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Quassù l'umano non si è perso

di Giovanni Lindo Ferretti - 26/07/2016

Quassù l'umano non si è perso

Fonte: vita



Il famoso leader dei Cccp, padre del punk italiano, ha scelto di abitare a Cerreto, sull’Appennino tosco emiliano. «Vivo la montagna 
e accolgo chi vuole viverla come me»
Tre sono le parole dell’ospitalità. Tre, le parole dell’accoglienza. Tre sono le regole per chi ospita e per chi è ospitato: rispetto, buona educazione, gentilezza. Perché qui, come altrove, siamo sempre in casa d’altri». Giovanni Lindo Ferretti ci accoglie a Cerreto Alpi, nell’Appennino tosco emiliano. Ci accoglie nella sua casa, dove è tornato dopo vita nomade tra l’Emilia paranoica, la Mongolia e Berlino.
Anche questa – precisa – “è casa d’altri anche questa”. Voce mitica dei CCCP prima, dei CSI e dei PGR poi, Ferretti è considerato il padre del punk italiano. La sua passione per i cavalli lo ha portato a costituire la Fondazione Giovanni Lindo Ferretti SAGA il canto dei monti e a girare l’Italia con il suo teatro barbarico. «Io sono nato in questa casa», racconta, «e prima di me, sono nate tutte le generazioni che mi hanno preceduto, ben al oltre la memoria di famiglia che risale agli ultimi quattro secoli. Ma la casa, il paesaggio sono una radice che non è possibile recidere». Cerreto è a 960metri di altezza, circondato dai boschi. Eppure, ci spiega Ferretti, “solo trent’anni fa, Cerreto Alpi era molto diverso. Era un paese di pastori e di boscaioli. Il paesaggio attorno al paese era «colto», nel senso di coltivato e tenuto, «con il sudore e la premura. Qui non c’erano alberi e boschi, ma pascoli».
Nata con lo scopo di preservare e tramandare «la necessità e il piacere di vivere in montagna in un tempo in cui il mondo si sgretola, rovina su di sé, scivola in basso, al piano, in città», la Fondazione ha sede a Collagna: due grandi stalle, un capannone, una casa e cavalli maremmani e di montagna addestrati con cura. Vengono anche dall’Accademia Reale di Spagna per imparare i segreti di un addestramento che, qui sugli Appennini, si tramanda da secolo.
«Siamo una libera compagnia di uomini e cavalli», ci racconta Ferretti. «Li alleviamo, li addestriamo, curiamo il rapporto fra uomo e animale. È il nostro modo di vivere la montagna e di accogliere chi vuole viverla». Accoglienza, radicamento, comunità: sono queste le tre parole della montagna di Ferretti. Ma sono state a lungo parole “maledette”, si è temuto di pronunciarle quasi rinviassero a un passato tutto sangue e suolo. Oggi, al contrario, sono parole che aprono a un’altra modernità. «Accogliere è radicarsi. Senza radici non è possibile accogliere, né fare comunità», spiega GLF, «C’è però una considerazione da fare: così come non è possibile sradicarsi solo per la propria volontà, perché lo sradicamento opera per forza esterna, così è una forza esterna quella che ti riradica. Però, poiché le radici sono profonde, non è possibile sradicare qualcuno che non vuole essere sradicato». Si sente forte in montagna, questo forza impersonale che sradica e questa tensione al radicamento.
Si sente perché qui c’è la giusta distanza per sentirlo», sorride amaro, «c’è una frase di una mia canzone che cito volentieri. Quando l’ho scritta non sapevo cosa volesse dire, ma oggi tutto mi appare più chiaro: “Tra ciò che hanno distrutto e ciò che non gli toccherà”. Mi piaceva il suono e da quando l’ho cantata, solo perché mi piaceva il suono, questo verso è diventato l’incipit di uno sguardo anche su queste tre parole che hai evocato, “accoglienza, radicamento, comunità”. Uno sguardo a volte allucinato, a volte angosciato su ciò che nega tanto l’accoglienza, quanto la comunità: lo sradicamento. Io lo sento così come mi sento parte integrante di coloro che hanno distrutto, ma anche parte integrante di quelli a cui non toccherà».
Ma non basta la sola forza di volontà. «Oggi concepiamo l’uomo unicamente come sforzo di volontà, ma lo concepiamo così al solo fine di sradicarlo anche da se stesso. Tutta l’idea di libertà che si basa sul nesso che libertà è volontà, ossia assenza di legami è, in realtà, una non-libertà, ovvero uno sradicamento». Ferretti cantava “libertà, un doveroso pericolo in verità». Oggi però gli anni e la frequentazione con questo pericolo ha reso necessario allargarne la definizione. «La libertà è una cosa più complicata dei “diritti”, la libertà è una forma di disciplina. C’è un aneddoto che mi è sempre piaciuto: ti prendo, ti butto in mezzo al deserto e ti dico “vai, sei libero”. Tu non sei libero, anche se in apparenza lo sei. Per essere libero dovresti conosce le oasi più vicine, sapere dove andare, saperti orientare. Oggi l’uomo è disorientato. Ma questo disorientamento lo chiama “libertà”. Bisogna al contrario essere consapevoli di com’è questo mondo, per tracciare un sentiero che è la tua vera, disciplinata libertà», chiosa GLF.
