Il Consiglio d’Europa continua a dire no all’utero in affitto in quanto tale pratica “comporta il rischio di ridurre i bambini a una merce e può portare allo sfruttamento delle madri surrogate”. E’ quanto scritto nel primo rapporto adottato l’altro ieri dalla commissione salute dell’assemblea parlamentare di Strasburgo che mira a stabilire dei parametri sulla base dei quali valutare tutti i diritti dei bambini nati dalla surrogazione. Inizialmente denominata “Diritti umani e questioni etiche legate alla maternità surrogata”, la risoluzione fortemente voluta dalla rappresentante belga Petra De Sutter era già stata respinta lo scorso marzo di quest’anno dalla Commissione Affari sociali del Consiglio d’Europa con 16 voti contrari e 15 favorevoli, per poi essere approvata due giorni fa con il titolo “I diritti dei bambini nati da madri surrogate”. Il rapporto dovrà adesso passare al vaglio dell’assemblea plenaria per la definitiva approvazione.

La risoluzione in questione, stesa dalla parlamentare De Sutter – nota ginecologa e docente universitaria conosciuta anche come la prima parlamentare transessuale – nasceva però con lo scopo di perseguire una regolamentazione internazionale della pratica dell’utero in affitto, sottoponendo la questione ai governi dei 47 paesi membri del Consiglio d’Europa. Solo dopo infatti l’argomento è stato mitigato ricorrendo ad un intelligente escamotage che avrebbe potuto condurre il vecchio continente ad una implicita legittimazione della pratica, seppur sotto la forma della surrogazione altruistica. “Grazie ai nostri interventi – si legge in una nota della parlamentari italiane Elena Centemero (Fi), Eleonora Cimbro (Pd) e Maria Teresa Bertuzzi (Pd) – infatti, è venuta meno la distinzione, complessa e capziosa, tra la gestazione per altri per dono e per profitto”. Pericolo scampato per adesso, ma è bene capire cosa si nasconde dietro questo astruso vocabolo a cui la neolingua sembra ricondurre un’accezione positiva.

Una delle raccomandazioni che la De Sutter riteneva fondamentali era di fatto la distinzione tra utero in affitto perfini commerciali e quello altruistico: la prima ovviamente fa riferimento alla pratica più diffusa al mondo, ovvero quella di pagare generosamente una donna per l’affitto del proprio utero (98 % dei casi, si veda il caso eclatante diElton John); nella seconda sarebbe invece più ravvisabile quella pratica secondo cui una donna (possibilmente una sorella, una madre, una cugina o un’amica di famiglia ma anche un’estranea) accetta di mettere a disposizione il suo utero per permettere alla coppia richiedente di avere così un bambino, senza – in teoria – alcuna richiesta economica ma per il solo fine appunto altruistico. Peccato però che così non avviene quasi mai. A parte la terribile situazione che viene a crearsi nel momento in cui al bambino viene negato l’abbraccio di quella che per lui, in quel momento e per ben nove mesi, è stata la sua vera mamma, ma quella dell’utero in affitto con fini altruistici altro non è che la stessa pratica mascherata per ‘utero in comodato’.

Come spiega il sito NotizieProvita, quando si segue la pratica della surrogazione altruistica le strade che possono intraprendersi sono in genere due. La prima consiste nel seguire, ad esempio, l’esempio inglese: nonostante la legge britannica vieti quella che è la commercializzazione della maternità surrogata, è però previsto per la donna che presta il proprio utero per fini altruistici un “rimborso spese” che va in genere dalle 17 alle 20mila sterline. Un pagamento mascherato che, guarda caso, supera perfino la paga richiesta dalle madre surrogate indiane, meta attualmente preferita dalle coppie inglesi considerando anche il fatto che in India la madre surrogata non ha gli stessi diritti di quella inglese, cioè non ne ha proprio nessuno e la donna non può pretendere di tenere il bambino. La seconda consiste in quegli intrecci familiari, degni della soap americana Beautiful, che vedono madri diventare nonne degli stessi figli (cioè bambini da queste partorite per appagare il desiderio di maternità delle stesse figlie), o ancora sorelle, zie, e parenti che sono in realtà genitori dei loro nipoti, cugini, e così via. Tutte situazioni intricate che certamente potrebbero influenzare, se non sconvolgere, l’equilibro personale dell’individuo una volta cresciuto.

In tutti e due i casi, dunque, la pratica dell’utero in affitto non è per niente limitata o scongiurata ma anzi è addirittura mascherata da buoni propositi del tutto tesi a diffondere nell’opinione pubblica l’idea di una graduale accettazione di quella che è stata definita da molti come la più grande forma di mercificazione della via umana o, peggio ancora, la nuova forma di sfruttamento della donna moderna, libera, emancipata e per niente felice.