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Se la Marina italiana si fosse autoaffondata nel 1943, o almeno nel 1947…

di Francesco Lamendola - 26/09/2016

Se la Marina italiana si fosse autoaffondata nel 1943, o almeno nel 1947…

Fonte: Il Corriere delle regioni

La Regia Marina, come è noto, era, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, una delle più numerose e delle più forti del mondo, almeno sulla carta (perché la mancanza del radar e delle portaerei, oltre alla scarsità di carburante e all’assenza di una aviazione di Marina autonoma, che le offrisse una copertura aerea sua propria, ne avrebbero messo in luce le molte e penose debolezze). Un complesso imponente, comunque, che faceva perno su due corazzate rimodernate, la Giulio Cesare e la Conte di Cavour, e quattro corazzate ancora in fase di approntamento – Littorio, Vittorio Veneto, Caio Duilio e Andrea Doria -, sette incrociatori pesanti, dodici incrociatori leggeri, circa 100 fra torpediniere e cacciatorpediniere e 100 sommergibili. Come disse l’ammiraglio Angelo Iachino, era davvero una grande marina: forte tecnicamente, agguerrita e animata da un notevole entusiasmo, oltre che da autentiche virtù professionali e morali; come l’Italia non l’aveva mai avuta e come non l’avrebbe avuta mai più.

Per la cronaca, oggi la Marina Militare (nuova denominazione assunta dalla Regia Marina dopo la trasformazione dell’Italia in repubblica) si trova ancora fra le prime dieci al mondo, ma quasi alla fine della classifica, per la precisione al nono posto, con 2 portaerei, 3 navi per operazioni anfibie, 4 cacciatorpediniere, 14 fregate, 6 corvette, 10 pattugliatori, 10 cacciamine e 6 sottomarini, per un totale di 55 unità e un tonnellaggio complessivo di 173.500 tonnellate. Può sembrare una flotta ancora importante, ma la verità è che viene subito prima della Cina nazionalista (Taiwan) e dopo quelle della Corea del Sud e dell’India. Insomma l’Italia è stata eliminata definitivamente dal numero delle potenze navali che contano: mentre il Giappone (che ha oggi la quarta marina da guerra al mondo) è risorto dal disastro del 1945, l’Italia no. Potremmo consolarci con la riflessione che lo stesso destino è toccato alla marina tedesca: ma ciò non tiene conto del fatto che la Germania, anche senza flotta, ha ripreso il posto che le spettava nel consesso delle potenze, nonostante il malvolere dei vincitori della Seconda guerra mondiale; mentre l’Italia non si può dire che sia riuscita a fare altrettanto.

Non ci attarderemo qui a parlare della infelicissima condotta delle operazioni navali durante la guerra: basti dire che i piani per la conquista di Malta, chiave di volta di tutto lo scacchiere mediterraneo, erano stati preparati da tempo, ma non se ne fece nulla, né nel giugno del 1940, né dopo: a quanto pare, all’ultimo momento si scoprì che la Marina non disponeva delle navi adatte, e che l’esercito e l’aviazione erano altrettanto impreparati per le parti del piano spettanti alla loro competenza. La flotta britannica di Alessandria, che era già pronta a sgomberare il Mediterraneo, ritenendo l’isola indifendibile, quando vide che la Regia Marina non si muoveva, ricevette il contrordine, e rimase. Il bombardamento delle nostre navi alla fonda nel porto di Taranto e la battaglia di Capo Matapan misero in evidenza tutte le pecche della nostra flotta e dei nostri comandi; dopo di che, le grandi navi non osarono più sfidare il nemico, e l’incapacità di offrire adeguata copertura ai convogli per il Nordafrica determinò la sconfitta di El Alamein e, in definitiva, l’invasione della Sicilia e la sconfitta dell’Italia.

