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Globalizzazione: una rivoluzione tecnologica involutiva. Quarta rivoluzione industriale o ritorno all’800?

di Luigi Tedeschi - 15/03/2017

Fonte: Italicum

 

 


Stiamo vivendo un periodo di transizione, in vista dell’avvento della quarta rivoluzione industriale. La storia viene oggi identificata con i processi evolutivi del capitalismo. E’ infatti l’economia globalista a determinare la prassi di trasformatrice della società. La politica e la cultura hanno solo la funzione di adeguare le istituzioni ad una realtà già affermatasi nella struttura economica della società. La quarta rivoluzione industriale scaturisce da una innovazione tecnologica data per immanente ed irreversibile, in perfetta coerenza con l’ideologia del progresso inteso come principio totalizzante dello sviluppo economico e sociale globale. L’intera umanità sarebbe quindi subordinata alla fatalistica destinalità impersonale e necessaria rappresentata dal progresso. Tale fatalismo è ben riassunto in una frase di Seneca, fatta propria dall’ideologia neoliberista secondo la quale “non si può fermare il vento con le mani”.
La quarta rivoluzione industriale ha la sua genesi nella globalizzazione economica, il cui avvento nel XXI° secolo ha determinato la “fine della fabbrica”, nella prospettiva futuribile profetizzata da Jeremy Rifkin della “fine del lavoro”. Infatti nell’ultimo ventennio, nei paesi industrializzati, la produzione industriale non si svolge che per una minima parte nei paesi d’origine. Il processo produttivo è stato esternalizzato e ha subito una progressiva frammentazione in filiere industriali costituite da produttori di beni intermedi collocati in continenti diversi. Si sono dunque create le cosiddette “catene di valore aggiunto” attraverso la esternalizzazione delle varie fasi produttive: quelle con alta intensità di lavoro sono state delocalizzate nei paesi in cui il costo della manodopera fosse minimo e scarsa o inesistente fosse la protezione sociale, la componentistica viene prodotta in paesi più sviluppati e solo le fasi finali di perfezionamento, unitamente alla ricerca e sviluppo, vengono svolte nei paesi – guida del mondo industriale (USA, Germania, Giappone ecc…). Il progresso tecnologico comporta oggi ulteriori evoluzioni del sistema produttivo, al fine di accrescerne l’efficienza, la produttività, la competitività, il valore aggiunto.

 


Tale processo determinerà logicamente l’estromissione di masse di lavoratori dal mondo industriale. La quarta rivoluzione industriale ha già prodotto profondi sconvolgimenti nel mondo del lavoro, i cui effetti sono evidenti: si pensi alle masse di americani che hanno costituito il bacino elettorale di Trump: lavoratori espulsi dalla produzione e non più riassorbibili in virtù dell’innovazione tecnologica che ha reso obsoleti molti impieghi. Nuovi protezionismi vengono invocati dai rinascenti nazionalismi europei. Questi fenomeni, esplicativi di un mondo in evoluzione verso obiettivi non ancora ben delineati, vengono interpretati come sintomi di un malessere sociale assimilabili al luddismo del XIX° secolo, congeniti a fasi di transizione verso nuove evoluzioni tecnologiche immanenti. Qualora, con la distruzione dei telai meccanici da parte degli artigiani inglesi avesse prevalso il luddismo, la rivoluzione industriale non avrebbe avuto luogo.
La rivolta dei tassisti contro Uber rappresenta solo la punta di un iceberg di una innovazione tecnologica che sconvolgerà il mondo del lavoro a livello globale. Sono già stati soppiantati tanti lavori manuali. Uber è solo il primo passo, perché sono già in funzione negli USA auto senza guidatore, i robot hanno espulso migliaia di lavoratori dalle fabbriche di auto e di elettrodomestici, l’i – pad e i giornali digitali stanno determinando la fine degli edicolanti e dei librai, la vendita in rete distrugge progressivamente il commercio al minuto. Giardinieri, camerieri, infermieri, bigliettai, e con essi molti servizi impiegatizi, sono in via di estinzione.
Ma le ricadute sociali delle attuali innovazioni tecnologiche sono assai diverse rispetto alle rivoluzioni industriali dei secoli scorsi. Secondo Paul Krugman, la novità di tale fenomeno è costituita dal “maggiore impatto del progresso tecnologico sui lavori cognitivi che su quelli manuali”. Infatti, i software per l’autenticazione delle transazioni renderanno inutili notai e revisori, i software con le banche dati normative faranno scomparire i praticanti avvocati, i software per il design soppianteranno i giovani architetti, i software per gli algoritmi per i titoli di borsa renderanno inutili i matematici, i programmi e – lerning si sostituiranno agli insegnanti. E’ evidente che gli effetti della attuale rivoluzione tecnologica sull’occupazione saranno devastanti. Tuttavia le analogie con la prima rivoluzione industriale dell’800 si rivelano assai profonde. Come afferma ancora Krugman (Il Sole 24Ore del 05/03/2017): “I luddisiti erano soprattutto operai specializzati, non proletari: erano tessitori che rappresentavano una sorta di aristocrazia operaia, ma vedevano le loro competenze deprezzate dal telaio meccanico”. Sempre Krugman rileva che l’industrializzazione portò progresso ed evoluzione per le masse, ma tali risultati furono realizzati solo dopo parecchie generazioni. L’estendersi della disoccupazione intellettuale è documentato dalla diffusione del lavoro precario nella fascia di popolazione con più elevato livello di istruzione. Secondo uno studio degli economisti L. Katz e A. Krueger, “la percentuale di statunitensi che svolge un lavoro atipico è passata dal 10,1 per cento del 2005 al 15,8 per cento del 2015. E circa il 40 per cento delle persone che svolgono un impiego simile ha almeno un diploma universitario triennale”. (Internazionale del 22/02/2017).

