tutto il resto), che Pavese non accettasse la visione posta da Giuseppe Bottai con “Primato” né tanto meno che la sua iscrizione al Pnf del 1933 fosse un fatto casuale ma, considerati il vissuto nei suoi processi culturali e ideali, consapevole.

Non è da trascurare, dunque, una visione di un Pavese fascista. Da qui bisognerebbe partire per rileggerlo e certamente per ricontestualizzare i suoi scritti penetrando sia il tessuto letterario che umano. Il suo rapporto con “Primato”, se pur occasionale, resta fondamentale.

A Cesare Pavese, infatti, “Primato” apre abbondantemente le sue pagine. Oltre a pubblicare alcuni racconti (si pensi a “L’avventura” sul numero 17 dell’1 settembre 1941 o a “La giacchetta di cuoio” sul numero 2 del 15 gennaio del 1942 o ancora “Il mare” sui numeri 23 e 24 dell’1 e del 15 dicembre 1942) che sono delle pietre miliari nel progetto creativo pavesiano, Eugenio Galvano recensisce “Paesi tuoi” sul numero 14 del 15 luglio del 1941 con queste cesellature: “Certo l’opera è stata concepita in piemontese; con un risultato tuttavia italianissimo, da considerare anche sotto l’aspetto linguistico come un apporto notevole, oltre che ammirevole per gli effetti e le possibilità fantastiche che ne derivano. Non c’è quasi distacco fra la materia di questo racconto e il suo stile”.

E poi aggiunge: “… la nostalgia di un mondo che in ogni istante perdiamo come mondo reale e riconquistiamo come mondo poetico”.

Non c’è “provincialismo” in questo dire! Ma è il romanzo di Pavese che richiama una identità del sentire nostalgico in cui il tempo della città non coincide con quello della campagna in forma reale ma vive all’interno di un processo che è tematico e poetico. Pavese racconta nella provincia l’identità della letteratura. Una letteratura che si fa avventura e destino. Un’immagine che è un’icona.

Pavese in “L’avventura” (e poi nei Racconti): “Allora finse di passeggiare e attraversò la piazzetta. Era acciottolata in modo ineguale e vi sbucava un vicolo più stretto. Quando vi giunse Sandra levò il capo perché dall’alto udì una voce rauca e si mosse qualcosa e, davanti, le piombò uno scroscio d’acqua. Non ebbe il tempo d’imprecare che le apparve in fondo al vicolo, luminoso e lontano, lo spicchio celeste del mare”.

Il Pavese della nostalgia, del mito, dell’infanzia che mai si perde e dei grandi paesaggi è il Pavese che non smarrisce il senso della sua identità e di una identità che resta nazionale. Anche in questo Nietzsche e Mircea Eliade restano fondamentali.

In un suo foglietto si legge: “…Ci vuole l’amor fati di Nietzsche”. Questo “amor fati” è in tutta la sua vita: “Nei pensieri dell’adolescenza c’è già tutto: basta saperlo dedurre e portare a chiarezza”.

Pavese oltre la cronaca ma dentro le viscere stesse della storia. Una storia tra letteratura – mito e identità nazionale. Il mito eliadiano ha una sua particolare importanza perché è proprio dal concetto di nostalgia e di tradizione che il Pavese non ideologico assurge a poeta del ritorno lungo i viaggi indefinibili della memoria.