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Ma lo Stato nazionale è il problema o la soluzione del problema?

di Francesco Lamendola - 05/09/2016

Ma lo Stato nazionale è il problema o la soluzione del problema?

Fonte: Il Corriere delle regioni

 

Stiamo vivendo una crisi generale della politica, dell’economia, della finanza, della cultura, delle relazioni internazionali e della stessa capacità delle persone di vivere insieme, che caratterizza la fase storica attuale; per cui, se vogliamo individuarne la causa, o le cause principali, dobbiamo anche domandarci se lo Stato nazionale rappresenti il problema, oppure se esso sia, al contrario, la possibile soluzione dei problemi che ci attanagliano.

Alcuni pensano che lo Stato nazionale, oltre ad essere una istituzione politica ormai superata e addirittura contraria agli interessi dei popoli, specie dal punto di vista economico e finanziario, sia, di per se stesso, una fonte pressoché inesauribile di tensioni, sia interne che esterne, a causa della sua natura artificiale e della necessità che esso ha di contrastare le forze centrifughe, che lo porterebbero rapidamente al collasso, mediante strategie intenzionali per alimentare quei problemi che esso, poi, prometterà di risolvere, un po’ secondo lo schema classico “sfida e risposta” (theory of challenge and response), formulata dallo storico britannico Arnold J. Toynbee.

Per altri, invece, le cose non stanno così; ma, al contrario, solo lo Stato nazionale, in un mondo sempre più globalizzato e dominato da colossi economico-finanziari, è in grado di opporsi alla loro opprimente egemonia, e, nello stesso tempo, è in grado di esercitare la protezione giuridica dei cittadini, assicurare loro l’istruzione pubblica, un decente sistema sanitario, il pagamento delle  pensioni, nonché tutelare il territorio, finanziare la ricerca scientifica e occuparsi della difesa militare e delle relazioni internazionali; tutte cose che, ai cultori delle “piccole patrie” di tipo locale, e ancor più ai nostalgici dell’ideologia anarchica, possono anche non piacere, ma delle quali, indubbiamente, vi è bisogno, e continuerà ad essercene, almeno fino a quando gli esseri umani non avranno raggiunto uno stadio di evoluzione tale da potersi auto-organizzare liberamente e spontaneamente, dal basso, senza la necessità di mantenere in esercizio dei costosi ed esigenti apparati statali, al cui funzionamento concorre un personale appositamente addestrato.

Certo, oltre che qualcosa di più piccolo dello Stato nazionale,  si può anche immaginare qualcosa di più grande: ma è quel che stiamo sperimentando, ad esempio, con l’Unione Europea, e, in prospettiva, con le Nazioni Unite; e, in verità, sono ben pochi coloro i quali si sentono soddisfatti del risultato. Al contrario, queste forme di governo super-nazionale sono identificate da larga parte dell’opinione pubblica come la principale causa dei nostri problemi attuali, e molti vorrebbero uscirne; l’esito del referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea la dice lunga su uno stato d’animo d’insofferenza ormai largamente diffuso; e si tenga presente che l’adesione britannica era solo parziale, perché in molti ambiti, a cominciare da quello monetario, essa aveva conservato la propria sovranità. D’altra parte, il perseguimento di alcuni criminali di guerra, come gli ex dirigenti serbi, dalla Corte Internazionale di Giustizia è stato interpretato come il primo passo verso la costituzione di un governo mondiale effettivo; e anche di questo molti non appaiono convinti, per l’evidente incapacità di tale organismo di sottoporre a processo i dirigenti delle maggiori potenze (qualcuno s’immagina che gli Stati Uniti, la Russia o la Cina accetterebbero di sottomettersi a simili richieste per quanto riguarda i propri cittadini?), e, quindi, per l’evidente disparità di trattamento che ne deriva nei confronti dei cittadini degli Stati meno potenti.

Scrive Kenichi Omahe, uno dei più grandi “guru” del business mondiale, nel libro Il prossimo scenario globale. Sfide e opportunità nel mondo senza confini, Milano, Etas, 2005, pp.102-103):

 

L’abuso attuale del concetto di Stato-nazione è ben visibile nel caso dell’Unione Sovietica, che ha ereditato le conquiste zariste in Asia centrale. Stalin si dichiarò favorevole alla nozione di autodeterminazione nazionale, permettendo così la nascita di repubbliche socialiste su base etnica, le quali in realtà raramente erano espressione delle nazionalità che avrebbero dovuto rappresentare.

