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Berto Ricci: libro e potenza

di Francesco Lamendola - 09/05/2016

Berto Ricci: libro e potenza

Fonte: Il Corriere delle regioni

Berto Ricci, all’anagrafe Roberto Ricci (nato a Firenze il 21 maggio 1905 e caduto sul fronte libico, a Bir Gandula, sotto le raffiche di uno Spitfire britannico, il 2 febbraio 1941) continua ad inquietare con la sua fragorosa assenza. La grande maggioranza degli Italiani non lo conosce; pochi lo ricordano, ma in maniera vaga e confusa; i giovani non sanno neppure chi sia stato, ignorano perfino il suo nome. La recentissima Enciclopedia Biografica Universale della Treccani, per esempio, non gli dedica nemmeno un rigo. Eppure egli è stato un grande uomo: forse non un grande pensatore, ma sicuramente un pensatore originale; e, nello stesso tempo, un formidabile organizzatore culturale, nonché, per coloro che l’hanno conosciuto, un maestro. È stato anche un uomo, un vero uomo, un uomo tutto d’un pezzo; uno che, nel calor bianco della Seconda guerra mondiale, giunto il momento di tradurre in azione gli slogan e le frasi roboanti del fascismo, mentre molti, troppi, si facevano raccomandare per restare a casa, per venir dichiarati malati di cuore o unico sostegno delle vecchie madri, lui si faceva raccomandare per… andare al fronte; che, nel pieno della battaglia, non si chinava nemmeno per scansare i proiettili: e cadde così, a fronte alta, guardando dritto il nemico; uno, infine, che, nella repubblica di Pulcinella nata dopo il 25 aprile del 1945, crediamo, si sarebbe trovato non poco a disagio, in mezzo a tanta viltà, ipocrisia e a tanta disinvoltura nel voltare gabbana e saltar sul carro del vincitore.

Non intendiamo qui discutere l’insieme delle concezioni politiche, sociali e culturali di Berto Ricci: esistono degli studi al riguardo; e altri, speriamo, verranno, perché prima o poi questa Italia avvilita e conformista sarà letteralmente costretta a confrontarsi con la memoria e l’esempio dei suoi figli migliori, dimenticati per distrazione o per calcolo, per ignoranza o per opportunismo; verrà il tempo in cui tanti che oggi, o fino a ieri, hanno occupato quasi tutti gli spazi del dibattito culturale e dell’informazione, scivoleranno nel nulla di cui sono fatti, mentre uomini di sostanza e di coerenza, come Berto Ricci, verranno riscoperti, studiati, presi a modello, se non altro per le loro magnifiche virtù umane, qualsiasi cosa si possa pensare delle loro specifiche posizioni ideologiche. Ché non tutto, nel pensiero di Berto Ricci, in quel guazzabuglio che è stata la sua filosofia politica, ci sembra condivisibile; anzi, molto ci sembra il pedaggio da lui pagato - da lui pur così intellettualmente e moralmente libero - a certe mode o tendenze del momento: dal vitalismo esasperato al ribellismo anarcoide, dal rivoluzionarismo permanente a un confuso e velleitario neopaganesimo fascista. Ma tutto, o quasi tutto, in lui, è frutto di un autentico travaglio interiore, di una ricerca assidua, esigente e intransigente; ed è genuino, spontaneo, sentito, sinceramente sofferto; le sue stesse contraddizioni – come quella fra il ruralismo di Strapaese, alla Mino Maccari, e l’universalismo della rivista da lui fondata come espressione dei G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti); o come quella fra la dichiarata volontà di valorizzare la cultura e la tradizione italiane, e quindi in primo luogo il cattolicesimo (come aveva insegnato Papini), e la pretesa di rifonderle in una nuova concezione, in qualche modo pagana, e, appunto, universalistica, cioè cosmopolita -, se tolgono qualcosa alla sua statura di pensatore, arricchiscono e impreziosiscono la sua caratura di’intellettuale onesto: uno dei pochi, uno dei veri, in mezzo a legioni di fanfaroni, di servi e di arrivisti.

Indro Montanelli, che si è sempre considerato un suo discepolo, non ha esitato – esempio raro, a sua volta, di lealtà postuma e di rigore etico – a ricordare, più volte, il suo debito verso di lui; ne ha sempre parlato con rispetto e ammirazione; e ne ha fatto il simbolo di un “altro” fascismo, che, nella storia d’Italia, non è stato affatto spregevole, né insignificante, e qualcosa avrebbe potuto trasmettere in eredità alle nuove generazioni, se non fosse stato accomunato con l’altro, quello parolaio e cialtrone, in un’unica, impietosa, giacobina damnatio memoriae. Montanelli soleva dire – ed era affermazione coraggiosa, stante la cappa pesantissima di conformismo e servilismo culturali – che il fascismo non è stato solamente salti nel cerchio di fuoco dei gerarchi, ed altre consimili pagliacciate, che hanno avvilito gli Italiani agli occhi del mondo ed ai loro stessi occhi; è stato rappresentato anche da uomini come Berto Ricci.

