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«Si sente passare nella notte una corrente che accende lumi, perché non ci perdiamo»

di Francesco Lamendola - 05/07/2016

«Si sente passare nella notte una corrente che accende lumi, perché non ci perdiamo»

Fonte: Il Corriere delle regioni

La storia, considerata da un’ottica puramente umana, è una galleria di errori ed orrori: si prova un senso di soffocamento e persino di nausea nel vedere come, nel mutare degli scenari e dei secoli, sempre si ripetono e si rinnovano le stesse vicende di fioritura e decadenza, oppressione e rivolta, tracotanza e sconfitta, così all’interno della vita dei popoli, come nelle loro relazioni reciproche. C’è poco da fare: chi non possiede che una idea materialistica dell’uomo, non riuscirà mai a vedere nella storia nulla che conferisca un senso realmente appagante alle vicende delle nazioni e delle civiltà, nulla che valga a esorcizzare i fantasmi incombenti del nulla e della morte, del silenzio e dell’oblio. Quante nazioni e quante civiltà sono state risucchiate nel nulla e nel silenzio dell’oblio? Quante città sono state ricoperte dalla sabbia o inghiottite dalla foresta, quanti splendidi monumenti sono stati abbattuti dalle guerre o dai terremoti, quanti poemi e trattati sono stati divorati dalle fiamme e dalle tarme, quanti culti e religioni sono stati dimenticati per sempre, seppelliti insieme alle macerie dei popoli che li praticarono?

Viene da chiedersi, con tristezza e malinconia, a che scopo tanti uomini siano vissuti e abbiano lavorato, lottato, creduto e sperato; a che scopo tanti artisti abbiamo creato le loro opere, tanti poeti abbiano composto i loro poemi, tanti scienziati abbiano indagato i segreti della natura, tanti filosofi abbiano tentato di scoprire i principi universali che legano insieme tutte le cose; viene da chiedersi a che scopo tanti soldati abbiano dato la vita per amore della patria, tante spose abbiano pianto la morte dei loro mariti e dei loro figli, tante famiglie siano state colpite nei loro affetti più sacri, tanti contadini abbiano arato e seminato i loro campi, tanti pescatori abbiano affrontato le onde del mare per procurare di che vivere ai loro cari, tanti operai si siano affaticati nelle fonderie, o alla catena di montaggio, e tanti minatori abbiamo rischiato la vita e la salute per estrarre il minerale dalle più profonde e buie gallerie scavate sotto la superficie della terra, dove mai non entra un raggio di sole. E perché tanti bambini sono venuti al mondo, perché tanti giovani si sono affaticati sui libri, perché tanti adulti hanno speso le loro energie migliori nel lavoro, nello studio, nell’amore, nella guerra, nella fede religiosa? Perché tanti uomini e donne sono caduti lungo la strada, hanno preso strade sbagliate, hanno concluso i loro giorni in fondo a un carcere o sul patibolo dei condannati a morte; e perché tanti mistici e asceti, tanti uomini ardenti del desiderio di Dio, hanno rinunciato a una carriera brillante, a un matrimonio invidiabile, alle ricchezze e alle posizioni preminenti di questo mondo terreno, per inseguire il Bene che non si offusca, né invecchia, e non decade, contro il quale nulla possono le umane vicende o le stesse forze del tempo e gli assalti della natura incollerita?

Soltanto se si ammette, almeno come ipotesi di lavoro, che la “spiegazione” materialistica non spiega nulla, e si apre una finestra su di un punto di vista trascendente, soprannaturale, soltanto allora le vicende della storia umana, e la storia nel suo insieme, si illuminano di una luce, di un senso, di una meta; soltanto allora ciò che appariva oscuro, beffardo, incomprensibile, rivela il suo intimo segreto, o ce lo lascia intravedere; soltanto allora la storia cessa di apparirci come un incubo, come una galleria di errori e di orrori senza fine e senza senso, e ci appare come la scala impervia, faticosa, che consente agli sforzi umani di sottrarsi alla caducità, per entrare nell’infinito.

Le ideologie del Progresso sono fallite, una dopo l’altra, insieme a quelle della Ragione, della Scienza e della Tecnica; non resta altro che l’ipotesi soprannaturale, oppure ripiombare nell’abisso oscuro del non-senso, del caos, della dissoluzione, del rimpianto d’essere nati e dell’amara constatazione che l’unica cosa buona (come affermava Leopardi) è il non-essere, perché tutto ciò che è, esiste per il male e solo per il male.