 
L’intellighenzia neoliberista vede in questa quarta rivoluzione tecnologica potenziali aumenti di produttività, come unici strumenti possibili per garantire una ripresa della crescita economica, una strada obbligata per l’incremento della “torta economica”. Le rivoluzioni industriali dei secoli scorsi, con la meccanizzazione delle attività artigianali hanno creato nuove professioni, dalla catena di montaggio è scaturito il fordismo e società industriale del ‘900, con diffusione di benessere generalizzato, emancipazione dai bisogni materiali, aumento del livello di istruzione delle masse. La trasformazione di maggiore rilevanza avvenne con la meccanizzazione dell’agricoltura, specie nell’Italia degli anni ’50/’60 che da paese prevalentemente agricolo divenne una potenza industriale dell’occidente. Occorre osservare tuttavia, che l’industrializzazione ebbe la capacità di assorbire in tutto il mondo la manodopera eccedente in agricoltura. La quarta rivoluzione industriale non prospetta simili orizzonti. L’innovazione non si dimostra in grado di creare nuove professioni che in minima parte, non si intravedono possibilità di riassorbimento della manodopera estromessa dalla produzione.

 
La politica dovrebbe allora assumersi il compito di far fronte agli squilibri sociali scaturiti dall’innovazione, i cui oneri non possono ricadere sulle classi disagiate, che vengono estromesse dal mondo del lavoro. Le rivoluzioni industriali del ‘900 avvennero in un contesto storico – sociale assai diverso da quello odierno. Nel ‘900 prevalse negli USA il modello keynesiano e in Europa fu istituzionalizzato il modello socialdemocratico – solidarista dell’economia mista, con il controllo statale dell’economia, la programmazione economica, la redistribuzione dei redditi, le politiche sociali atte a realizzare la piena occupazione. Nell’attuale mondo globalizzato il sistema economico neoliberista non prevede ricadute sociali conseguenti alla innovazione tecnologica.
Nella politica economica della UE viene utilizzato un indicatore denominato NAWRU (Not Accelerating Inflation Rate of Unemployment), in base al quale viene fissato un tasso di disoccupazione al di sotto del quale i paesi dell’Eurozona non possono scendere, per non generare incrementi dell’inflazione. Infatti un regime di piena occupazione comporterebbe un innalzamento dei salari e quindi aumento del tasso di inflazione. Tale indicatore si è rivelato uno strumento assai proficuo per la compressione dei salari e l’incremento della disoccupazione. In tale contesto, il contenimento dei salari e dell’inflazione ha alla lunga prodotto deflazione e recessione. E’ questo un orientamento del tutto conforme ai dogmi dell’economia liberista: un elevato tasso di disoccupazione può garantire la compressione dei salari e quindi produrre maggiore competitività ed elevati profitti. Europa, liberismo e piena occupazione sono quindi tra loro incompatibili.
Lo stesso progresso tecnologico ha il suo fondamento ideologico nel neoliberismo economico: gli investimenti nell’innovazione aumentano la produttività, ma a discapito dell’occupazione. Gli effetti della rivoluzione tecnologia in corso sono evidenti: disoccupazione, precarietà del lavoro, dissesto sociale: la quarta rivoluzione industriale non rappresenta un progresso, ma è semmai una riviviscenza della proletarizzazione delle masse e delle diseguaglianze sociali del capitalismo della prima rivoluzione industriale del secolo XIX°.

