Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La filosofia e i suoi equivoci. Il pregiudizio dialettico

La filosofia e i suoi equivoci. Il pregiudizio dialettico

di Antonio Filippini - 16/03/2017

Fonte: Ereticamente

Duro a morire il pregiudizio dialettico. Certi filosofi idealisti sostengono che l’intelletto, nell’atto che pone o concepisce una determinazione, la isola da tutto il resto e la concepisce come un assoluto, però siccome assoluta non è, allora essa finirà per coincidere o addirittura divenire il suo contrario. Obiezione che si può muovere: se io sono cosciente di questo strano modo di fare del mio intelletto, posso apportare le opportune rettifiche, significa che in me è presente un qualcosa che è superiore all’intelletto stesso e per questo può percepire i suoi limiti e trarne le debite conseguenze, quindi il problema non esiste, è solo la conseguenza di un’impostazione sbagliata, tenuta in piedi appositamente per costringere alla soluzione voluta. Oppure si può dire che è un problema che esiste solamente nella mente bacata del dialettico, conseguenza della sua disarticolazione interna e dell’aver messo il mentale sul trono, il dialettico sta semplicemente “dando via del suo”, illudendosi che tutti siano vittima della sua stessa alienazione e che l’intero universo sia alienato alla sua stessa maniera!

Il bianco sarebbe la negazione del nero e viceversa, la femmina sarebbe la negazione del maschio e viceversa, la quantità sarebbe la negazione della qualità, l’andare a Roma sarebbe la negazione dell’andare a Firenze, ogni estremo sarebbe la negazione del suo opposto ecc., in una simile impostazione non c’è proprio niente di logico e di razionale, si tratta di impostazioni assurde e prive di senso che semplicemente denunciano la condizione patologica in cui si trovano coloro che le hanno concepite. Non è poi che sia difficile spazzare via questo assurdo modo di impostare le cose, basta sostituire i termini negativi usati dai dialettici: negazione, contraddizione, opposizione, con termini più possibilisti che come tali non implicano alcuna negazione, contraddizione, opposizione.

Per sapere che il bianco è bianco, si ha solo bisogno di compararlo con qualsiasi altro colore, di cui il nero è solo l’estremo opposto e questi due estremi racchiudono tutti i colori possibili. “Comparare” non significa negare, ma l’opposto, ammettere che oltre al bianco esiste anche il nero e qualsiasi altro colore. La pretesa del dialettico che il bianco per essere bianco deve negare il nero, è una pretesa assurda e insensata ma è così che ragiona il dialettico: l’affermazione del bianco implica la negazione del nero, si può farla solo negando il nero. Ogni estremo o determinazione, appunto perché è tale, negherebbe il suo opposto, mentre in realtà si limita solamente a non essere il suo opposto.

Basta sostituire la negazione con l’esclusione per rimediare a questa follia. Il bianco può apparire bianco solo escludendo da sé il nero e tutti gli altri colori; escludere non significa negare, poiché anche l’esclusione conferma implicitamente ciò che è escluso, e si tratta di un’esclusione momentanea e non irreversibile che riguarda solo la realtà formale e manifesta soggetta alle leggi dello spazio-tempo.

Il cane non può essere cane e elefante allo stesso tempo, se è cane non sarà elefante e l’elefante non è cane; il suo essere cane implica che non sia elefante, dove quel “non sia”, non è una negazione, ma solo un’esclusione e quindi un neutro; il suo essere cane esclude la possibilità di essere anche simultaneamente elefante, può manifestarsi come cane solo distinguendosi da tutti gli altri animali e quindi escludendo da sé le possibilità che essi rappresentano, ma però non nega proprio un bel nulla.

“L’andare a Roma sarebbe la negazione dell’andare a Firenze”, tipica impostazione dialettica alquanto idiota, mentre è più sensato dire che “il mio andare a Roma implica che non stia andando a Firenze”, ma se è per questo, non sto andando neanche a Milano, a Berlino, a Stoccolma, sulla Luna ecc. Nel dire: “il mio andare a Roma implica che non vado a Firenze”, io ho affermato una stessa verità (andare a Roma) usando un’affermazione e un’apparente negazione (che in realtà non è affatto tale), che confermano entrambe uno stesso atto, là dove il dialettico deforma tutto in senso maligno, introducendo una negazione e una velenosa contraddizione: “il mio andare a Roma è la negazione dell’andare a Firenze”, appiccicando all’andare a Roma una valenza negazionista che in origine non ha né poteva avere.