Una delle figure più interessanti  e, tuttavia, meno conosciute, nella storia della cultura europea del XX secolo, è quella dello scrittore e pensatore svizzero, di lingua francese, Louis Gonzague de Reynold (nato a Friburgo il 15 luglio 1880 e morto il 9 aprile 1970 nella stessa città), un nobile che visse appartato, ma intensamente, nello studio, specialmente della storia, e nella ricerca di una verità più alta, fino a testimoniare con coerenza e adamantina limpidezza, in una Europa in preda ai fantasmi degli imperialismi scatenati e delle due guerre mondiali, la sua fede incrollabile che solo nel Vangelo di Gesù Cristo gi uomini possono trovare quello che cercano, al di là delle elusioni e delle tragedie della storia. Riallacciandosi a François-René de Chateaubriand, egli è persuaso che la presenza silenziosa di Dio attraverso la storia come un fiume sotterraneo, come una forza misteriosa e possente che viene percepita nella notte più oscura, perché accende dei lumi che serviranno a indicare la strada a tutti gli uomini nel loro difficile pellegrinaggio, affinché non si perdano: Che cosa ha voluto, che cosa ha amato, che cosa ha cercato l’epoca della cristianità?, egli si domanda; e risponde, semplicemente: La pace.

Ecco alcune delle potenti e fresche immagini adoperate da Gonzague de Reynold per illustrare la sua concezione cristiana, provvidenzialistica,. Profondamente spirituale, della storia umana (cit. in: Fabio Trevisan, Alla scuola del creato, sulla rivista Il settimanale di Padre Pio, Ostra, Ancona, n. 27 del 5 luglio 2015, pp. 32-33):

 

Il fiume sgorga da una sorgente ai piedi di un ghiacciaio. Attraverso i ciottoli, i pezzi di ghiaccio e le lastre di neve indurita, comincia a dividersi in un ruscellamento di fili d’acqua… Subito si gonfia in un torrente che cade di cascata in cascata… la sua caduta forma un piccolo lago nel quale le sue acque si calmano. Il fiume scivola obliquamente in mezzo ai pascoli fino nella valle sempre più larga… e va così, largo e limpido, di città in città, di popolo in popolo, va a gettarsi nel mare.  Il fiume può scomparire sotto terra…può rallentare e disperdersi nelle paludi… può improvvisamente andare in collera, inondare città e campagne… lo si vede sempre rientrare nel suo letto. Dalla sua sorgente alla sua foce, malgrado tutti gli ostacoli, segue una direzione costante. È uno.  […]

L’albero può perdere impunemente le foglie e persino i suoi rami maestri e, ancora, il suo tronco può essere abbattuto dalla folgore e raso al suolo: ma, se sotto le radici sono profonde e sane, se arrivano ancora ad attingere la loro linfa fin nelle ossa sacre dei morti, allora l’albero ricrescerà. […]

La pietà che ci insegna la storia corona e illumina la giustizia che dobbiamo ai mori con la gratitudine, il rispetto e l’amore. […]

Si sente passare nella notte una corrente potente che, qua e là, fa brillare lumi perché non ci perdiamo tutti nelle tenebre, perché ritroviamo il nostro cammino e seguiamo la direzione giusta. Una corrente spirituale che viene da Dio e ritorna a Dio, dopo aver attraversato la vita umana, la vita delle nazioni, e dei secoli, e il tempo. […]

 

Con queste bellissime immagini, Gonzague de Reynold ha voluto iscriversi fra i pochi intellettuali contemporanei che hanno saputo e voluto indicare la virtù della speranza in un’epoca buia, carica di presagi minacciosi; che hanno inteso richiamare gli uomini all’amore di Dio, ammonendoli che solo presso di Lui essi trovano quello che cercano, e cioè quel sogno di pienezza e quel bisogno di appagamento che portano segretamente in cuore fin dalla più tenera età.

Autore di una trentina di opere letterarie, storiche e filosofiche, per la sua ampiezza d’interessi e la sua vastità di conoscenze fu uno degli ultimi, e forse l’ultimo, dei grandi uomini di cultura della civiltà europea, in un mondo ormai popolato solo di sedicenti “intellettuali”, più o meno militanti e politicamente corretti: mentre lui, politicamente corretto non lo era. Ambasciatore culturale in numerosi Paesi europei (nel 1955 gli fu assegnato il Gran Premio Schiller), ebbe modo di conoscere personalmente, e stimare, uomini di governo come Mussolini e Salazar; ammiratore di Charles Maurras e di Maurice Barrès; fondatore della rivista La Voie latine e della Nuovelle Société Helvétique; ammiratore dei sistemi politici autoritari, il cui modello avrebbe voluto vedere applicato anche nella sua amatissima Patria, dopo la Seconda guerra mondiale ha subito l’ostracismo della cultura progressista e di sinistra, la quale è riuscita a far salire sugli altari scrittori mediocri, ma debitamente marxisti, come Bertolt Brecht, o filosofi come György Lukács, o intellettuali come Antonio Gramsci, ma è del pari riuscita in pieno a censurare e oscurare il suo nome, che, al di fuori della Svizzera, rimane pressoché sconosciuto al grande pubblico.

