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Un terribile equivoco da dissipare

di Francesco Lamendola - 15/11/2016

Un terribile equivoco da dissipare

Fonte: Il Corriere delle regioni

 

Incombe sulla nostra società, sulla nostra cultura, sul destino stesso della nostra civiltà, un terribile equivoco, senza dubbio alimentato ad arte da chi vi è interessato, per le sue oscure ragioni, ma, altrettanto senza dubbio, perpetuato anche dal conformismo intellettuale e dalla volonterosa imbecillità dei mezzi pensatori, dei mezzi scrittori, dei mezzi sapienti, opinionisti, commentatori, tuttologi, scribacchini e chiacchieroni di professione; un equivoco che va dissipato ad ogni costo, se non per la remotissima speranza che le cose cambino, almeno perché sia fatta chiarezza, e il gioco si svolga un po’ più leale e pulito, nei limiti del possibile.

Innanzitutto, una osservazione preliminare: la cultura moderna, che è un prodotto della società di massa, è fondata sul mezzo sapere e sulle mezze verità, spacciate per l’intero sapere e per l’intera verità; è fondata su tutta una serie di luoghi comuni, di banalità assurte alla dignità di dogmi incrollabili, di vere e proprie falsificazioni, promosse al rango di sacrosanta verità; si sono creati dei riflessi condizionati potentissimi, che, come la saliva alla bocca per il cane di Pavlov, fanno scattare delle reazioni istintive, di pancia, non appena qualcuno ardisca pronunciare le parole-tabù, le parole maledette, e tutte le anime belle si sentono in dovere di scattare in piedi, di stracciarsi le vesti come Caifa, nel Sinedrio di Gerusalemme, davanti a Gesù Cristo, e di gridare a pieni polmoni: Non sia mai!

Ebbene: finché non verranno rimossi questi riflessi condizionati, finché le persone non si saranno liberate da questo condizionamento, non sarà mai possibile parlare seriamente di alcunché; ma qui si entra in un circolo vizioso: infatti, per de-condizionarsi, le persone dovrebbero tornare ad essere tali, cioè individui singoli, capaci di pensare con la loro testa e di scegliere la loro vita, mentre la società di massa, che abbiamo costruito, è tale proprio perché in essa l’individuo scompare, la persona si dissolve, e resta solo un gregge di pecoroni che fanno, automaticamente e passivamente, quel che fanno tutti gli altri, senza riflettere veramente, senza porsi vere domande, ma, al massimo, fingendo di farlo, tanto per mettersi a posto con la coscienza e con un vaghissimo sentimento della dignità personale.

In una società cosiffatta, si è venuta costituendo perfino una casta di parassiti sociali, che si auto-qualificano “intellettuali”, i quali, in teoria, dovrebbero rappresentare dei punti di riferimento perché la gente possa sviluppare una coscienza critica, mentre, di fatto, altro non sono che la cinghia di trasmissione dei poteri occulti che detengono il dominio mondiale della finanza e dell’economia, e che hanno già fatto i loro piani per rafforzare e accrescere lo sfruttamento dell’umanità, ridotta a una gigantesca massa amorfa e inconsapevole; per svolgere questa funzione i sedicenti intellettuali sono nati, all’ombra della Raison illuministica; per questo si sono costituiti in una apposita corporazione; e per questo difendono a spada tratta le loro posizioni di piccolo o medio privilegio (quasi mai grande, perché non ne sono ritenuti degni dai loro padroni: in fondo, non sono che servitori di lusso, meritevoli di disprezzo per la loro venalità e cortigianeria, agli occhi di quelli stessi che li foraggiano e li mantengono).

Per prima cosa, quindi, bisognerebbe fare piazza pulita di questa mala razza di parassiti sociali; bisognerebbe che le persone incominciassero a porre loro delle domande imbarazzanti, che pretendessero di sapere in nome di cosa costoro si guadagnano lo stipendio, e perché passano così disinvoltamente dal sostenere una certa tesi, alla tesi opposta, secondo che ricevono i loro bravi ordini di scuderia; bisognerebbe che la gente pretendesse di verificare i conti della spesa, e valutasse, tanto per fare un esempio, se un giornalista o una giornalista della televisione di stato merita di tenere una corrispondenza fissa da una qualche capitale estera, per quei tre o quattro minuti di servizio settimanale, o bisettimanale, nei quali non fa altro che sciorinarci (peraltro, non di rado, in un pessimo italiano e ignorando le basi della dizione e perfino la sintassi) le “veline” spudorate del governo e dei poteri forti di quel Paese: in altre parole, se è etico che noi paghiamo lautamente dei “professionisti”, i quali ci ammanniscono un sacco di bugie di Stato (estero), dopo essere arrivati dove sono arrivati, magari, per via di amicizie politiche e non di meriti reali, e che conservano quelle poltrone perché sanno nuotare bene nella palude fangosa della bassa politica, fatta d’inciuci e intrallazzi, sottraendo il posto a qualche altra persona, magari a qualche bravo giovane, che ne sarebbe infinitamente più degna.