Quel che ci preme osservare è che, al momento dell’armistizio di Cassibile (reso noto, per radio, l’8 settembre del 1943, ma firmato segretamente da emissari del governo Badoglio fin dal 3 settembre), la flotta, che già aveva rinunciato ad affrontare il nemico in occasione dello sbarco angloamericano in Sicilia, ricevette l’ordine di fare rotta su Malta per consegnarsi agli Alleati. I comandanti, che erano completamente all’oscuro di tutto, ne rimasero sorpresi e demoralizzati; è tuttora controverso se l’ammiraglio Carlo Bergamini, al comando della nave da battaglia Roma, stesse davvero andando a consegnarsi, come gli aveva ordinato Supermarina, a quelli che erano stati, per tre anni, i nostri nemici, quando, il 9 settembre, la sua unità venne colpita e affondata da bombardieri tedeschi della Luftwaffe partiti da Marsiglia. Di certo egli non aveva issato le bandiere nere della sottomissione, né fatto dipingere sui ponti i cerchi neri per il riconoscimento aereo; inoltre, aveva diramato ordini per opporre resistenza contro qualunque tentativo di cattura, sia da parte germanica, sia da parte angloamericana. Quali fossero le sue effettive intenzioni, lo sapeva lui solo; dopo essere colato a picco con la sua corazzata e con quasi 1.400 uomini di equipaggio, gli venne dedicata una medaglia d’oro alla memoria.

Quel che è certo è che non solo l’ammiraglio Bergamini, ma molti altri comandanti e la maggior parte degli equipaggi considerarono l’ordine di recarsi a Malta e innalzare bandiera bianca lesivo dell’onore della flotta, e obbedirono assai malvolentieri. D’altra parte, la flotta era quasi l’unico potenziale bellico di cui l’Italia disponesse nel settembre del 1943, e il re e Badoglio pensarono che, obbedendo all’ingiunzione di consegnarla, avrebbero rafforzato, o puntellato, la posizione dell’Italia rispetto agli ex nemici, divenuti strapotenti alleati. Così, se la flotta spagnola, nel 1898, preferì l’onore senza le navi, e la flotta tedesca, nel 1914-18, le navi senza l’onore, la flotta italiana – tranne le poche unità minori che si unirono alla costituenda Repubblica Sociale – nel 1943 scelse di rinunciare sia alle navi, che all’onore: effetto perverso di una condotta politica ambigua e tortuosa, sfociata nel doppiogiochismo e nella fellonia (Badoglio aveva assicurato i tedeschi fio all’ultimo istante, e in perfetta malafede, che la guerra sarebbe continuata al loro fianco, mentre già aveva intavolato le trattative di resa con gli Alleati).

Restava una remota speranza: che le condizioni del trattato di pace, a guerra finita, sarebbero state mitigate appunto dal sacrificio dell’onore, e, in modo particolare, dalla volonterosa consegna della flotta. Per questo si dovette attendere fino al 10 febbraio del 1947, allorché, a quasi due anni dalla fine delle ostilità, si vide che l’attenuarsi delle passioni non aveva mitigato per niente la volontà punitiva degli Alleati nei confronti del nostro Paese, il quale, nonostante il riconoscimento dello statuto di “co-belligeranza” contro la Germania, venne trattato, in tutto e per tutto, come una nazione nemica e sconfitta. Le clausole relative alle cessioni territoriali, specialmente nei confronti della Jugoslavia; quella relativa alle colonie, che ci vennero tolte tutte (tranne la Somalia, in amministrazione fiduciaria dal 1950 al 1960, su mandato delle Nazioni Unite); l’umiliante impegno di non perseguire i traditori che, fin dal 10 giugno 1940, avevano operato per la sconfitta dell’Italia e la vittoria alleata (articolo 16); le limitazioni all’esercito e all’aviazione, tutto questo dimostrò chiaramente una decisa volontà, da parte alleata, e specialmente francese, di vendicarsi e di eliminare per sempre l’Italia dallo scacchiere delle grandi potenze.

La clausola più dura, tuttavia, a parte quella riguardante la perdita della Venezia Giulia, era contenuta nell’articolo 59, con il quale si stabiliva che le navi della Marina Militare sarebbero state distribuite fra le nazioni alleate, comprese la Grecia, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, e che sarebbero state imposte drastiche limitazioni alla costruzione di nuove unità: il totale della Marina non avrebbe dovuto superare le 67.500 tonnellate e i 25.000 uomini di equipaggio. Ciò equivaleva a spazzare via la nostra flotta dal novero delle Marine di una certa importanza, e, di conseguenza, tagliare le gambe a qualunque idea di ripresa di attiva e significativa azione nel campo della politica estera: perché un Paese posto, come lo è il nostro, nello scenario geografico del Mediterraneo, se privo di una flotta degna di questo nome, viene spogliato anche della possibilità di giocare un ruolo sullo scenario internazionale.