Quando crollò l’Unione Sovietica, nel 1991, queste repubbliche si videro imposte l’indipendenza e la sovranità, nonostante fossero totalmente impreparate. Facendo parte integrante dell’assai intrecciata economia sovietica, si ritrovarono alla deriva in un oceano sconosciuto: i loro nuovi governanti (di norma i loro precedenti capi comunisti) acquisirono tutti gli attributi sopra citati dello Stato-nazione: bandiere, simboli, inni nazionali, nonché valute (spesso debolissime) e Banche Centrali. L’integrazione dei rispettivi mercati fu ritardata a causa da divergenze personali fra i loro leader, così come da dispute sui confini. Le differenze etniche sono esagerate fino a raggiungere proporzioni assurde. Vaste risorse naturali rimangono inutilizzate o sono impiegate in maniera inefficiente da un singolo Stato-nazione che agisce indipendentemente. Di fatto, nessuno sa quanti Stati-nazione sono sorti in conseguenza della caduta dell’Urss, e lo stesso vale nel caso della ex Jugoslavia. Se un dittatore supremo dovesse in futuro emergere, queste “regioni” potrebbero di nuovo essere riunite in “una nazione”.

Ma è soprattutto in Africa che il concetto di Stato-nazione ha avuto le sue conseguenze più disastrose  per la gente e per le economie. Nel 1885 le potenze europee si riunirono a Berlino per spartirsi tra loro il continente. Le entità create allora esistono ancora oggi: a Berlino non si crearono certo Stati, bensì colonie o protettorati. Quando un crescente moto di risentimento obbligò i governanti dell’Europa occidentale a concedere l’indipendenza, e l’autodeterminazione politica, si decise che i confini tracciati a Berlino sarebbero stati utilizzati come confini di questo nuovo gruppo di Stati allo scopo di evitare dispute territoriali e l’incipiente rischio di conflitti: nacquero così Stati-nazione senza alcun senso, con territori quasi del tutto privi di risorse naturali, con un settore agricolo dominato dalle colture di sussistenza e cronicamente esposto alle calamità naturali. In maniera tutt’altro che sorprendente, molti di questi Stati si trovano tuttora nella parte più bassa della classifica mondiale del PIL.

A parte la miopia economica di queste politiche, anche le differenze etniche e religiose furono ignorate: molti dei nuovi Stati, infatti, contenevano conflitti interni che col tempo si sono aggravati sempre più. Nel caso della Nigeria e del Congo, questi hanno portato allo scoppio di sanguinose guerre civili, il cui impatto sulle risorse è facilmente immaginabile. Altre aree che presentavano le potenzialità per crescere, come la zona del delta del Niger, furono separate in due distinti Stati-nazione (Nigeria e Camerun), nessuno dei due interessato a cooperare: entrambi volevano il controllo totale. […]

Tutto ciò è importante perché gli Stati-nazione continuano ad avere una grande influenza sul nostro pensiero…

 

È persino troppo facile citare il caso delle ex repubbliche dell’Unione Sovietica o quello del continente africano per mettere in evidenza le dolorose aporie e i nodi problematici inerenti allo Stato nazionale: il fatto è che, nel primo caso, si tratta di Stati che si son visti addirittura costretti  a nascere, sovente su base etnica, ma senza un retroterra storico-culturale ed economico adeguato, o anche solo in possesso dei requisiti minimi per assicurarne la sopravvivenza; nel secondo, poi, non si tratta affatto di Stati nazionali, ma di qualcosa di completamente diverso: aggregati caotici e casuali di regioni, etnie, distretti economici differenti, riuniti dal solo denominatore comune della dominazione coloniale e ritagliati a tavolino sulla carta geografica, pertanto non solo privi di qualsiasi vitalità, ma, in parecchi casi, addirittura minati fatalmente dalla compresenza di culture, religioni e livelli di vita materiale assolutamente incompatibili e non assimilabili, come si è visto nella rottura dell’unità nazionale del Sudan (lo Stato più grande dell’Africa), dopo decenni di guerriglia, massacri, repressioni e tragedie umanitarie di proporzioni bibliche.