Lo stesso discorso, naturalmente, si potrebbe fare per chissà quanti baroni universitari che tengono la cattedra di qualche strana disciplina, frequentata da due o tre studenti, e che dedicano alle lezioni cinque o sei ore settimanali, mentre occupano a tempo pieno (si fa per dire) qualche altro incarico ancora meglio remunerato, come la direzione sanitaria di un ospedale o qualche poltrona ministeriale o sottoministeriale; per non parlare delle loro gentili consorti, dei loro figli, dei loro generi e delle loro nuore, nonché delle loro amanti, tutti, chi sa come, felicemente sistemati in quella stessa università, e tutti lautamente stipendiati, in base a non si sa quali competenze, con il denaro proveniente dalle nostre tasche, cioè coi sudatissimi stipendi e con le misere pensioni dei comuni cittadini, esclusi dal “giro” della gente che conta. E questo mentre delle maestre e dei professori di scuola media sputano l’anima tutti i santi giorni per fare scuola in classi di trenta alunni, per uno stipendio ai limiti della decenza, presi fra l’incudine di una dirigenza sempre più burocratizzata e manageriale, che si disinteressa della sostanza didattica della loro professione, e una “utenza” sempre più intrattabile e arrogante, cioè, in parole povere, di alunni sempre più distratti e irrispettosi e di genitori sempre pronti ad alzare la voce (e, talvolta, perfino le mani) o a minacciare querela, per una mezza parola di rimprovera che i loro pargoli abbiano ricevuto, di solito più che meritatamente, dagli insegnanti. E mentre un poliziotto o un carabiniere rischiano addirittura la pelle nell’esercizio del loro dovere quotidiano, a causa di una malavita sempre più aggressiva e di una delinquenza diffusa, resa sempre più audace dalla quasi certezza di farla franca in sede processuale; per guadagnarsi una paga, in proporzione, ancor più misera di quella dei maestri, senza mai avere le spalle coperte dalla magistratura, anzi, esposti al pericolo continuo di essere denunciati dai delinquenti che hanno arrestato o dalle loro famiglie, tutti nobilmente assetati di “giustizia”, ma non per le vittime dei reati, bensì per i presunti torti che i loro cari, che militano allegramente nella confraternita dei delinquenti di professione, affermano di aver subito al momento dell’arresto, o durante la detenzione prima del processo.

Comunque, tornando al nostro tema principale, il problema è che la società continuerà ad essere malata, e le cose seguiteranno ad andare di male in peggio, fino a quando non ci saremo liberati dalla nefasta influenza di questi semi-intellettuali buonisti e progressisti – siano essi giornalisti, magistrati o pretesi “pensatori” -, portatori di una vera e propria pestilenza culturale e sociale, basata sull’assurdo teorema che vede la giustizia sempre e solo dalla parte del “povero”, anche se è tale semplicemente perché non vuol saperne di lavorare, ma preferisce vivere di elemosina e di rapine; e l’ingiustizia sempre e solo dalla parte del “ricco”, anche se ricco non lo è, a meno che si voglia definire “ricco” un piccolo commerciante o un piccolo imprenditore i quali, fra mille sacrifici, abbiano messo su un’attività e poi, oltre a dover versare allo Stato il 70% dei sudati guadagnai, sotto forma di tasse, devono anche vedersela con i piccoli malviventi che rapinano continuamente i loro negozi, i loro ristoranti o le loro fabbriche, che penetrano nelle loro case, che rubano denaro e oggetti preziosi e che, magari, già che ci sono, picchiano, violentano e stuprano gli abitanti della casa.

E ora affrontiamo il tema che ci eravamo posti: il terribile equivoco da dissipare. L’equivoco è questo: che essere se stessi, e riconoscere le proprie radici, anche con un certo grado di fierezza, rappresenti una forma intollerabile di presunzione eurocentrica, cristianocentrica, etnocentrica (bianca), e che la sola maniera di rispettare le altre culture, le altre religioni e le altre identità, sia quella di annullare la propria, di svilirla, di umiliarla, di trascinarla nel fango, di coprirla di scherni e di sputi (come fanno, con inarrivabile finezza e impeccabile buon gusto, i redattori di Charlie Hebdo); insomma, che l’unica maniera di essere perone civili equivalga a vergognarsi di quel che si è, delle proprie radici e della propria tradizione, e di prostrarsi davanti a tutti gli altri, presentando loro le scuse più sentite per i “crimini” e le “colpe” dei propri progenitori, risalendo fino alla trentesima generazione, e, se possibile, anche più oltre.

