Il 30 settembre è esattamente un anno dall’inizio dell’intervento dell’aviazione russa in Siria richiesto da Bashar Assad. Il bilancio umanitario è terrificante ma quello militare per il momento dà ragione a Mosca: Putin ha salvato il regime di Damasco, alleato storico sia della Russia che dell’Iran. Dal punto di vista strategico Putin ha ridato un lustro da grande potenza alla Russia tornata protagonista in Medio Oriente ma lo ha fatto anche a suo rischio e pericolo: la Siria può trasformarsi in una sorta di nuovo Afghanistanse Putin non troverà un accordo politico che garantisca a Mosca i vantaggi militari raggiunti. Per questo la visita del presidente russo il 10 ottobre ad Ankara può costituire un passaggio importante: la Turchia è il Paese anti-Assad più coinvolto sul terreno, ha permesso in cinque anni l’afflusso di migliaia di jihadisti in Siria, ha rischiato lo scontro frontale con la stessa Russia e si trova ai confini le forze curde siriane decise a ottenere un riconoscimento politico con il sostegno degli americani. 

Putin non si fida di Erdogan e viceversa ma i due hanno diversi interessi comuni, da quelli economici legati al gasdotto Turkish Stream a quelli strategici. Questi due attori della partita siriana hanno in parte raggiunto i loro obiettivi: Putin ha salvato Assad e garantito la presenza di basi militari russe in Siria e sulle coste del Mediterraneo, Erdogan, con l’intervento dell’esercito e delle milizie filo-turche, ha spezzato la continuità territoriale che avevano le forze curde siriane. L’altro obiettivo di Erdogan sarebbe quello di vedere realizzata una “no fly zone” nel Nord della Siria per “spazzolare” i curdi – certo non l’Isis – e di avere un corridoio fino ad Aleppo. Per ottenerli deve trattare con Putin e Assad che finora non si sono messi d’accordo con gli Stati Uniti. Aleppo quindi è decisiva. Si tratta di capire se Putin concederà a Erdogan quello che non ha voluto ancora dare agli americani, una spartizione in zone di influenza. La tregua in sostanza è saltata proprio su questo punto: gli americani avevano chiesto ai russi di non bombardare l’opposizione anti-Assad dove si mescolano i qaidisti di Al Nusra, nella lista nera del terrorismo, con le altre milizie.

Gli Usa avevano promesso di essere loro a contenere i qaidisti ma quando i russi e siriani si sono accorti che l’opposizione riguadagnava terreno, il cessate il fuoco è completamente fallito. Ecco perché Mosca ha accusato gli Stati Uniti di essere «incapaci di influire su questa situazione in qualunque modo», come ha dichiarato il portavoce di Putin, Dimitri Peskov. In questa situazione gli americani giocano una partita doppia. Da una parte contro la Russia e Assad, dall’altra devono accontentare i loro alleati come la Turchia e l’Arabia Saudita, portabandiera del fronte sunnita opposto a quello russo-alauita-sciita. Non è facile perché in Iraq la sconfitta del Califfato a Mosul rappresenterà comunque una vittoria per il governo sciita di Baghdad alleato di Teheran mentre in Siria la permanenza al potere di Assad costituisce per i sunniti una sonora sconfitta. Allo stesso tempo Putin se vorrà guadagnare qualche cosa di più della salvezza del regime di Damasco deve negoziare con gli attori locali e soprattutto con Washington. Ma ovviamente la spartizione della Siria non sarà decisa con l’America di Obama.