Ha scritto l’ammiraglio Giorgio Giorgerini in Storia della Marina (Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1978, vol. 6, Le Marine nell’èra nucleare, 1946-1980, p. 1.594):

 

Dopo le misure punitive si abbatterono più severamente [nel trattato di pace del 10 febbraio 1947] fu sulla Marina: a questo contribuirono non poco, oltre agli appetiti sovietici che nella realtà furono poi abbastanza contenuti per l’opposizione degli alleati occidentali, vecchi risentimenti e rivincite morali e materiali, alcune risalenti all’anteguerra, di parte francese e britannica. Ciò si manifestò non solo e non tanto nel numero di navi cedute per essere incorporate sotto altre bandiere, quanto nelle disposizioni  limitative delle futura consistenza della flotta (65.000 t.), e nelle imposizioni di demolizione o di affondamento di unità navali in soprannumero a quelle espressamente concesse. L’Italia cessava di essere una potenza navale, la sua marina non poteva disporre di più di 25.000 uomini, sino al 1950 non avrebbe potuto procedere alla costrizione di nuovi naviglio militare, le era proibito di costruire, acquistare o disporre di mezzi d’assalto navale di sommergibili, di portaerei, di naviglio silurante veloce.

Quando la guerra terminò, la Marina italiana, malgrado le gravi perdite subite nel conflitto, costituiva ancora un complesso navale di una certa importanza,: 5 navi da battaglia (“Vittorio Veneto”, “Italia”, “Doria”, “Duilio”, “Cesare”), 9 incrociatori (“Cadorna”, “Montecuccoli”, “Duca d’Aosta”, “Eugenio di Savoia”, “Duca degli Abruzzi”, “Garibbaldi”, “Pompeo Magno”, “Scipione Africano”, “Attilio Regolo”),  11 caccia (“Riboty”, “Da Recco”, “Grecale”, “Oriani”, “Fuciliere”, “Granatiere”, “Carabiniere”, “Artigliere”, “Mitragliere”, “Legionario”, “Velite”), 7 navi scorta, 15 torpediniere 19 corvette, 39 sommergibili, 14 motosiluranti, 15 mas, ecc. Di questa non indifferente forza navale, i vincitori imposero al’Italia la cessione o la demolizione di tutte le unità, tranne quelle poche che avrebbero costituito la residua flotta . Questa sarebbe stata composta dalle 2 vecchie corazzate “Doria” e “Duilio”, dai 4 incrociatori “Cadorna”, “Montecuccoli”, “Duca degli Abruzzi” e “Garibaldi”, di cui il primo era inservibile e il secondo superato; dai 4 caccia “Da Recco”, “Grecale”, “Granatiere” e “Carabiniere”, d cui il primo inutilizzabile e gli altri usurati dal servizio bellico, di 2 avvisi scorta (“Orsa” e “Orione”), 14 torpediniere, 19 corvette, da portare a 20; 7 vedette a. s., un certo numero di dragamine e navi ausiliarie. Nemmeno dopo Lissa la Marina italiana si trovò a questo punto!

