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Albert Camus: la rivolta nichilista come lotta biologica

di Luca Leonello Rimbotti - 15/03/2017

Fonte: Italicum

 

Effettivamente, all’inizio fu l’azione: come scrive Goethe nel Faust, come conferma Darwin nell’Origine della specie, il primo apparire è necessariamente un accadere. Qualcosa avviene, qualcosa è gettato sulla scena. L’uomo è esso stesso un evento.

E gli antichi Greci, che dominarono l’intera scena del possibile costringendo noi postumi a ripetere il già detto, posero non per caso Prometeo al fondamento ontologico delle loro teogonie. Il rapinatore del fuoco cosmico, Prometeo, è il vero costruttore dell’Occidente, nel suo gesto è il destino di necessità: la rivolta, ma non come sovversione dell’ordine naturale delle cose, dai Greci divinizzato, bensì come protezione di quell’ordine, suo ristabilimento sacro nella sacralità dell’essere. Prometeo non contesta l’ordine degli dèi, ma il solo Zeus, il dio-individuo, parendogli quella sovranità l’usurpazione storica di una legittimità trascendente, metafisica. C’è dunque chi ha visto nel concetto e nell’atto stesso della rivolta la sostanza prima della civiltà europea. Il suo essendo un edificare basato essenzialmente sul demolire e sul sovvertire, per poter ricostruire più in altro e più potentemente. Dalla rivoluzione agricola del Neolitico a quella razionalista della scuola ionica, dalla rivoluzione conservatrice di Augusto a quella cristiana, a quella cartesiana, ogni qualvolta in Occidente si pone mano ad eventi, tecniche o stili di pensiero fondativi si attua la sanzione della rivolta. Si distrugge e si ricostruisce, si reagisce e ci si impone. Uno che di questi argomenti si intendeva, Albert Camus, scrisse che «in quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del ‘cogito’ nell’ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’individuo dalla sua solitudine. È un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Mi rivolto, dunque siamo».

È qui ben spiegata la sostanza di ogni intrapresa, che magari parte dalla spinta dell’individuo, ma poi – se ha il carattere di un evento storico – viene ad assumere rilevanza comunitaria. Non è un caso che tutti i regimi moderni abbiano voluto legittimarsi dicendosi figli della rivoluzione, e ognuno aveva la sua e la dichiarava l’unica autentica, e a un certo punto sembrò che solo rivoluzionando e rovesciando si potessero avere i titoli per fondare qualcosa di vivo e vitale. La filosofia della rivolta è in fondo tipica delle epoche di decadenza. Quelle che ancora nascondono in sé il dono dell’antitesi e dell’anticorpo. Anzi, possiamo ben dire che il ribelle sia l’unico prodotto sano e positivo di quella malattia mortale che è la decadenza. Facciamo caso al fatto che Jünger, proprio nel Trattato del ribelle, ha scritto che «il dominio può venire unicamente da quegli uomini che hanno mantenuto intatta la consapevolezza della dimensione originaria dell’uomo»: ciò corrisponde esattamente a quanto dicevamo circa la protezione data dal ribelle all’ordine naturale delle cose. La rivolta si attua ogni qualvolta la decadenza porta al disordine innaturale e al distacco dall’origine, alla sovversione patologica, alla necrosi dell’anima: né Prometeo né Lucifero sono ribelli sovversivi dell’ordine, ma entrambi hanno agito a protezione della tradizione e contro i veri sovvertitori.

La rivolta conduce alla rovina di un dominio innaturale e al trionfo di un altro dominio, naturale: e questo è il restauratore dell’etica. In questo senso, si può dire che il nichilismo, cioè il terreno sul quale agisce il moderno ribelle, non rappresenta la distruzione finale, ma la quota di violenza che occorre dispiegare per impedire la distruzione finale e per proteggere la vita: questo il senso eminente del “nichilismo attivo” di Nietzsche. Dopotutto, una brutalità buona e sana contro una malvagia e morbosa. Eppure, in un’epoca come la nostra, in cui sembra scatenarsi l’assenza di significato e l’assurdo di Camus sembra diventare davvero l’unica legge dei comportamenti, proprio adesso si ha la sensazione che il nulla contro cui occorre portarsi necessiti di un patrimonio di atavismi che hanno nella vita e nella natura la loro giustificazione. Lo stirneriano “nichilismo senza fondamenti” impregna sino al midollo tutte le ipocrisie di questa tarda post-modernità: ecco quindi che il ribellarsi non è più solo un gesto, e la ribellione non è più solo un evento, se pure appartenente al rango degli elementi primordiali; essi diventano piuttosto una necessità, una concatenazione, addirittura un’ontologia, un modo di essere, uno stile legato ad un certo tipo umano.