La cultura comunista, in particolare, che, dal 1945 e fino quasi ad oggi, anzi, proprio fino ad oggi, si è eretta e autonominata a Cultura con la lettera maiuscola, riservando sopportazione o dileggio a tutti gli altri indirizzi, aveva tutto l’interesse a far scivolare nel dimenticatoio uno come Berto Ricci, proprio per avocare a sé l’esclusiva dello spirito sociale e antiborghese, che, invece, fu una tipica componente del fascismo di sinistra, cui Ricci apparteneva. Essa non ha potuto negare del tutto quella componente, anche perché da essa sono usciti i vari Bilenchi, i vari Vittorini coi loro bottoni di Stalingrado e coi loro garofani rossi; però ha fatto in modo di circoscriverla a un episodio secondario, marginale, velleitario e sostanzialmente ininfluente. Perché, se si potevano recuperare - e di fatto si recuperarono - Vittorini e Bilenchi, e perfino Malaparte, al monopolio culturale della sinistra marxista, ciò non si poteva fare per un Berto Ricci, che, caduto sul campo di battaglia, non aveva avuto la possibilità di “ravvedersi” e di “redimersi”, come gli altri, e, quindi, avrebbe potuto ricordare una scomoda (per essa) verità: che il fascismo è stato, fin dall’inizio, una “cosa” di sinistra, non di destra; che il fascismo, divenuto regime, si è sempre più spostato a destra, quanto più le altre forze politiche, e specialmente socialisti e comunisti, rifiutavano qualunque ipotesi di dialogo o di patto sociale, pur offerto da Mussolini sul piano politico, e, poi, da Bottai, sul piano culturale. In altre parole, la sinistra social-comunista avrebbe dovuto rendere ragione, anche sul piano culturale, di aver preferito coltivare il disegno di una rivincita sanguinosa, cioè di una guerra civile (e questo già fin dal 1936: con il famigerato: Oggi in Spagna, domani in Italia; e non, come le anime belle si ostinano a tramandare, solo dopo l’8 settembre del 1943, quasi per cause di forza maggiore, cioè per “salvare la libertà e l’onore nazionale”), ad una possibile collaborazione con una componente nuova, viva e vitale, della società e della cultura italiane: quella sorta dalla fucina della Prima guerra mondiale, e specialmente dallo “spirito del Piave”, dalla rinascita italiana verificatasi, fra lo sbalordimento di amici e nemici, a partire dal novembre del 1917, nel momento più buio e minaccioso della nostra storia nazionale di allora.

È allora, infatti, che è nato quell’insieme di forze morali e intellettuali le quali, nel 1919, si coaguleranno intorno ai Fasci di combattimento: i quali richiamano, fin dal nome, quei Fasci dei lavoratori che, a fine Ottocento, avevano animato vigorosamente il panorama della sinistra italiana e delle lotte sociali, anticapitaliste e antiborghesi. Quello spirito nuovo nasce nel tragico autunno del 1917, quando la guerra italiana diventa, per la prima volta, popolare; quando coinvolge il popolo italiano nel profondo, e trasforma gli sbandati di Caporetto negli eroi del Piave; e quando l’Italia ufficiale, la finanza, la grande industria, la Massoneria, al contrario, esitano, dubitano, disperano, meditano la resa (come avrebbero poi fatto, complice e strumento la monarchia sabauda, nel 1943). Ed è quello spirito, autenticamente popolare, autenticamente nazionale, che il Fascismo ha cercato di intercettare, di valorizzare, di porre a fondamento della società italiana del primo dopoguerra: mentre i socialisti non sapevano far di meglio che sputare sui reduci, sulle loro stampelle e sulle loro medaglie; i cattolici non sapevano far di meglio che coltivare il loro orticello; e i comunisti non sapevano far di meglio che sognare la Rivoluzione d’Ottobre in versione nostrana, senza peraltro prepararla, ma soltanto invocandola a parole, con strepito grottesco, e attirandosi, così, il meritato castigo della controrivoluzione preventiva da parte della borghesia. Ma tutto questo, dopo il 1945, non si è potuto dire: avrebbe incrinato il quadro della verità “ufficiale” elaborato dalle forze democratiche e antifasciste; avrebbe aperto qualche falla, insinuato qualche dubbio, suscitato qualche scomodo interrogativo: e così è stato imbalsamato e tramandato, cadavere vivente e semi-putrefatto, per anni, per decenni, attraverso tutti i mutamenti, tutti gli scandali, le Tangentopoli, le sconcezze ed il progressivo degrado della vita politica, culturale e morale del Paese.

Vale la pena, dunque, di andarsi a rileggere quel che Berto Ricci scriveva del rapporto fra cultura e azione, sul numero di agosto 1938 della rivista Campo di Marte (in: Giuliano Manacorda, Letteratura e cultura del periodo fascista, Milano, Principato Editore, 1974, p. 220):

 

È stato detto: “elevazione materiale e morale del popolo italiano”. Questo significa una somma di doveri per chi deve elevarsi e per chi deve elevare. I primi non possono far dimenticar ei secondi e viceversa.

