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“Perché No”. Pascale, la pizza e la globalizzazione

di Gian Maria Bavestrello - 10/02/2017

Fonte: autonomismo

“Urge un’alleanza Pro global per contrastare la gelata dei commerci”. “Grazie alla globalizzazione si vive di più”. “La globalizzazione non è finita, va solo agganciata. Parla Passera”. Ancora: “La morte dell’inventore del Big Mac ci ricorda l’Abc della globalizzazione”. Sono solo alcuni dei titoli di articoli che fra il 2016 e oggi Il Foglio ha pubblicato in difesa della “globalizzazione” e del libero scambio di capitali e merci.



Ieri, l’ennesimo: “Perché la globalizzazione batte la sacralità dei batteri del parmigiano”, a firma di Antonio Pascale.  Che, richiamandosi al saggio di Paolo Giudici, “Prodotti alimentari e il falso mito dei microrganismi autoctoni”, sembra non avere dubbi: “Nel mondo moderno un qualunque oggetto nasce da una collaborazione internazionale. Nel mondo moderno vince – è più ricco – chi si scambia idee non quelli che ritengono che le loro idee siano sacre e speciali e dunque non soggette a contaminazioni”. C’è del vero, in questo, come c’è del vero in quanto Pascale stesso afferma in un altro articolo: “Prendiamo la pizza. Se a freddo smonto il prodotto che trovo? Il pomodoro non è italiano, le bufale (con cui si fa la mozzarelle) nemmeno: sono animali arrivati a seguito delle truppe barbare che presero Roma. Pure il basilico non è tradizionale, viene dall’India. Va bene, capisco, voi dite e giustamente, però esistono vocazioni territoriali (nel nostro variegato paese soprattutto) e infatti siamo vocati per la pizza, ma se da un lato, a caldo, difendiamo la vocazione territoriale dunque creiamo dei protocolli di difesa del prodotto, a freddo, se ci ragioniamo, il suddetto protocollo crea limiti all’innovazione”. E, quindi, a ciò che poi diventerà tradizione. Sia benedetta la globalizzazione, quindi? E sia benedetta alla faccia di ciò che pensa l’opinione pubblica sui meccanismi che l’elevata competitività internazionale ha introdotto nelle nostre vite in questi ultimi 20 anni?

Niente affatto. Perché il problema, in realtà, non è tanto il “cosa”, l’oggetto in questione, ma il “chi” e il “come”: non è la circolazione di prodotti, merci e informazioni, ma gli attori che muovono questi prodotti, queste merci e queste informazioni. Attori che, lo sappiamo bene, si chiamano mercati e rispondono a logiche sempre più speculative, lontane dagli interessi e dai valori dell’economia reale. E che dire delle modalità in cui beni e servizi di portata globale si inseriscono nel tessuto locale sotto molteplici aspetti: sociali, culturali, persino urbanistici? Precariato diffuso, distruzione del piccolo commercio e dell’artigianato locale, abbrutimento antropologico e paesaggistico legato alla continua apertura di outlet e centri commerciali, hanno reso la globalizzazione un affare solo per chi controlla il vertice delle nuove filiere produttive. Al massimo per quei Paesi o quelle aree con capitali e know how.

La globalizzazione, se concepita come accesso a risorse indispensabili che “in loco” scarseggiano o mancano del tutto, è un farmaco prezioso, anzi indispensabile, ma come ogni farmaco può anche essere un veleno se assunto in dosi superiori alla necessità. Nonostante alcune severe lezioni impartite all’establishment “pro-global” nel segreto delle urne, siamo ancora lontani dal comprendere perché tutti i prodotti agro-alimentari tradizionali, per ricalcare un vecchio sogno di quel grande geo-filosofo che Luigi Veronelli, andrebbero marchiati con la “de.co”. Dietro i prodotti del mondo contadino non opera, infatti, solo un salvifico ideale di autonomia da remote dinamiche di mercato e di potere, ingovernabili per via democratica, ma anche un ideale di libertà, o meglio di emancipazione. Un ideale che è frutto del saper fare proprio dell’homo artifex.

Sia chiaro: non stiamo proponendo, in assoluto, la strategia migliore sul piano economico. Anzi, probabilmente non lo è, calcolatrice alla mano. Ma non di soli numeri vive l’uomo, se questi numeri non risolvono ma anzi complicano l’equazione della vita. Perché al di fuori di quel punto “co” – che significa “comunale” e quindi “locale” – si smarriscono irreparabilmente la radice e la dimensione umana di quei problemi a cui cerchiamo di rispondere con i mezzi offerti dall’economia, dal mercato, dal lavoro. Mezzi. Non fini.