Camus, nel suo L’uomo in rivolta del 1951, ricordava che ogni ribellione, così come ogni valore che ne è alle spalle, ogni motivo scatenante, è relativo: ogni gruppo umano, ogni epoca ha la propria, né l’una può essere ridotta all’altra. Questa semplice osservazione liquida pertanto l’interpretazione marxista, e liquida anche ogni equivalente universalismo, liberale o monoteista che sia. Difatti, Camus adduceva il fatto che la rivolta sia null’altro che un esito: essa agisce nella condizione data di una grande disuguaglianza: «Nella società, lo spirito di rivolta è possibile solo nei gruppi in cui un’eguaglianza teorica celi grandi disuguaglianze di fatto». Così dicendo, Camus faceva della rivolta un fenomeno essenzialmente sociale. Noi ne facciamo invece un fenomeno naturale e ideologico, indipendente dalla condizione di ingiustizia sociale. La rivolta, secondo l’ottica tradizionale, non ha tanto a che vedere con la condizione sociale, ma piuttosto con lo status biologico, con qualcosa di simile a delle stigmate dell’anima e comunque con l’onore dell’individuo differenziato. In una condizione di estrema ingiustizia, le masse universali sono notoriamente inerti. Ciò che si attiva sono gli individui: i singoli esseri umani, oppure quei singoli collettivi che sono i popoli.

Come dimostrato dalle moderne rivoluzioni, l’iniziativa spetta a minoranze e individui. La stessa specie, quando in gioco c’è la sopravvivenza, si comporta come un individuo collettivo e attua la collaborazione interna, simmetrica alla lotta esterna. La lotta per la vita che si svolge tra tipi diversi di esistenze produce aggressività all’esterno e solidarietà all’interno, come scriveva il vecchio anatomista Edmond Perrier: «Le scienze naturali non ci predicano solo la lotta per la vita; ci mostrano che il successo in questa lotta, il progresso nella potenza, risultano dall’associazione; c’insegnano che in ogni prospera associazione gli elementi associati, pur conservando una libertà reciproca che è la condizione necessaria del progresso, restano uniti grazie ad un consenso costante, e confermano il posto sempre elevato che ha, tra le virtù sociali, la pratica della solidarietà». Qui non si tratta tanto di riconoscere un fondamento biologico al principio aristocratico della selezione sociale, qualcosa che sta alla base dei caratteri differenziati dell’individuo ribelle. C’è di più e di meglio.

Qui noi vogliamo piuttosto richiamare semplicemente il fatto che ogni volontà di vita minacciata diviene ribelle nei confronti di quanti – con la violenza ingiusta di una dittatura dogmatica – vedono nella repressione coscienziale e fisica la ricetta per ottenere lo spegnimento di ogni fierezza, cioè di ogni capacità biologica di concepire prima, e attuare poi, procedimenti di rivolta. L’uomo che si ribella non lo fa semplicemente perché affamato, oppure perché incatenato: si ribella perché ha in sé il motivo etico e la forza mentale-biologica della ribellione. In questo, Camus, abbandonando ogni residuo marxista, a ben guardarlo ci dava delle interessanti indicazioni. Nel panorama dissolvente del nichilismo contemporaneo, egli presentava l’attitudine alla rivolta come «l’unica virtù praticabile per strappare un senso all’assurdità della condizione umana». Fece insomma dell’uomo in rivolta un caso esistenziale. Ne fece una filosofia. Divenne, cioè, egli stesso, un prodotto del nichilismo “senza fondamenti” dichiarato da Stirner: l’uomo in rivolta di Camus non esce dal labirinto della modernità occidentale, e finisce col perirne. Eppure, tutto ciò dava ugualmente un senso all’esistere al di fuori del circuito del borghesismo universale, additando degli scopi.