Nel caso del libro: doveri del pubblico che legge (o che non legge affatto) e doveri degli scrittori.

Il pubblico, o diciamo meglio il popolo (perché “pubblico” è parola neutrale, parola-anguilla, buona per le democrazie borghesi), deve pensare che non c’è potenza italiana e non c’è luce umana se le idee seguitano a circolare per sempre nel cerchio ristretto dei lettori di professione; che tutte le conquiste sociali sono effimere, sono perdute, se la cultura media non si accresce in proporzione. Una repubblica di intellettuali non durerebbe un mese, ma un Impero di ignoranti è costruzione fragile, perché dove non c’è istruzione non c’è consapevolezza, dove manca la consapevolezza  manca quell’unità costante dei voleri, che il fuoco eroico della fede non può bastare a produrre.  La cultura è forza, è potere degli uomini e delle Nazioni. Non basta dire: abbiamo i muscoli e l’intelligenza. Come i muscoli, se non sono allenati dalla volontà, restano carne inutile,  così l’intelligenza non esercitata nel suo stadio, che è la cultura, resta ricchezza improduttiva.

Gli scrittori devono pensare al popolo. Pensarci non demagogicamente, cioè per soddisfarlo e per servirlo, ma scrivendo – quando possono – per farsi capire dai più e non soltanto dai pochi. Io ho smesso di credere nei salotti da quando si chiuse quello della contessa Maffei [che tenne in Milano un famoso salotto letterario; ella visse dal 1814 al 1886 e quindi Berto Ricci, nato nel nuovo secolo, non poté conoscerla, se non dai libri: come dire che egli considerava la “stagione” dei salotti culturali chiusa per sempre con l’Ottocento]. Vedo per le strade molta gente in tuta da lavoro, che non conosce lingue estere, e non ha troppo tempo per pensare. Non sapersi muovere tra codesta gente vuol dire non muoversi affatto.

 

Certo, anche la posizione di Berto Ricci era contraddittoria – lo abbiamo già detto -, rispetto alle dinamiche che portarono all’isolamento del fascismo e lo sospinsero verso la dittatura, mentre le opposizioni rivendicavano per sé sole, ma in modo sterile, ogni purezza politica, culturale e morale, e scaricavano sul fascismo, che aveva tentato di far rivivere lo spirito del Piave, tutte le colpe, le nefandezze, le ottusità; come del resto avrebbero fatto, e stavolta con il coltello dalla parte del manico, e con tutti gli strumenti per sostenere la loro verità parziale, ossia la loro menzogna (perché una verità parziale è sempre una menzogna) dopo il 25 aprile 1945, per oltre settant’anni, con incrollabile presunzione, senza mai deflettere dalla propria pretesa di monopolio etico.

Berto Ricci odiava lo spirito borghese (non la borghesia in se stessa: tanto più avanti, dunque, culturalmente e moralmente, del fanatico e sanguinoso settarismo marxista-leninista), e voleva combattere non solo gli Inglesi di fuori, ma anche quelli di dentro: cioè tutti quegli Italiani che, standosene comodamente sdraiati nei loro salotti, vivevano sfruttando il lavoro altrui, la fatica altrui, l’onestà altrui, preparandosi a qualunque compromesso, a qualunque viltà, a qualunque tradimento, anche con il nemico esterno, pur di conservare all’infinito le loro posizioni di rendita, di privilegio, di prevaricazione.

Ora, sappiamo benissimo che, anche dentro il fascismo, e specialmente dentro il fascismo come regime, vi erano quegli “Inglesi” di cui parlava, appunto, Berto Ricci; e dunque, per usare una terminologia cara, allora, alla propaganda fascista, che la Seconda guerra mondiale è stata un episodio dell’eterna guerra dell’oro contro il sangue; e che il regime aveva molte, troppe colpe rispetto al vicolo cieco nel quale l’Italia aveva finito per trovarsi in quello snodo cruciale della sua esistenza di giovane nazione indipendente. Sta di fatto, però, che Berto Ricci – come appare anche dal brano sopra riportato – ha mostrato, pur con tutti i limiti e le contraddizioni di cui si è detto, una autentica apertura nei confronti di una questione, il rapporto fra cultura e società, fra intellettuali e popolo, che, fino ad allora, era sempre rimasta disattesa, inevasa, se pure qualche scrittore e qualche pensatore si erano degnati di porsela. In confronto al velleitarismo di un Piero Gobetti, con la sua “rivoluzione liberale” fortemente venata di rosso; o in confronto al cinico attendismo di quei vecchi arnesi, come Gaetano Salvemini, i quali non seppero far di meglio che espatriare e attizzare abbastanza odio contro il fascismo, da poter poi tornare in Italia come vincitori, egli fu un gigante…