Il processo di nascita e formazione degli Stati nazionali è qualcosa di estremamente complesso, lungo e difficile, e ha richiesto nel migliore dei casi, come quello degli Stati Uniti d’America, alcuni secoli (già gli Stati latinoamericani, nati mezzo secolo più tardi, non sono riusciti a costituirsi in nazioni realmente integrate e coese); inoltre, è qualcosa che riguarda principalmente l’Europa e le sue appendici (Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda) e, fuori d’Europa, solo poche entità molto antiche, stabilizzatesi in base a fattori principalmente culturali e religiosi, oltre che geografici ed economici: la Persia, la Cina, il Giappone, e - solo parzialmente - l’India (la quale solo per brevi periodi della sua storia pre-coloniale ha conosciuto qualcosa che assomigliasse all’unità politica e all’integrazione sociale dei suoi abitanti). È dimostrato che lo Stato nazionale non s’improvvisa e che, se ciò avviene, anche in un contesto come quello europeo, esso non resiste alla prova dei fatti: così è stato, ad esempio, per la Cecoslovacchia e per la Jugoslavia, due entità nazionali create dopo la Prima guerra mondiale, soprattutto nell’interesse delle potenze dell’Intesa, e in particolar modo della Francia, per fare da contrappeso a una probabile rinascita della potenza tedesca: cosa che non consentì loro di sopravvivere alla fine della guerra fredda e della divisione bipolare del mondo, ma li portò a una rapidissima dissoluzione: incruenta e assai composta nel primo caso, sanguinosa e contraddistinta da crimini e atrocità, nel secondo.

In Europa, il processo di formazione degli Stati nazionali incomincia verso il XIV secolo, in particolare con la Guerra dei Cent’Anni tra la Francia e l’Inghilterra, e prosegue fin verso il XVII, alla fine del quale compaiono le prime Banche centrali (1694, nascita della Banca d’Inghilterra). Gli Stati nazionali costituitisi per ultimi, come l’Italia e la Germania, sono anche quelli che hanno incontrato le maggiori difficoltà a trovare un proprio stabile assetto interno e un proprio spazio nei rapporti internazionali. Nello stesso tempo, vi è stato un graduale processo d’indebolimento degli Imperi plurinazionali, come l’ottomano, il russo e l’austriaco, che ha avuto una brusca accelerazione con la Prima guerra mondiale, e di cui la dissoluzione dell’Unione Sovietica (erede dell’Impero zarista), nel 1991, ha rappresentato l’ultimo atto. Il mondo moderno, infatti, è stato dominato dall’idea di nazione, e quegli Stati che si reggevano su un principio diverso – come quello dinastico – non sono riusciti a reggere il passo e a sostenere il confronto con quelli su base nazionale. Lo stesso destino di dissoluzione hanno subito gli Stati minori: si è già detto della Cecoslovacchia e della Jugoslavia; e la prossima “vittima”, secondo molte evidenze, potrebbe essere il Belgio, lacerato dalla implacabile rivalità fra la componente francofona e quella fiamminga.

Una cosa è certa: tutti gli Stati, e quindi anche gli Stati nazionali, rappresentano delle forme transitorie nella vita dei popoli; nessuno di essi può pretendere di vivere all’infinito, a dispetto delle condizioni storiche che li hanno generati, se non ricorrendo a forme di coercizione e di violenza, che, alla lunga, si mostrano comunque inutili. Quando uno Stato ha cessato si svolgere una finzione vitale, soccombe inesorabilmente, proprio come un albero vecchio e malato che, nella foresta, finisce per cadere e liberare il posto per altre piante più giovani, tutte bisognose di luce e, pertanto, impegnate nella competizione per la conquista d’uno spazio vitale. Questa visione “organicistica” degli Stati potrà anche non piacere, per ragioni estetiche o sentimentali, tuttavia crediamo che rifletta abbastanza bene la loro reale natura. Resta solo da vedere se le nazioni abbiano fatto il loro tempo e se, di conseguenza, gli Stati nazionali servano ancora a qualcosa, oppure no.

Oggi esistono numerosi indizi che indicano il tramonto del principio di nazionalità Una simile constatazione, tuttavia, non rappresenta ancora, di per sé, un argomento a sfavore della sopravvivenza, e soprattutto della utilità, degli Stati nazionali, perché si tratta di accertarsi se tale tramonto sia un processo realmente naturale, determinato sia da ragioni di ordine finanziario ed economico, sia di ordine culturale e psicologico, oppure se qualcuno stia premendo, e mobilitando risorse inimmaginabili, per giungere a questo risultato. Se così fosse, staremmo assistendo non al tramonto dell’idea di nazione, ma ad un complotto internazionale di enormi dimensioni per renderla obsoleta. La televisione, la stampa, le case editrici, le università, sarebbero implicate in un tale  complotto, le cui dimensioni planetarie farebbero sì che venisse meno la percezione del fenomeno stesso: come quando, guardando dal finestrino di un treno, non si capisce se a muoversi sia il treno su cui si sta viaggiando, o quello che transita sull’altro binario. Una sensazione un po’ inquietante…