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In margine a Rio 2016

di Barbara Ciolli - 24/08/2016

In margine a Rio 2016

Fonte: Lettera 43

La squadra egiziana olimpica ha escluso dai Giochi il judoka Islam el Shehaby che, perso il match, si era rifiutato di stringere la mano all'avversario israeliano Or Sasson. Una scelta dei vertici sportivi del Cairo e non del Comitato olimpico internazionale (Cio), perché il comportamento dell'atleta egiziano a Rio 2016 era stato ritenuto «contrario alle regole del fair play». Ma, ha precisato anche la Federazione internazionale di judo, nell'arte marziale nipponica darsi la mano non è un obbligo. Lo è il saluto di rito con l'inchino, che el Shehaby aveva fatto. Il brutto gesto dell'olimpionico è stato «condannato con forza» dalla squadra egiziana, che nello spirito sportivo delle Olimpiadi ha preso la decisione più giusta, e anche la più politicamente corretta. Dagli accordi di pace di Camp David nel 1979, l'Egitto ha abbandonato lo scontro frontale con Israele, diventandone la sponda in Medio Oriente e in Nord Africa. Far trapelare senza altolà, su una platea mondiale qual è quella olimpica, l'ostilità del mondo arabo verso Israele proprio per mano di un suo atleta avrebbe posto la diplomazia del Cairo in una posizione scomoda.

 

I cori di sdegno sull'accaduto tra i (molti) non addetti ai lavori traboccano comunque di ipocrisia. Intanto i dispensatori di sentenze non hanno difeso con analoga veemenza la Palestina vittima, alle medesime Olimpiadi di Rio, di una grossa umiliazione israeliana. All'arrivo in Brasile, i sei atleti olimpici palestinesi non hanno trovato nelle loro valigie gli indumenti da gara e da allenamento. Anche le divise e la bandiera della Palestina per la cerimonia d'inaugurazione erano state bloccate alla dogana dalla sicurezza israeliana. «Con noi abbiamo solo un paio di magliette a testa per allenarci e l’uniforme da podio, aiutateci», si sono appellati al Comitato olimpico internazionale. Si è vista poi la delegazione palestinese - la più grande inviata da Ramallah nella storia dei Giochi - sfilare all'apertura, kefiah in spalla, bandiera e costumi tradizionali. Ma le cronache non ci hanno detto come è andata a finire (come invece per la pecora nera el Shehaby) sull'insensato accanimento israeliano: niente clamore né titoloni sullo sport che non aveva superato le tensioni, anzi le alimentava. Facile allora sparare sentenze sulla «diplomazia del ping pong» che negli Anni 70 abbatté il muro tra le cancellerie di Stati Uniti e Cina, proprio in occasione dei Mondiali di tennis da tavolo. E che anche l'atleta egiziano avrebbe dovuto ricordare. Come se la storia fosse sempre uguale a se stessa e come se la quotidianità, in Medio Oriente e in Nord Africa, fosse quella dei beach boys e degli insegnanti di yoga sulle spiagge di Tel Aviv. Quella delle migliaia di occidentali che continuano ad affollare in bikini e bermuda i resort - pericolosissimi - del Mar Rosso. […]

 

La Palestina di oggi: uno Stato ormai riconosciuto anche dalla maggioranza dei Paesi delle Nazioni unite nonché, dal 1995, dal Comitato olimpico internazionale. Ma che non ha ancora sovranità sui confini e sul territorio nazionali. Dall'autoproclamazione di Israele nel 1948, la Palestina vive in uno stato d'occupazione e di deprivazione. È massicciamente colonizzata dagli insediamenti ebraici, milioni di palestinesi sono profughi e sfollati, e senza il visto israeliano non si entra né si esce. Da 20 anni gli atleti di Ramallah partecipano con piccoli team alle Olimpiadi senza veri impianti dove allenarsi, non possono andare a gareggiare all'estero e neanche spostarsi liberamente all'interno della Cisgiordania e verso Gaza, tant'è che nel 2016 il match Hebron-Gaza è stato un evento. Alle Olimpiadi non hanno mai vinto una medaglia (come la maggioranza degli Stati non big del mondo), ma d'altra parte come potrebbero? Arabi e musulmani altrimenti divisi si ricompattano nella difesa del popolo palestinese. Alla domanda di come si dica in arabo Israele, la risposta è «Palestina». Non si entra in un Paese arabo o musulmano con il timbro di Israele sul passaporto. Come, d'altra parte, anche nella democrazia israeliana chi ha visti di Paesi islamici ostili subisce controlli e interrogatori che polverizzano gli standard europei sulla privacy.

 

Israele è il nemico numero uno, il conflitto palestinese la madre di tutte le battaglie. Questa è l'aria che tira nel Medio Oriente dei decenni di fiumi di sangue - incluso quello scorso alle Olimpiadi di Monaco di Baviera (1972) - e che tirava anche mentre a Rio andava in scena il mancato fair play tra il judoka egiziano e la poi medaglia di bronzo Or Sasson. Ricordare il contesto non è giustificare, ma tentare di far comprendere che - in un medagliere olimpico da Paesi del G8 - così come lo spirito sportivo non basta a vincere i Giochi, l'esempio dell'atleta egiziano el Shehaby non è edificante, ma la dice molto lunga sulla realtà.