 

Reddito di cittadinanza: la fine del lavoro

 
L’idea del reddito di cittadinanza ha la sua origine in una concezione umanistica della società: nella esigenza che lo stato, nel riconoscere ad ogni individuo lo status di cittadino, debba garantire a tutti un reddito minimo al fine di tutelare una dignitosa esistenza alla intera società. Tuttavia, ogni teoria non è di per sé giusta o errata nella sua astrattezza concettuale, ma va contestualizzata nella realtà storico – sociale in cui viene ad essere applicata. Infatti il reddito di cittadinanza viene oggi ad essere riproposto nella società di mercato globalizzata. Questo non è davvero un paradosso, dato che hanno teorizzato il reddito minimo garantito teorici del capitalismo assoluto quali Von Hayek e Friedman, oltre ad essere recentemente riproposto da Junker nell’ambito della UE.
Il reddito di cittadinanza è infatti del tutto coerente con lo sviluppo del capitalismo assoluto che, attraverso l’esasperante competitività ha prodotto compressione salariale, calo della della domanda globale, disoccupazione dilagante. La finanziarizzazione dell’economia determina il trasferimento degli investimenti dei profitti della produzione industriale nel mercato finanziario e pertanto, un alto tasso di disoccupazione diviene un fenomeno congenito ed ineliminabile nello sviluppo dell’economia capitalista. Determinandosi quindi una rilevante disoccupazione endemica, il reddito di cittadinanza diviene uno strumento indispensabile per la sopravvivenza di masse di lavoratori disoccupati che il mercato non è in grado di riassorbire. La deflazione salariale produce decremento del potere d’acquisto e necessariamente, calo della domanda. Il reddito di cittadinanza è quindi indispensabile per la sussistenza della produzione e dei consumi.
Il progresso nella società capitalista si identifica con l’espansione illimitata di produzione e consumo e pertanto, allo sviluppo della produzione deve fare riscontro l’espansione di un consumo, che, non potendo essere sostenuto da un tasso di occupazione adeguato, deve essere artificialmente creato attraverso l’erogazione di un reddito minimo. La società capitalista è strutturata sulla forma merce, sulla valutazione economica cioè di ogni rapporto sociale ed il lavoro diviene quindi merce soggetta a valore di scambio. Ma oggi il lavoratore – mercificato viene soppiantato dall’homo consumans. Infatti, le masse condannate ad una disoccupazione endemica, costituiscono una sorta di lavoro – merce che, a causa della sovrapproduzione, diviene obsoleta ed invendibile. Il lavoratore disoccupato, al pari della merce invendibile perché fuori mercato, deve essere riciclato nel consumo a prezzo di liquidazione per esaurimento scorte, onde impedire il collasso del sistema produttivo.

 