Da un punto di vista tecnico e qualitativo si poteva anche pensare che la perdita non era un gran che,trattandosi nella quasi totalità di navi ormai superate e quanto meno bisognose di grandi lavori di ammodernamento. Se non di ricostruzione. Le navi da battaglia erano inutili,  gi unici nuclei di naviglio che presentavano ancora una certa importanza erano i 2 incrociatori “Duca degli Abruzzi” e “Garibaldi”, gli avvisi scorta e le corvette: tranne i secondi, ad eccezione di 2, gli altri rimasero in mani italiane. Ma il fatto era pregiudizievole sotto l’aspetto morale: era quello il momento in cui, prima di passare le navi sotto altra bandiera, poteva o doveva essere considerata l’eventualità di una ripetizione dei gesto di Scapa Flow del 1919 e di Tolone del 1942. Ma l’Italia del 1947, ormai divenuta repubblica, aveva ben altri problemi politici e sociali per poter prendere in attenta considerazione atteggiamenti del genere, anche se, a onor del ero, non mancarono dubbi sull’onestà e la convenienza nazionale di ratificare un tale trattato di pace. Tanto più che  quell’epoca ormai la situazione internazionale si andava talmente oscurando che in breve avrebbe cancellato le condizioni punitive verso le nazioni dell’ex Asse e dell’ex Tripartito, nell’ottica dei nuovi schieramenti contrapposti. Al di là di ogni altra considerazione tecnica e politica, gli eventi più emblematici di quel diktat furono la cessione dell’incrociatore “Eugenio di Savoia” alla Grecia e quella alla Francia dei piccoli incrociatori “Attilio Regolo” e “Scipione Africano”, della nave coloniale “Eritrea” e dei caccia “Mitragliere”, “Velite” e “Legionario” questi ultimi nemmeno utilizzati dalla Marine Nationale. Altre unità minori andarono alla Jugoslavia; all’Unione Sovietica la vecchia corazzata “Cesare”, l’incrociatore “Duca d’Aosta”, i caccia “Artigliere” e “Fuciliere” e l’antiquato “Riboty”, unità minori e un paio di sommergibili, oltre alla nave scuola “Cristoforo Colombo”.

La Marina Italiana, non più ormai Regia Marina ma divenuta Marina Militare, adempì sino in fondo alle disposizioni del trattato, procedendo anche alla demolizione di numerose unità, tra cui le navi da battaglia “Vittorio Veneto” e “Italia”, in origine assegnate alla Royal Navy e alla U.S. Navy che comunque vi rinunciarono richiedendone però la demolizione. In qualche modo fu evitata la distruzione di un paio di sommergibili, di qualche motosilurante, del “Pompeo Magno” e di qualche altra unità trovata danneggiata o semiaffondata al termine della guerra nei cantieri: questo naviglio fu tenuto più o meno occulto in attesa di tempi migliori, che non tardarono a venire per il mutamento delle situazioni internazionali.

 

A Scapa Flow, l’imprendibile base navale britannica situata nelle isole Orcadi, il 21 giugno 1919 l’ammiraglio tedesco Ludwig von Reuter fece autoaffondare la flotta, che vi si era radunata sin dalla fine di novembre del 1918, in attesa delle decisioni degli Alleati, e ciò mentre questi, nella Conferenza di Parigi, stavano ancora litigando sulla decisione ultima riguardo al suo destino (Francesi e Italiani ne reclamavano un quarto per ciascuno, mentre i Britannici avrebbero preferito l’affondamento, per evitare un incremento delle marine militari esistenti). In quel caso, i vertici della Marina germanica, indipendentemente dalla volontà del governo della Repubblica di Weimar, scelsero di perdere le navi per conservare intatto l’onore. Meglio sarebbe stato se essi avessero deciso di affrontare il nemico in battaglia: anche in quel caso le magnifiche navi della Flotta d’alto mare (Hochsee Flotte) sarebbero andate incontro alla distruzione quasi certa, stante la superiorità britannica, ma almeno il loro sacrificio sarebbe valso a qualcosa: avrebbe inferto gravi danni alla Home Fleet e, forse, contribuito a determinare un diverso esito del confitto, data la contemporanea offensiva dei sommergibili nell’Oceano Atlantico.