Si tratta di una follia, e, per giunta, di una follia suicida; pure, essa è ormai talmente diffusa, e talmente circondata da un’aura di autorevolezza morale, nonché talmente penetrata a fondo nel modo di pensare delle persone politicamente corrette – cioè tutte quelle che aspirano, in un modo o nell’altro, a far carriera – che liberarsene appare difficilissimo, quasi impossibile, anche perché, come diceva Étienne de La Boëtie, non vi è servitù più difficile da cui liberarsi, che la servitù volontaria dei popoli e delle società. Si direbbe che la nostra civiltà stia esprimendo, attraverso questa cultura dell’auto-disprezzo, una vera e propria pulsione di auto-distruzione; che voglia oscuramente cercare la propria morte, magari tra le alte fiammate di un bella pira funebre, quasi per espiare qualche colpa imperdonabile gravante sulle spalle di tutti e di ciascuno. Curioso, vero? La cultura moderna, che ha respinto con disprezzo il cristianesimo, accusandolo di essere basato sul senso di colpa degli uomini davanti a Dio, sta ora per soccombere sotto il peso di un senso di colpa di origine incerta, inafferrabile, inspiegabile (almeno secondo i criteri della Raison illuminista), una colpa dalla quale non si può essere perdonati e per la quale si può solo morire. Strano, perché perfino l’aborrito cristianesimo offre una via d’uscita, e promette la pace e la salvezza al peccatore pentito, fosse pure il peccatore più nefando; mentre dal senso di colpa della cultura moderna non esiste alcuna redenzione, esso è ovunque e in nessun posto, allo stato di veglia e nelle profondità del sonno, quando si agisce bene e quando si agisce male; non risparmia nessuno, non fa sconti a nessuno, non accetta prigionieri, non concede tregua o remissione alcuna: vuole solo divorarci, distruggerci, cancellare di noi anche il ricordo. Bel risultato davvero, per una cultura che ha cacciato Dio in nome della libertà e della dignità dell’uomo, e che ha gettato sull’anima degli uomini un tale micidiale fardello, dal quale nessuna forza umana (ed è vero) potrebbe mai sollevarli, anche perché essi per primi non vogliono essere salvati, e nemmeno consolati.

Eppure, lo ripetiamo: non vi è niente di sbagliato, niente di presuntuoso, niente di “razzista”, o di autoritario, o di “fascista”, nel sostenere con fierezza la propria identità: l’identità sessuale, maschile o femminile; l’identità familiare; l’identità religiosa; l’identità regionale; l’identità nazionale, l’identità culturale; l’identità in qualunque altra forma o espressione. Chi mai ha detto che sostenere la propria identità, viverla apertamente, dichiararla, anche, quando occorre, rappresenterebbe un attentato alle identità altrui? Al contrario: l’impoverimento avviene quando si mescolano, di disperdono e di dissolvono le diverse identità nella indistinta, stagnante palude del conformismo, dell’appiattimento, della omologazione. E chi mai ha detto che affermare la propria identità, ovviamente senza alcuna pretesa d’imporla ad altri o di considerarla “superiore” alle altre, rappresenterebbe un erigere muri, quando ci sarebbe invece bisogno di ponti? Questo è un discorso sciocco, generico e ingannevole. Nella vita reale, e non nelle vuote e altisonanti astrazioni ideologiche, servono anche i muri, eccome: quale casa potrebbe essere costruita, se non vi fossero i muri a sostenerla e proteggerla? Viceversa, nella vita reale non è sempre saggio gettare dei ponti: bisogna vedere, infatti, chi c’è sull’altra sponda. Se sull’altra sponda c’è una tigre feroce ed affamata, sarebbe un’autentica pazzia, una pazzia suicida - appunto – quella di gettare un ponte verso di essa. A quale scopo? Per offrirle il proprio corpo quale pasto del mezzogiorno? Eppure, tutte queste roboanti assurdità, banalità e sciocchezze buoniste, ci vengono ammannite dalla mattina alla sera, anche dai pulpiti più prestigiosi: Non alzate muri, gettare invece dei ponti! Eh, sì: come suonano bene frasi di questo genere. Peccato che siano solo delle solennissime sciocchezze e delle farneticazioni inverosimili; e peccato che le persone non abbiano sviluppato, mediamente parlando, abbastanza senso critico e abbastanza consapevolezza spirituale, per riconoscerle come tali, e per zittire, con fischi sonori e con lancio di pomodori marci, quei signori che non si stancano mai di predicarle, spacciandole per Verità rivelata e puntando il dito, minacciosi e sprezzanti, contro i nuovi miscredenti, i quali osano dubitare della loro giustezza e della loro sacralità.

Eppure, qui sta la radice di moltissimi dei nostri problemi attuali, se non proprio di tutti: dal senso di colpa che ci opprime e che tentiamo di esorcizzare con l’auto-disprezzo e l’auto-mortificazione…