Ogni scelta fatta è come se esprimesse una direzione e quindi è un unilateralismo, implica la momentanea esclusione di altre direzioni o unilateralismi possibili, altrimenti non si potrebbe nemmeno parlare di scelta decisionale. In questo caso l’errore è consistito nell’applicare la negazione all’azione opposta, che era solo possibile ma non in atto; la negazione per il dialettico è un obbligo, perché l’alternativa sarebbe ammettere l’esistenza di un principio superiore alle due possibilità opposte e perciò padrone di entrambe, ammissione che fa inesorabilmente saltare l’impostazione dialettica. Esempio. Il dialettico dice: “il bianco è la negazione del nero”, mentre una più giusta impostazione sarebbe: “la possibilità di definire il bianco implica che il bianco non sia nero e che il principio iniziale che opera possa definire anche qualsiasi altro colore”.

L’impostazione dialettica basata sulla negazione, sulla contraddizione, sulla contrapposizione, è la fatale conseguenza logica della concezione immanentista che governa tale dialettica e del suo concetto morboso e malsano dell’unità. La scelta decisionale fra varie possibilità implica che il principio che sceglie si trovi al di là di queste (le trascende), implica che le padroneggi tutte, perciò la sua è vera scelta autonoma. Il tuo andare a Roma è una scelta decisionale libera solo se tu all’inizio potevi muoverti in qualsiasi altra direzione.

I dialettici immanentisti, negando l’esistenza di un principio superiore trascendente, sono costretti ad accoppiare a due a due e in senso dialettico le varie possibilità, allora dicono che l’andare a Roma è la negazione dell’andare a Firenze, ma lo dicono al solo scopo di deviare l’attenzione da quel principio che fa la scelta e che può farla perché è superiore ad ogni direzione, particolarità, determinazione, superiorità che implica anche che non sia fatto solo di questo. Il dialettico non si rende conto che la sua impostazione è dovuta al fatto che ha collocato il suo punto di vista all’interno della singola determinazione, là dove il metafisico ha il buonsenso e l’intelligenza di collocare il suo punto di vista in quel principio superiore che è di là di ogni determinazione e particolarità; è ovvio che per questo principio non può esserci alcuna contrapposizione dialettica né reattività antagonista. Questo collocare il proprio punto di vista nella singola determinazione, equivale a far parlare la determinazione stessa ed è già un rinnegamento di ciò che effettivamente si è, perché l’essere coscienti e consapevoli implica la presenza di un principio che è al di sopra di qualsiasi determinazione, direzionalità o unilateralismo.

C’è un’aula con dentro degli alunni, a un dato momento un alunno è espulso fuori dall’aula. Per il filosofo dialettico, l’alunno nell’aula è la negazione dell’alunno fuori dall’aula e viceversa, impostazione insensata, poiché un alunno è stato momentaneamente escluso dall’aula ma evidentemente continua ad esistere anche fuori dall’aula; gli è semplicemente negata la sua presenza nell’aula, mentre i dialettici applicano la solita inversione: negano l’alunno, invece di limitarsi a negare la presenza dell’alunno nell’aula!

Per gli immanentisti esiste soltanto l’aula e il suo contenuto, l’alunno fuori dall’aula è inesistente, poiché non è in contatto sensibile con gli altri alunni. Gli immanentisti danno come solo esistente un qualsiasi contenuto in contatto sensibile con un contenente, anche l’eventuale molteplicità del contenuto deve essere in rapporto sensibile con se stessa e con il contenente; questo contenente può essere l’aula, la mente, la coscienza, la realtà manifesta ecc. Gli alunni all’interno dell’aula sono tutti in contatto sensibile fra di loro e con l’aula, mentre l’alunno fuori dall’aula è inesistente, per gli immanentisti deve essere inesistente, pena la loro sopravvivenza.

Gli immanentisti non possono minimamente tollerare il “principio di esclusione” (l’alunno è stato escluso dall’aula), perché per loro escludere equivale a separare e la separatività è il loro grande male, poiché negherebbe l’unità. Perché questo? Perché gli immanentisti hanno identificato l’unità con il contatto sensibile e quindi con il contatto fisico (e per conseguenza con l’interdipendenza, l’uguaglianza e l’uniformità). L’alunno fuori dall’aula non è più in contatto sensibile con gli alunni dentro l’aula, ammettere la sua esistenza equivale a negare l’unità del tutto (quella immanentista, non quella vera!), allora per non negare questa unità, si nega l’alunno fuori dall’aula!