Per la Marina italiana si può fare una riflessione analoga. La cosa migliore, probabilmente, sarebbe stata quella di gettare le navi, con tutto il peso di una fotta ancora imponente, nella battaglia per la Sicilia, nel luglio del 1943. Data la schiacciante superiorità navale angloamericana e soprattutto la mancanza di copertura aerea, si sarebbe trattato di una operazione suicida, un po’ come sarebbe stata quella giapponese nel Mar delle Filippine nel giugno del 1944: però avrebbe imposto agli Alleati un forte scotto da pagare per la conquista della Sicilia e, con molta probabilità, li avrebbe sconsigliati dall’intraprendere subito, come invece essi fecero, una operazione a fondo contro l’Italia continentale. I loro piani originari, infatti, prevedevano al massimo una operazione di sbarco contro la Sardegna; la decisione di proseguire la campagna d’Italia al di là dello Stretto di Messina venne con la caduta del fascismo (fra il 25 e il 26 luglio del 1943) e con il disgregamento morale dell’esercito italiano, accompagnato da chiari segnali di sgretolamento dell’intera compagine statale. Quel che mancò, nel settembre del 1943, non solo da parte di Supermarina (la direzione suprema delle operazioni navali), ma proprio a livello politico, da parte del morente regime fascista, e, naturalmente, da parte di tutti i vertici delle Forze Armate – il cui capo supremo, non lo si dimentichi, era, sia pure nominalmente, il re Vittorio Emanuele III – fu la chiara e precisa volontà di opporsi all’invasione. Si ritenne che la guerra fosse ormai perduta (con la stessa leggerezza con cui, nel giugno del 1940, la si ritenne già vinta dalla Germania), e che il sacrificio della flotta sarebbe stato inutile. Ma non si tenne conto che “ininfluente” non significa, necessariamente, “inutile”: anche se fosse stato ininfluente sul piano strettamente militare - il che, peraltro, è tutto da dimostrare, e noi, come abbiamo accennato, non lo crediamo - certo non sarebbe stato inutile sul piano politico e morale. Gli Alleati avrebbero compreso di avere a che fare con una nazione decisa a battersi per difendere se stessa; e, molto verosimilmente, avrebbero receduto dalla richiesta di una capitolazione incondizionata, così come avevano scioccamente stabilito i loro leader nella Conferenza di Casablanca del gennaio 1943, e come poi realmente avvenne (ma come non era inevitabile che avvenisse, almeno nel caso dell’Italia).

Resta da vedere se, mancata l’occasione del settembre 1943, almeno nel febbraio del 1947 l’onore e la dignità del nostro Paese e della nostra Marina non avrebbero imposto l’autoaffondamento delle navi, per sottrarle al destino inglorioso di essere spartite fra le nazioni vincitrici. Se ciò fosse avvenuto, il governo italiano avrebbe dimostrato anche una certa fierezza a livello politico: avrebbe mandato un segnale di non essere disposto a subire qualunque umiliazione, e avrebbe rivendicato, per sé, la forza morale di un popolo che era stato bensì materialmente sconfitto, ma che non accettava di subire anche l’onta di una auto-umiliazione. Invece si decise altrimenti; e, con qualche astuzia un po’ levantina, si cercò di sottrarre alla demolizione alcune delle unità minori, barando al tavolo delle commissioni di ciò incaricate. Si può uscire da una guerra vinti, ma non umiliati; ma la cosa peggiore è quella di infliggersi una auto-umiliazione, quando sia possibile evitarlo, e sia pure pagando un prezzo. L’Italia del 1947, la Repubblica di Pulcinella nata da una guerra civile e da una enorme menzogna storica – quella che scaricava sul caduto regime e sul suo giustiziato Duce tutte le colpe che ebbero, e anche parecchie di quelle che non ebbero, o che non furono affatto colpe, misurate sul metro della politica internazionale allora comunemente praticata da tutte le maggiori nazioni – scelse la via dell’auto-umiliazione, accettò lo smembramento e lo smantellamento della flotta, e firmò le clausole che ne rendevano impossibile la rinascita futura; e, anche se l’adesione al Patto atlantico, nel 1949, avrebbe un po’ mitigato queste ultime, il fatto restava: l’Italia aveva accettato di bere sino in fondo l’amaro calice di una solenne umiliazione, dopo che il suo governo si era illuso che, alla tavola della pace, gli Alleati avrebbero tenuto conto del suo “ravvedimento” e le avrebbero riservato un trattamento, se non proprio del tutto amichevole, quantomeno abbastanza generoso.  Fra parentesi, c’è da chiedersi quale destino peggiore sarebbe stato riservato all’Italia, qualora essa avesse deciso di lottare sino alla fine al fianco della Germania e del Giappone, e fosse caduta con le armi in pugno, invece di compiere il miserevole voltafaccia dell’8 settembre 1943. È difficile immaginare che le sue città sarebbero state bombardate con maggiore ferocia di quella che le fu riservata dai “liberatori”, mano a mano che i loro eserciti avanzavano lungo la Penisola, dalla Sicilia alla Linea Gustav, da questa alla Gotica, e infine compivano il balzo conclusivo che pose termine alla campagna, dopo oltre un anno e mezzo di operazioni e immani devastazioni. È difficile immaginare per Montecassino, Roma, Milano, Torino, Genova, Treviso, Zara, un trattamento più duro di quello che ricevettero dai bombardieri angloamericani; o qualcosa di più atroce degli stupri e delle violenze di massa perpetrati dalla soldataglia marocchina, al servizio della cosiddetta Francia Libera, nell’Italia centrale. Quanto al trattato di pace del 1947, che cos’altro potevano toglierci i vincitori, che non ci abbiano effettivamente tolto? A parte la Valle d’Aosta, il solo boccone cui De Gaulle fu costretto a rinunciare, tutto il resto fu preso con la forza: Zara, Fiume, Pola, Capodistria; Gorizia fu tagliata a metà e se Trieste, quasi dieci anni dopo la fine della guerra (!), poté tornare all’Italia, ma ridotta a un misero moncherino senza retroterra e quindi commercialmente defunta, non lo si dovette certo alla benevolenza degli Alleati (la Francia, in particolare, non avrebbe potuto accanirsi contro di noi, sulla questione della Venezia Giulia, più di quel che fece; evidentemente non paga d’essersi presa Briga e Tenda), ma all’insorgere delle complicazioni della Guerra fredda e alla successiva rottura fra Tito e l’Unione Sovietica, compiutasi già nel 1948.