L’assurdità della condizione umana non è tale in virtù di risposte non date ai “perché” della vita, ma lo è come conseguenza dell’annichilimento dei valori attuato dal progressismo cosmopolita. I “perché” della vita, e le correlate inquietudini circa la morte e il significato dello stare al mondo, furono brillantemente risolti dalla filosofia greca già duemilacinquecento anni fa, semplicemente azzerando il problema: non si interrogano gli dèi sulla disperazione umana, ma si celebra la vita vivendola con tutta la naturalezza di un essere vivente ricolmo di aristotelica energia. Le moderne angosce, le depressioni di massa, i nichilismi contemporanei non erano conosciuti dai Greci: essi vivevano semplicemente e serenamente tutta la vita, il loro “sì” esistenziale era sempre un essere in ordine con l’ordine del mondo. Nessun esistenzialismo corrosivo attenterà mai all’integrità morale e mentale dell’uomo, finché vi saranno déi da onorare. Gli antichi spostavano il problema, dunque, o meglio lo risolvevano delegandolo al mito. Nessuna disperazione esistenziale, nessun nichilismo è rintracciabile in millenni di letteratura antica. Il morbo corrosivo dell’assurdo inizia quando l’uomo razionalista straccia il velo del non-detto e pretende di sovvertire lui stesso la natura. Umanesimo e illuminismo, con tutto ciò che ne deriva, costituiscono in questo senso i fondamenti della creazione dell’assurdità del vivere, qualcosa che ha costretto un certo tipo d’uomo – il tipo primordiale, colui che sente gli atavismi nella propria carne – a venire a patti con la realtà, dando la stura alla ribellione. Chi innesca la rivolta è già un decaduto. Ma può diventare un annunciatore, un profeta, addirittura un moderno semidio.

Splendidamente, proprio Camus scriveva nel Mito di Sisifo (del 1942) che il gesto rivoluzionario che è proprio ad ogni conquistatore è «una rivendicazione dell’uomo contro il proprio destino», lasciando che la rivendicazione del povero «sia soltanto un pretesto»: il che, detto da un uomo della vecchia “sinistra” storica è ammissione non da poco… Ma poi c’era in  Camus la percezione nietzscheana che «ogni uomo si è sentito pari a un dio, in certi momenti», il demiurgo troppo umano che agisce non solo sugli eventi, ma proprio sulla natura umana, plasmandola e rivoltandola per ricondurla a se stessa, dopo duri lavacri di anti-modernità.

Questo “conquistatore”, come lo chiamava Camus, cioè il grande rivoltoso, è colui che vive nel “crogiolo umano”, gettandosi a capofitto «dove è più scottante l’anima delle rivoluzioni». Facciamo dunque bene attenzione al fatto che Camus ratifica l’identità di genere fra rivoluzione e antropologia: non la società, tantomeno il mondo economico, bensì l’antropologia, il bios, conducono al superamento dell’angoscia di Sisifo e allo sforzo sovvertitore del grande ribelle. Difatti: «I conquistatori sanno che l’azione è per se stessa inutile. Non ve ne sarebbe che una utile: quella che rifacesse l’uomo e la terra». Poiché nulla, come mettere mano all’anima attraverso la carne, promette di pervenire al senso finale ultimo e profondo dell’essere. Che non sta nelle “sovrastrutture”, ma nella struttura psico-fisica dell’uomo e dei popoli: «Il cammino della lotta», continuava Camus, «mi fa incontrare la carne: anche umiliata questa è la mia sola certezza e non posso vivere che di essa». Una tale conclusione di fede pagana nella vita può sorprendere nel teorico della nauseante insensatezza di un’esistenza priva di mito: ciò che Camus, nel suo linguaggio, definiva l’assurdo. Ma si trattava di un uomo che, a causa dei tempi in cui visse, fu costretto – come molti – a pensare bene di quelle stesse cose di cui doveva dire male… Era il medesimo intellettuale anti-sistema che confessava candidamente - sempre nell’Uomo in rivolta – la sua ostilità agli idoli dell’umanitarismo cosmopolita. Tanto che, rifacendosi al relativismo di Max Scheler, non esitava a ricordarne le parole profetiche, intese a dimostrare «che l’umanitarismo va di pari passo con l’odio per il prossimo. Si ama l’umanità in generale per non dover amare gli esseri in particolare». Ciò che Carl Schmitt sottoscriveva dicendo che quando si parla di umanità, l’inganno non può essere lontano…L’aridità del mondo moderno, il suo odio forsennato per il differenzialismo e i colori della vita costituiscono la grande sovversione contronatura al suo apice: il ritorno alla carne, di cui parlava Camus, e con lui tutti i grandi diagnostici della crisi del mondo moderno (pensiamo a Nietzsche o a Spengler), non è che una liberazione dell’uomo e dei suoi istinti sani di vita, ricolmi di gioia di vivere e di volontà trionfante. Poiché in fondo, a chiunque si interroghi sui destini della decadenza, apparirà chiaro, in tutta la sua luce, il simbolo della vera rivolta, che è sempre ritorno all’origine pura e incorrotta, foss’anche tale gesto un sogno, una fede cieca nel miracolo, una scommessa nell’impossibile, magari un mito o appunto un assurdo.