Reddito minimo e fine del welfare

 
Il reddito di cittadinanza non costituisce, come può sembrare in via di principio, uno strumento di rivitalizzazione del welfare atto a sopperire allo stato di povertà in cui versano le classi subalterne. Anzi, esso si rende necessario proprio a causa dello smantellamento del welfare. Lo stato, nell’erogazione del reddito minimo, non crea domanda aggregata, non sostiene i salari minimi. Lo stato semmai rinuncia alla sua funzione di promotore degli investimenti e dell’occupazione, in quanto, attraverso il reddito di cittadinanza legalizza e rende definitiva l’estromissione di masse di disoccupati dal mercato del lavoro. La fine del welfare e della legislazione pubblicistica del lavoro, ormai soggetto nei fatti a forme di contrattazione di natura privatistica, comporta una accentuata compressione salariale. Il reddito di cittadinanza, non contribuisce alla salvaguardia dei livelli salariali. Stabilito per legge un reddito minimo di sopravvivenza, il mercato del lavoro subirà un ulteriore livellamento salariale verso il basso, calmierandosi su retribuzioni minime, di poco al di sopra del reddito di cittadinanza.
Nell’economia liberista lo stato non persegue la finalità della piena occupazione, ma diviene un ammortizzatore sociale funzionale al capitalismo, in quanto sostiene gli oneri della liberalizzazione economica che può sussistere se, e nella misura in cui, lo stato ne sostiene i costi sociali. Secondo la tesi di Luciano Gallino, “Non è affatto vero che lo Stato spende troppo e bisogna quindi tagliarne le spese per tornare sul terreno virtuoso dello sviluppo. E’ vero invece che lo Stato spende troppo poco rispetto a quanto incassa, venendo così a mancare all’impegno di restituire ai cittadini le risorse che da loro riceve”. (L. Gallino, “Come e perché uscire dall’euro ma non dall’Unione Europea”, Laterza 2015). Infatti, il prelievo fiscale si rivela maggiore, rispetto a quanto viene redistribuito ai cittadini sotto forma di servizi sociali, welfare, investimenti infrastrutturali, che, attraverso l’effetto di moltiplicazione del reddito investito, creano sviluppo ed occupazione. Il mancato reinvestimento dell’avanzo primario del bilancio dello stato, è la causa principale della recessione e della crisi occupazionale. Anzi, mediante il reddito di cittadinanza, viene effettuata una distribuzione monetaria che può sostenere i consumi, ma a discapito degli investimenti e dell’occupazione.
Sempre secondo Luciano Gallino, i costi della disoccupazione (che con il reddito di cittadinanza subirebbero un verticale incremento), si rivelano devastanti non solo per la contrazione del Pil, ma soprattutto per la sottoutilizzazione degli impianti produttivi e delle risorse umane, le cui capacità professionali vengono rapidamente perdute.

 

Alienazione ed espropriazione del lavoro: la nuova frontiera della prossima guerra di civiltà

 
Secondo l’art. 4 della nostra costituzione “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Nella società attuale si ripropongono quelle diseguaglianze e quelle forme di dipendenza delle masse dai bisogni primari che le ideologie novecentesche, attraverso riforme sociali sistemiche vollero rimuovere. La fine del lavoro rappresenta un capovolgimento dei valori etici fondativi della nostra società. Affermava Giovanni Gentile: “Da quando lavora, l’uomo è uomo, e s’è alzato al regno dello spirito, dove il mondo è quello che egli crea pensando: il suo mondo, sé stesso. Ogni lavoratore è faber fortunae suae, anzi faber sui ipsius”. L’uomo nel lavoro realizzando sé stesso realizza anche lo Stato.
Il reddito di cittadinanza invece è espressione di nuove subalternità e nuove schiavitù della società nei confronti del mercato. Lo stato a sua volta è relegato a funzioni assistenziali, ma perfettamente coerenti e compatibili con il capitalismo assoluto.
La teoria marxiana dell’alienazione, quale condizione di un uomo asservito ad una struttura produttiva rigida, in una situazione storica determinata ed immutabile, oggi subisce ulteriori evoluzioni. Il prodotto del lavoro dell’uomo, nella società del capitalismo assoluto, diviene un “ente estraneo” al produttore. Si realizza quindi una condizione dipendenza dell’uomo dall’oggetto del proprio lavoro. Masse di lavoratori, già espropriate del proprio lavoro, divengono oggi disoccupati endemici, un popolo di emarginati dalla società in cui vivono. Con la negazione delle sue capacità produttive, viene sottratta all’uomo la sua umanità. Secondo quanto affermava Marx “Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto quello che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza… Producendo questi gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale” (Ideologia tedesca, 1845). Nell’attuale società capitalista, ad una umanità estromessa dal lavoro, viene sottratta ogni possibilità di emancipazione e di trasformazione della società stessa: viene negato all’origine l’uomo come essere sociale. Si profila una nuova società svuotata del suo senso dell’esistere.
Al disagio sociale e alla progressiva proletarizzazione delle masse scaturita dall’avvento della globalizzazione farà seguito un senso di inutilità immanente proprio di una condizione umana condannata ad una permanente emarginazione.
I presupposti delle possibili, futuribili evoluzioni e/o rivoluzioni saranno costituiti dal profilarsi di un nuovo scontro di civiltà: non certo quello delle guerre di aggressione americana, bensì quello tra la civiltà del lavoro e la barbarie incipiente del dominio capitalista globale.