Un mondo che risponde a logiche nuove e a cambiamenti anche atropologici. «Tutto questo succede perché questo sistema ha bisogno di sradicati, ovvero di gente che non opponga alcun grado o ordine di resistenza», continua Ferretti, «Il problema del radicamento e dello sradicamento, nelle città non si percepisce più. È già risolto. In montagna, forse non riesci risolverlo ma ne hai cognizione. La città è già un luogo di sradicati-sradicanti».
Il problema non è possibile risolverlo solo confidando sulla buona volontà degli uomini, «ma finché c’è una minima cognizione del problema, finché c’è consapevolezza allora c’è anche un’ipotesi –forse piccola, forse remota ma c’è – di futuro. È un tempo di mutazione antropologica, di triste mutazione antropologica, ma finché ci sarà un pastore sulla terra rimane una speranza. Finché rimane un allevatore, rimane una speranza. Perché chi vive la propria vita a contatto con gli animali e deve – letteralmente – allevare, deve rapportarsi a sua volta con la naturalità della condizione umana è salvo».
Ecco l’importanza della montagna oggi. «Tutto il pensiero della modernità che porta allo sradicamento trova una barriera inverosimile nell’uomo che vive con gli animali. Per questo ci sono forze che spingono affinché sia scisso quest’ultimo legame, che al momento è il legame più forte che l’uomo ha con il proprio territorio e la propria storia», Ferretti alza la voce, si appassiona a quello che dice, «Le due barriere che ho trovato rispetto allo sradicamento non fanno parte della cultura del sapere e, ancor meno, della comunicazione della cultura. Sono invece parte di una comunicazione quotidiana e vitale e sono il rapporto con un paesaggio e il rapporto con gli animali».
Due rapporti che generano consapevolezza. «Quando sei custode di un paesaggio superi una soglia. Un’altra soglia è quella del rapporto con gli animali. Paesaggio e animali, ecco i due ostacoli per noi vitali che deve affrontare la forza impersonale dello sradicamento. Non a caso si è cercato di togliere gli uomini dal proprio paesaggio e di convincerli che non c’è possibilità di mantenersi in un rapporto con gli animali. Ovvero che non c’è economia, non c’è etica, non c’è cultura nel rapporto con gli animali. Questi due rapporti – col territorio, con gli animali – la modernità li vuole annientare. Sono loro – allevatori e pastori - che ci possono guidare nell’unica opzione positiva tra le mille negative. Con gli animali sei costretto a una quotidianità e a una stagionalità. Le slot machine, ad esempio, esistono perché non c’è quotidianità e non c’è stagionalità. Tutto è un unicum. Come tutto ciò che si fa “per il nostro bene”», aggiunge GLF.
Per il nostro bene? Sono confuso ma GLF capisce e riprende: «Faccio un esempio: ciò che si è presentata come idea come benefica per la montagna e si è rivelata fortemente disgregante rispetto alla montagna è l’ideologia del parco. L’ideologia del parco presenta la montagna come qualcosa al di fuori della storia, da preservare da ogni contatto, una cosa da cartolina. Abbiamo accettato con tale sufficienza questa ideologia da esserci convinti che la montagna è davvero “quella cosa lì”. La realtà e la rappresentazione della realtà, anche in montagna, sono oramai scollegate. Con la differenza che qui, se non vedi la realtà prendi una buca e cadi. In pianura puoi far finta di nulla, finché non vai a sbattere contro un muro. La stessa cosa la possiamo dire del turismo. Se pensiamo che il turismo sia l’unica risorsa della montagna, noi distruggiamo la montagna. Il turismo prima distrugge tutto il resto, poi produce economia. Ma distrugge tutto il resto. Noi non ci possiamo permettere che il turismo diventi la nostra funzione principale. Deve diventare una funzione secondaria. Il turismo esiste, se esiste il paesaggio. Ma se il paesaggio è un tutto indistinto, tutto diventa selva. Dove magari vedi un bosco meraviglioso, non puoi però attraversarlo. Sono tutti rovi. Il paesaggio va attraversato, non intermediato».