Tornando alla Marina: coloro che scelgono la carriera navale, e specialmente coloro che scelgono la carriera navale nelle Forze Armate, hanno un geloso codice d’onore: quel codice, ad esempio, che vieta a un comandante di sopravvivere alla perdita della sua nave, e che perfino un comandante civile, come Piero Calamai dell’Andrea Doria, voleva rispettare, quando il suo bellissimo transatlantico fece naufragio nell’Atlantico, dopo essere stato speronato nella nebbia da un mercantile svedese, il 26 luglio 1956 (e fu solo per l’estrema insistenza dell’equipaggio che, alla fine, egli accondiscese a salire su una scialuppa, ma solo dopo che tutti gli altri si erano messi in salvo: e non come ha fatto il comandante Schettino della Costa Concordia). Ora, se già il fatto di essersi consegnata senza combattere, nel settembre del 1943, aveva gettato un’ombra sul suo onore, il mancato auto-affondamento della flotta nel febbraio del 1947 rese quell’ombra ancora più fitta e, in un certo senso, confermò, agli occhi dei vincitori e di tutte le altre nazioni, la mancanza di orgoglio e di fierezza della nazione italiana.

Non c’è da stupirsi se, da allora, l’Italia ha dovuto ingoiare parecchie umiliazioni sul piano internazionale, ultima delle quali l’arresto e la detenzione illegale, in India, protrattasi per alcuni anni, di due fucilieri di marina. Le anime belle del pacifismo a senso unico e dell’internazionalismo d’accatto possono anche trastullarsi con i loro sogni voluttuosi di una umanità redenta dal demone della politica di potenza, ma la verità, nuda e cruda, è che, nei rapporti fra gli stati, vale lo stesso identico principio che vige tra i singoli individui, in un collegio, in una caserma, in una prigione: per essere rispettati, bisogna farsi rispettare. Nessuno regala nulla agli imbelli e agli inermi. La cosa fondamentale non è spuntarla sempre, ma far vedere che, se necessario, si è disposti a battersi. Perciò chi ha le navi, deve anche saperle usare, e, se occorre, sacrificarle: altrimenti, tanto vale non averle. Tuttavia, la mancanza d’amor proprio non è forse l’antico male della nostra classe dirigente?