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Avventure e disavventure della magia, da Giuliano il Teurgo a Julius Evola

di Alessandro Giuli - 07/06/2016

Avventure e disavventure della magia, da Giuliano il Teurgo a Julius Evola

Fonte: Il Foglio

Terminata la lettura, saltellando su internet mi è capitato di vedere una foto che ritrae un signore attempato e biancheggiante, avvolto da una specie di mantello dorato che sembra una coperta termica di quelle con cui vengono soccorsi i feriti o i migranti initirizziti dopo lo sbarco, dava l’idea di un gianduiotto mezzo scartato e mezzo no. Secondo l’autore dello scatto si tratta di Tonelli che legge alcuni passi degli Oracoli. Non voglio crederci. Però, a vedere quella foto, a leggere la didascalia, mi è venuto in mente il volto glaciale di Evola, quasi a dirmi: teurghi contemporanei a beneficio di telefonini e telecamere… pfui…
  

Anni fa, con un amico giovane ma mezzo sordo, mi misi a declamare pomposo le parole che un insigne orientalista aveva usato per descrivere le qualità profonde di Julius Evola (1898-1974) – quell’Evola lì? Sì, lui –: “Evola era un grande mago, un mago naturale”. E l’amico, annuendo: “Sì sì, magrissimo!”. Longilineo senz’altro, ho concluso, sicuro d’essermi meritato quella risposta. Non ho cambiato idea, su Evola e la sua dote di spietrificare la realtà, fluidificarla, farne magma – dalla stessa radice di magia e maestro: mag, che rinvia alla grandezza in senso ontologico, prima che temporale o fisico, da cui anche Maiores – e rimodellarla secondo i canoni della natura rerum. Un teurgo alla maniera degli antichi, Evola? Forse, sebbene in fatto di teurgia bisogna mantenere severe riserve, lì dove si manifesta puntuale lo scarto tra la possenza della teoria e gli sfarfallamenti della pratica, fra sedicenti sciamani alle prese con “il fiore dell’intuire”, pupille o pupilli medianici, magnetizzatori improvvisati e visioni farlocche se non peggio (sfaldamenti evasionistici, avrebbe detto Evola, che pure di queste cose trattò nei suoi scritti esoterici e parlò a voce con pochi intimi e operativi). Ho da poco riletto, per esempio, gli Oracoli caldaici di Giuliano il Teurgo, ora ripubblicati da Bompiani.
E’ un testo che può rapire la fantasia e incatenarla all’avventatezza, ma è anche denso di sapienti e remoti echi che in età tarda vennero sistematizzati in varie e spesso spurie versioni. L’introduzione dello specialista Angelo Tonelli ha qualcosa di realmente ispirato, e si chiude così: “In realtà, per i teurghi, l’uomo può essere superiore al dio in virtù della propria consapevole sofferenza, che gli consente di riconoscere il limite della propria natura, e di tentare una dilatazione cosmica della sua anima e del suo noùs, attraverso l’identificazione mistica con il noetòn. Animato da questa speranza, può dominare la forza divina che ha dentro di sé… in armonia con le leggi impalpabili del cosmo”. Gran finale: “Divino è il mondo, nella sua radice. Divino è il teurgo, e illuminata la sua carne”. Che vi dicevo? Terminata la lettura, saltellando su internet mi è capitato di vedere una foto che ritrae un signore attempato e biancheggiante, avvolto da una specie di mantello dorato che sembra una coperta termica di quelle con cui vengono soccorsi i feriti o i migranti initirizziti dopo lo sbarco, dava l’idea di un gianduiotto mezzo scartato e mezzo no. Secondo l’autore dello scatto si tratta di Tonelli che legge alcuni passi degli Oracoli. Non voglio crederci. Però, a vedere quella foto, a leggere la didascalia, mi è venuto in mente il volto glaciale di Evola, quasi a dirmi: teurghi contemporanei a beneficio di telefonini e telecamere… pfui… Allora mi sono anche ricordato di una frase letta da poco in un notevole libro accademico (Giancarlo Rinaldi, “Pagani e cristiani. La storia di un conflitto”, Carocci editore).
E’ un passo epistolare, giudicato apocrifo, attribuito dalla Historia Augusta all’imperatore Adriano e che rende bene la diffidenza d’un Vir romano di fronte ai sedicenti teurghi, la maggior parte dei quali cincischiano con ascendenze egizie: “Quell’Egitto che tu mi lodavi a me ha dato l’impressione di una terra di gente leggera, indecisa e pronta a mutar partito a ogni occasione. Laggiù gli adoratori di Serapide sono cristiani, e quelli che si dicono vescovi di Cristo sono devoti di Serapide. Non c’è capo di sinagoga giudea, samaritano o sacerdote cristiano che non sia anche astrologo, aruspice o praticone. Lo stesso patriarca, testé arrivato in Egitto, per accontentare tutti è costretto ad adorare ora Serapide ora Cristo. Si tratta di gente incostante, insolente e irrequieta, anche se vive in un ambiente ricco e produttivo… l’unico loro dio, però, è il denaro…”. Di Evola, “mag(r)o nato” si possono dire molte cose e infatti ne sono state dette e scritte d’ogni genere, per lo più antipatizzanti, alcune enormemente false, mai però che amasse il denaro. Adesso un suo serio e noto studioso, persona a me cara e che nei confronti del filosofo romano ha dimostrato una venerazione sedimentata negli anni in dediziosa costanza, Gianfranco de Turris, ha dato alle stampe un libro interessantissimo: “Julius Evola. Un filosofo in guerra – 1943-1945”, Mursia). E’ un testo pieno di documenti e testimonianze inedite sulle oscure vicissitudini che riguardarono Evola sul finire della Seconda guerra mondiale, in particolare a proposito dell’incidente (gli effetti di un bombardamento) di cui fu vittima il 21 gennaio del 1945, a Vienna, mentre sotto falso nome e per conto dei tedeschi stava studiando alcuni rari documenti esoterici (massoneria) provenienti da ogni parte d’Europa. Materia di ermeneutica teurgica, secondo alcuni studiosi; ovvero controspionaggio occulto, se non addirittura guerra magica! Chissà. Evola fu sempre reticente al riguardo, disse che gli dèi avevano “fatto pesare un po’ troppo la mano nel mio scherzare con loro” (rimase paralizzato fino alla morte).
Fra le persone che si presero cura di lui, l’avvocato Goffredo Pistoni il quale propiziò un contatto, e poi un incontro, tra Evola e il celebre poeta e sacerdote cattolico Clemente Rebora, cui il filosofo scrisse di sé: “… quell’incidente è stato come una risposta enigmatica al mio chiedere – attraverso l’espormi al pericolo – se alla mia vita terrena potesse esser posto un fine”. Rebora, di rimando, gli propose un viaggio a Lourdes (scherzo da prete?) ottenendo una risposta, diciamo così, teurgica: “La ringrazio sinceramente per la pena… Accennerò che a Lourdes dovrei andare per chiedere, in sede di grazia, che l’impedimento fisico sia rimosso. Ora, Le ho già detto quanto poco questa cosa mi significhi, e anche se il male fosse assai più grave, non per cose di questo genere un uomo degno di questo nome dovrebbe rivolgersi al sovrannaturale… Se una grazia dovessi chiedere, sarebbe piuttosto quella di capire il senso che, in sede di spirito, ha ciò che è accaduto…”. Quindici anni dopo, nel 1963, Evola ammetterà in pubblico che “la nebbia a tale riguardo non si è ancora sfittita”. Sono anche questi i segreti della teurgia.