Ma il valore della montagna sta anche nell’accogliere gli uomini. «Nella storia dell’uomo la montagna è stata tante cose ed è quella che, per difficoltà inerenti al territorio e difficoltà materiali, la più grande autonomia dei singoli, delle famiglie e delle comunità. Questo fino a che la montagna è stato un luogo disagevole».
Ferretti qui si fa buio. Gli occhi febbrili cessano il loro incessante balenare e si fissano su un punto. «Nel momento in cui la meccanica moderna ha reso la montagna un luogo comunque agevole la montagna si è ristretta. La montagna è, oggi, un luogo di svago, di villeggiatura e di turismo. Da questo punto di vista, la montagna è già finita».
Ciò nonostante, in qualsiasi discorso economico la montagna rimane un luogo disagevole. «Ed è ciò che ancora la salva. È come se il creatore avesse deciso che ci sono diverse opzioni del vivere. Le opzioni in cui è più difficile vivere, sono quello in cui la vita è più salvaguardata. La montagna è un po’ come tutti i luoghi estremi del mondo: quello in cui l’umano ha sempre una possibilità in più di salvaguardare la propria umanità». Gli occhi adesso si accendono di luce. «Qualsiasi sia la dimensione sociale, questa presenza in montagna è sempre meno presente. Se la montagna diventa un luogo in cui non esiste difficoltà del vivere, la montagna è finita. L’economia oggi è determinata da un pensiero che non ha alcuna radice. È un pensiero sradicante e questo crea un sacco di difficoltà per tutti coloro che vivono in montagna ma crea anche tutte le plausibili salvezze. C’è una quota di umanità indispensabile, affinché vi sia la vita. E la quota di umanità di coloro che vivono in montagna oggi è a rischio. È un conto che vi siano tre montanari sull’Appennino o che vi sia qualcosa che assomigli a un’idea di popolo. La montagna ha subito e subisce una trasformazione incredibile, noi che abitiamo la montagna, però, vogliamo essere parte in causa di questa trasformazione. Se sparisce il nostro paesaggio, sparisce la nostra storia, spariamo noi. Quello che c’era, non c’è più. Lo amiamo moltissimo, ma non c’è più. Siamo in un presente incerto, dove le cose ancora non sono, ma erano. La comunità ha subito una svolta con i tre piccoli che girano in paese: ci sono bambini, loro sono un futuro e questo è un fatto».
Ecco l’altro grande ruolo dei pastori l’altra faccia della moderna pastorizia. «Oggi, i pastori non sono coloro che rimangono ma coloro che arrivano e arrivano innovando. Ho conosciuto un pastore, dall’altra parte della provincia, si chiama Tobia e fa il suo lavoro in un modo straordinario per noi che siamo abituati a vedere la pastorizia in maniera “tradizionale”. In questo senso, il termine “tradizionale” ha un significato molto poco positivo, perché legato non al radicamento, ma allo sradicamento generato da gesti che vengono ripetuti, perché sempre sono stati fatti, ma non si ha più la consapevolezza del gesto che si sta facendo».
Come si fa, oggi, a fare il pastore a 30-35 anni in queste zone difficili da raggiungere e da abitare? GLF lo spiega palcidamente.
«Bisogna trasformarsi in casari» dice, «bisogna frequentare i mercati, bisogna entrare a far parte della mitologia e della cultura in cui vivi per poter mantenere il tuo lavoro e mantenere il tuo piacere. La pastorizia ha un futuro. Ma solo se la pastorizia ha questo futuro noi abbiamo un futuro. Noi come uomini, intendo. La pastorizia è una necessità del paesaggio montano. La pastorizia serve a ridare dignità culturale e mitologica alle persone che vivono la montagna. La dimensione della pastorizia e dell’allevamento è necessaria per mantenere un paesaggio».
E i turisti? Come noi due venuti qui a intervistarlo. Per noi tutto questo è precluso? Ride Ferretti: «Certo che no, ma a condizione che la pastorizia vi sia.
I giornalisti di Vita con Giovanni Lindo Ferretti
«Ma se non si mantiene quel paesaggio», conclude, «il turismo è turismo di sradicamento fatto di gente che passa in macchina, si ferma e va via. Finché c’è qualcuno che dice “questa è casa mia, di qua non mi muovo”, finché c’è qualcuno che è così testardo da non muoversi, significa che la montagna è viva, c’è. C’è con delle capacità».


Testi, foto e video a cura di Lorenzo Maria Alvaro e Marco Dotti