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Addio a un vecchio "repubblichino"

di Franco Cardini - 29/05/2016

Addio a un vecchio "repubblichino"

Fonte: Franco Cardini

E’ un periodo davvero nodale, quello che viviamo: un momento nel quale una pluralità di segni – saranno “casuali”: però… – sembra indicarci come il nostro mondo stia per voltar pagina. Solo nel mondo italiano della cultura, dello spettacolo e della politica, la scomparsa a ruota di un Eco e di un Pannella non può lasciar indifferenti. E’ un’epoca della nostra storia che se ne va.

E ora Giorgio Albertazzi, mancato il 28 maggio scorso. Non certo una morte prematura, a 92 anni. Ma un’altra voce che viene a mancarci, un’altra luce che si spenge. Nel suo caso, poi, il dolore per un addio pur annunziato – da tempo non stava più bene – viene adesso turbato dall’onda di vecchie, inopportune, ingenerose polemiche.

Forse, nella lontana origine di esse, sta un suo errore. Per molti anni lui al pari di molti altri – da Dario Fo a Ugo Tognazzi, da Walter Chiari a Sergio Vivarelli – aveva fatto il possibile per mantener nascosto un “peccato di gioventù” (se non di adolescenza): l’adesione alla Repubblica Sociale Italiana, la militanza nell’esercito dei “ragazzi di Salò”. Va ricordato che, negli Anni Sessanta-Settanta, fu abbastanza frequente che alcune tra le personalità dello spettacolo passate attraverso quell’esperienza approdassero esplicitamente all’adesione al socialismo o a simpatìe per esso: il che, tra l’altro, non era cosa affatto peregrina. Albertazzzi fu tra loro.

Poi vennero l’onda lunga del Sessantotto e gli Anni di Piombo, gli anni della contestazione universitaria dura e del terrorismo tanto “rosso” quanto “nero” (o supposti tali). In quell’occasione, un incidente occorso all’Università di Torino gettò in pasto all’opinione pubblica un’indigesta primizia: Albertazzi era stato fascista e ufficiale nell’ultimo esercito del Duce; nel ’44, sul fronte del fiume Paglia nelle Marche, aveva anche comandato la fucilazione di un disertore e renitente alla leva. A Torino, gli studenti di sinistra avevano per tale motivo impedito una sua prestazione artistica.

Si difese, prima provò a minimizzare, poi reagì duramente: anzi, passò all’attacco, difese le sue scelte, parlò di un suo familiare duramente pestato dai “comunisti”, affermò di non poter sopportare i “rossi”.

Forse fece male, probabilmente l’inatteso attacco lo aveva gettato nel pànico: ma comunque la sua reazione era giustificata. Al di là dei suoi personali sentimenti, egli altro non aveva fatto se non rispondere alla “leva Graziani”. Altri fecero altre scelte: ma non si può giudicare e condannare queste cose né col senno del poi, né alla luce di chi avesse “ragione” e chi “torto”. In queste cose, a oltre settant’anni di distanza, può valere solo il criterio della sincerità, dell’onestà e della buonafede con le quali alcuni finirono per combattere nel nome della libertà della patria, altri in quello del suo onore e della fedeltà rispetto all’alleato con il quale il nostro paese si era allineato all’inizio del conflitto. Giocarono in ciò fattori molteplici, a cominciare dall’esperienza personale e familiare; e, per quel che si sa dalla folta memorialistica di cui oggi disponiamo, spesso furono il caso, la coincidenza, le circostanze fortuite a determinare il passaggio a questa o a quella delle varie formazioni armate della Resistenza, o l’adesione alle truppe di Salò, o a quelle del “regno del sud”, o la pura e semplice diserzione.

Anche molti che avrebbero dato un sicuro contributo alla riflessione antifascista erano passati attraverso l’esperienza “repubblichina”. Leggete il bel diario degli anni 1943-45 lasciatoci scritto da Roberto Vivarelli, senese, e ora ripubblicato dal Mulino di Bologna. Vivarelli è stato uno dei migliori nostri storici contemporaneisti del Novecento: e proprio sul fascismo ha scritto pagine autorevoli, bellissime e molto severe. Figlio di un fascista onesto caduto in guerra, Vivarelli trovò del tutto naturale oltre che onorevole combattere, tredicenne-quindicenne, in una formazione della RSI: e ne sopportò dure consequenze. Fu anche mio docente negli Anni Sessanta: e posso attestarne il vivo, sincero anche se equilibrato antifascismo, che tuttavia non lo condusse a rinnegare quell’esperienza giovanile della quale alla fine, “si liberò” appunto scrivendone e riflettendo su quel che allora sembrava naturale e doveroso, su quel che allora nessuno poteva sapere, su quel che solo più tardi sarebbe apparso lampante.

Ma su Albertazzi gravava un addebito ulteriore, un’accusa infamante: sarebbe stato un “fucilatore”. Sappiamo bene che in tempo di guerra valgono le leggi marziali: un ufficiale subalterno, cui fosse stato impartito l’ordine di comandare un’esecuzione, non poteva sottrarsi pena la morte. Avrebbe, certo, potuto trovare una “scappatoia all’italiana”: che so, fingere un malore. Ma, a parte il rischio di venire smascherato, quella sì che sarebbe stata un’azione disonorevole. Si assunse le sue responsabilità: ed era del tutto credibile nel protestare di averlo fatto malvolentieri.

Sette decenni dopo questi lontani avvenimenti, è giunto il tempo di riflettere su di essi con severa serenità, con realismo storico, con rispetto per tutti: per i vincitori come per i vinti; e sugli errori che – al di là dei crimini – entrambi hanno commesso. Non si tratta di “sanatorie”: non c’è nulla da assolvere né da condannare, c’è solo da comprendere (non nel senso dell’indulgenza, ma in quello della comprensione dei fatti storici nella loro intima struttura e nella loro profonda realtà). Il “Fattore K” e il “Fattore F”, il comunismo e il fascismo, il totalitarismo e la seconda guerra mondiale, sono stati il Cuore di Tenebra del Novecento. Tutti noialtri, nati fra l’ultimo quarto del XIX secolo e si può dire l’intero XX, siamo stati coinvolti in esse o nelle loro prossime o remote conseguenze. E’ come con i complessi secondo Freud: accettiamoli, facciamocene una ragione. E’ l’unico modo per dominarli, per non venirne travolti. D’altronde, il tempo, come si dice, è Galantuomo; ed è anche medico eccellente di ferite anche gravi.

Nella mia famiglia, fatta di popolani di San Frediano, ci sono stati partigiani e “repubblichini”. Ho chiesto più volte a ciascuno di loro, separatamente, se avessero mai ammazzato qualcuno. Mi hanno tutti risposto nella stessa maniera: “Grazie a Dio, non mi è mai capitato”. Non so se tutti sono stati sinceri: credo di sì, e soprattutto prego che lo siano stati. Ma ora che se ne sono andati e che io sono vecchio, capisco che quel che conta non è che mi abbiano o no detto la verità. E’ quel “grazie a Dio”, veritiero o no che sia stato: perché credo sia stato sempre sincero nell’ispirazione che lo guidava.