Questo bel giochino gli immanentisti lo fanno anche con ciò che è trascendente: non è che questo non esista, è che se si ammette la sua esistenza, allora bisogna negare l’unità immanentista, siccome costoro sono tenacemente attaccati a questa, allora bisogna negare quello! Negano la possibilità della trascendenza perché questa contraddirebbe il loro concetto morboso e malsano dell’unità, è per questo che non possono tollerare nemmeno il principio di esclusione, perché si tratta pur sempre di separatività, la quale nega quell’unità identificata con il rapporto sensibile e il contatto fisico.

La teoria degli universi paralleli.

Anche la teoria degli “universi paralleli” ha molto a che vedere con il concetto alquanto morboso e malsano dell’unità che è tipico degli immanentisti, con la conseguente negazione del “principio di esclusione”, e, da un altro punto di vista, appare quasi come un tentativo di superare il contraddittorio dialettico. Secondo la logica normale, quando ci si trova di fronte a un ventaglio di possibilità e fra queste se ne sceglie una, le altre cadono in ombra e sono abbandonate (pur rimanendo possibili); le altre, pur esistendo, è come se non esistessero (per noi). Per l’immanentista la scelta di una sola possibilità e l’esclusione di tutte le altre negherebbe l’unità del tutto, allora per non negare questa unità, le varie possibilità le fa accadere tutte, ma in altrettanti universi singoli! È evidente che si tratta di interpretazioni tipiche di un io individuale che non ha coscienza dei suoi limiti e si è messo al centro di tutto, piegando tutto verso di sé, adeguando il concetto di unità e di “tutto”, come di qualsiasi altra cosa, alla sua condizione di essere singolo e isolato.

Vista da un’altra angolazione, la teoria degli “universi paralleli” appare come un tentativo di eludere la contraddizione dialettica, dando un contentino al “principio di non contraddizione”. Non potendo negare direttamente il principio di non contraddizione perché è innegabile, allora cercano di eluderlo in modo alquanto truffaldino. Nel caso della scelta decisionale, il principio di non contraddizione dice che il mio scegliere quella possibilità implica l’esclusione di tutte le altre e specialmente di quella opposta che la contraddirebbe, allora queste possibilità sono fatte simultaneamente accadere in altrettanti universi paralleli, in modo da evitare contraddizioni e confermare allo stesso tempo il concetto morboso di un’unità e di un “tutto” basati sull’interdipendenza, sull’uguaglianza e sull’uniformità. L’errore consiste nel credere che è il singolo individuo che deve realizzare simultaneamente tutte le possibilità che gli si presentano, un’evidente assurdità, che conferma l’obbligo e la costrizione, per il singolo individuo, di realizzare il tutto materiale secondo la tipica concezione immanentista, e si tratta pure di una evidente parodia dell’onnipervadenza e dell’infinità dello Spirito, come di un tentativo di realizzare con il finito e il condizionato ciò che può essere realizzato solo con l’Infinito e l’Incondizionato.

In realtà non c’era affatto bisogno di teorizzare “universi paralleli”, questa è una tipica questione che, come dice il Guenon, deriva da “confusione di angoli visuali” e da “questioni che sono state mal poste e che non si aveva alcuna ragione di porsi”, tant’è vero che “basterebbe mettere a fuoco nel modo giusto l’enunciato per eliminare tali questioni”; ma, prosegue il Guenon, la filosofia (e anche lo scientismo) ha tutto l’interesse a conservare tali questioni mal poste perché essa è soprattutto di equivoci che vive.

Se noi prendiamo un incrocio stradale, per esempio, le possibilità insite in esso tenderanno a realizzarsi tutte (tenderanno solo, ma non potranno mai farlo completamente), ma non sono affatto realizzate dallo stesso essere, né possono realizzarsi nello stesso tempo, come invece pretendono i teorizzatori degli universi paralleli. Nel corso del tempo c’è chi prosegue dritto, chi svolta a sinistra, altri a destra, chi ha un incidente e va a finire all’ospedale ecc. Gli unici “universi paralleli” che possono esistere sono quelli che corrispondono alla “visione del mondo” dei singoli individui; si tratta in realtà di tanti modi diversi di percepire e interpretare un’unica realtà universale; qui è intervenuto il solito capovolgimento, si vuole creare tanti universi reali quanti sono gli individui, ruotanti però attorno a un’unica condizione esistenziale: la condizione individuale! Come si vede, c’è sempre qualcosa di “unico” che è conservato, allora tanto vale dare “a ciascuno il suo”, piuttosto che produrre scimmiottamenti parodistici. Gli “universi paralleli” sono appunto la solita imitazione parodistica di tipo quantitativo dei qualitativi Ordini molteplici di realtà, che naturalmente sono tutt’altra cosa.