Il suo amore per la componente latina della civiltà europea, la sua devozione al cattolicesimo, il suo sogno di una terza via tra capitalismo e comunismo, quella indicata dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica e da alcuni economisti, come Giuseppe Toniolo, immaginata come un ritorno al corporativismo medievale o come una sorta di “laburismo cattolico”, sono tutti elementi che, decontestualizzati e giudicati con un facile “senno del poi”, hanno permesso alla cultura imperante di stampo marxista di liquidare il suo pensiero come reazionario, semi-fascista, o, nel migliore dei casi, anacronistico. Come se quei signori, che negli anni ’30 andavano pazzi per Stalin, e che continuarono ad adorare il modello sovietico fin verso il 1968 e oltre, avessero dato prova, negli anni più cupi della storia dell’Europa moderna, di una maggiore saggezza o di una più acuta lungimiranza. Ma così va il mondo: chi vince ha sempre ragione; e, fra il 1945 e il 1990, l’ideologia marxista si è presa il lusso di salire in cattedra e di fare la morale a ogni altra forma di pensiero, nonché di stabilire un vero e proprio canone, con pretese scientifiche, di ordine non solo politico ed economico, ma storico,  artistico, letterario, filosofico, scientifico e persino cinematografico. Solo per un’altra ideologia l’intellighenzia europea al potere ebbe una qualche forma di comprensione, talvolta quasi di simpatia (ricambiata): per quella cattocomunista, che consentiva di unire la parola eterna del Vangelo al verbo infallibile del Capitale e, pertanto, prometteva una larga messe di future adesioni, di voti, di sostegni politicamente preziosi. Ma Gonzague de Reynold, nella maniera più palese, non apparteneva a quella parrocchia; e, pertanto, non beneficiò né della comprensione, né tanto meno, della simpatia dei compagni marxisti: a lui fu riservato il silenzio.

Niente di strano, del resto: è toccato a molti altri, specialmente a quei cattolici che non avevano simpatie di sinistra e che guardavano al modello evangelico come a qualcosa di radicalmente alternativo al comunismo. In Italia, ad esempio, i “compagni” credenti, come Giuseppe Dossetti, ebbero ponti d’oro: piaceva la loro interpretazione di sinistra del Vangelo; mentre i credenti non marxisti, come la poetessa Cristina Campo, ebbero solo il silenzio arcigno e carico di disprezzo dei seguaci di Togliatti, che, allora, spadroneggiavano sul novanta per cento degli spazi culturali che contano. Oggi gli eredi di Dossetti, chi sa perché, pensano che la storia abbia dato loro ragione (scambiando il Concilio Vaticano II per il giudizio finale della storia), e cantano vittoria; ma il tempo è galantuomo, nonostante tutto, e, per quanto sia grande l’abilità di riciclarsi degli intellettuali politicamente corretti (la loro “correttezza”, infatti, consiste nel cambiar colore, come camaleonti, a secondo dei tempi: filosovietici di ferro in quegli anni, filoamericani di ferro ai nostri dì), non potranno seguitare all’infinito a rivendicare patenti di superiorità politica e morale, visto che, a ben guardare, hanno sempre avuto torto; e, quel che è più grave, hanno barato con le idee più “sacre” da essi, volta per volta, sbandierate ai quattro venti.

Tornando a Gonzague de Reynold: ne avessimo ancora, uomini di cultura del suo livello. L’autore di libri come Charles Baudelaire (1920), La Suisse une et diverse (1923), L’Europe tragique (1934), D’où vient l’Allemagne (1939), Grandeur de la Suisse (1940), Qu’est-ce que l’Europe? (1944), Le Monde grec et sa Pensée (1944) aveva visto meglio e più lontano di moltissimi suoi contemporanei: pensava l’Europa come il frutto più bello del Cristianesimo, e ne deduceva che la civiltà europea, senza il Cristianesimo, non potrebbe sopravvivere. È questo un pensiero che dovrebbe apparire chiaro e condivisibile anche a quegli intellettuali che cristiani non sono, ma possiedono onestà intellettuale e buona fede: l’Europa, amputata del Cristianesimo, è come un albero privato delle sue radici. Non riuscirà a sopravvivere; sarà condannata a morire. Eppure c’è qualcosa di ancor più grave della fine di una civiltà (la quale, dopotutto, può sempre rinascere, in altre forme e presso altri popoli, se le sue radici conservano ancora un po’ di linfa vitale): la perdita di senso. A ciò, non esiste rimedio. Ed è questa la grande sfida odierna: ridare un senso alla storia…