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Manie d’estate così la folla ci ruba l’anima

di Massimo Recalcati - 28/08/2016

Manie d’estate così la folla ci ruba l’anima

Fonte: La Repubblica

 

Chi non ha mai pensato almeno una volta di lasciare tutto per andarsene in un posto lontano, irraggiungibile, magari in un’isola deserta, al polo Nord, o in un qualunque paesino sperduto? Chi di noi non è mai stato attraversato dalla tentazione suprema del distacco improvviso, della fuga, del fascino della propria sparizione? Pensiero che naturalmente si intensifica in questo tempo di vacanza dove il viaggio non è affatto un’esperienza di allontanamento ma, solitamente, di ulteriore alienazione, di sprofondamento nella massa anonima della schiera felliniana dei turisti, dei villeggianti, dei bagnanti. La folla in vacanza non assomiglia alla massa compatta e ordinata descritta da Freud, ma a uno sciame. Nessun leader ne unifica il corpo, nessun Ideale condiviso la rende “squadra”. Lo sciame è variopinto, la sua struttura senza identità, socialmente trasversale, impolitica, globalizzata: il suo movimento non è rigidamente verticale ma perennemente orizzontale. Lo sciame si localizza senza un vertice definito pur essendo attratto dallo stesso miele: le spiagge, i locali, i monumenti, le montagne, i musei, le città che si devono vedere obbligatoriamente. In questo senso l’andamento dello sciame non è mai anarchico ma localizzato secondo punti luce determinati. Nella visita a un museo, per esempio, le localizzazioni dello sciame avvengono intorno alle opere universalmente riconosciute. Una nuova geografia si scrive. Lo sciame domina il territorio. È il movimento dei pellegrini ad aver reso un luogo sacro o è il luogo sacro ad aver attirato il movimento dei pellegrini?
La logica dello sciame è implacabile; traccia percorsi imperdibili, obbliga a tour frenetici, esige l’accumulazione enciclopedica di saperi impossibili da memorizzare; stravolge di fatica i suoi membri; trasfigura misticamente la pausa della vacanza in un tempo dominato da un imperativo inflessibile rispetto al quale quello kantiano appare come una pallida ombra. Il godimento dello sciame non è evidentemente nella meta che raggiunge (il miele), ma nel movimento continuo che la ricerca della meta comporta. Non siamo lontani dal modo col quale Pascal descrive la follia del divertissement nei suoi Pensieri: non si caccia per raggiungere la preda, ma solo per cacciare. Spirito di superficie che potrebbe avere in sé una sua assoluta nobiltà senonché anche la caccia non possiede alcun valore in sé ma è sempre caccia della caccia; caccia al quadrato per così dire. Lo denunciava il volto attonito e inquieto di un turista dall’aria colta che dopo aver raggiunto con fatica la sua meta (un piccolo tempio buddhista collocato in cima ad una scalinata interminabile) immediatamente, senza darsi il tempo di osservare ciò che aveva davanti a sé, rivolgendosi alla sua guida chiedeva smanioso: «E adesso? Cosa ci resta da vedere?».
Il popolo dello sciame furoreggia inseguendo i suoi idoli di carta senza alcun senso del tabù e senza risparmiarsi alcun tormento. Ogni soglia viene valicata con decisione e impertinente obbedienza: chiese, musei, piazze, cimiteri, parchi nazionali, palazzi storici. Tutto viene tritato senza alcun senso di soggezione e senza alcun risparmio del corpo: marce estenuanti, code infinite, calure insopportabili, odori, contatti, oscenità estetiche di ogni specie, impazienze iraconde ricondotte dolorosamente al sacrificio inevitabile, delusione cocenti («ma è tutto qui?») attenuate dall’indicazione della prossima meta, ritmi inumani, cibi di dubbia origine, fatidici ma impossibili ripensamenti («fatemi tornare indietro!»). La fotografia rituale col cellulare appare una tristissima esecuzione — nel senso del plotone — dell’opera o del paesaggio già inevitabilmente riprodotta in ogni sua forma possibile. Al punto che l’incontro cosiddetto live con il “miele” non pare affatto vero, ma già visto in quanto totalmente saturato dalle migliaia di volte nelle quali ho già percepito quello che dopo un pellegrinaggio, talvolta chiaramente masochistico, ho finalmente potuto incontrare dal vero. La fotografia immortala non tanto l’evento, ma la nostra presenza all’evento il quale, di conseguenza, viene relegato sullo sfondo sul quale si disegna la nostra immagine. L’impegno per fissare l’evento in memoria rende impossibile l’evento. Conosciamo tutti il test che lo prova: all’uscita da qualunque museo nel quale il popolo dello sciame ha soggiornato per una mezza giornata tutto diventa una marmellata indistinta di citazioni. Dopo cena la marmellata è già diventata una nube confusa. Il giorno dopo non ne resta più nulla. Il popolo dello sciame però non demorderà per così poco. Rincorrerà il mare più cristallino o la montagna più poetica accalcandosi freneticamente sempre con lo stesso entusiasmo rassegnato. Mario Rigoni Stern non nascondeva il suo sgomento quando nelle sue ultime passeggiate dolomitiche s’imbatteva in truppe di ciclisti scagliati in discese pirotecniche. «Voglia di sparire, di andare lontano, di non essere qui». Quante volte, trovandoci membri dello sciame o osservando angosciati dal di fuori il suo tenebroso arrivo, lo abbiamo pensato con tutta la forza che restava in noi.