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Il falò delle vanità

di Roberto Pecchioli - 09/04/2017

Il falò delle vanità

Fonte: Ereticamente

Un outlet annuncia un periodo di saldi straordinari; la notte precedente l’inizio della svendita la polizia deve intervenire per sedare le dispute tra gli aspiranti acquirenti, decisi ad assicurarsi le prime posizioni per scegliere i capi migliori. Microsoft o Apple mettono in vendita il nuovo modello di computer o di i-phone, il traffico si blocca in mille città. Alcuni anni fa, un centro commerciale viennese offrì un guardaroba completo, dalla scarpe al cappotto, ai visitatori che si fossero presentati senza vestiti il giorno dell’inaugurazione. Un successone, centinaia di uomini e donne di ogni età nudi come vermi affollarono l’ingresso del tempio del consumo. L’homo consumens è davvero una sottospecie post moderna dell’antiquato progenitore chiamato sapiens. La forma merce invade e pervade l’immaginario, lo colonizza, come dice Serge Latouche, sostituendo, anzi destituendo valori e principi, ergendosi a fine dell’esistenza.

Alla fine del XV secolo, nella Firenze ricca, gaudente, già impregnata, nel bene nel male, di Rinascimento, si viveva, per molti aspetti, una situazione simile. Alla corte del Magnifico si venerava il presente, la sensualità, il godimento immediato: “chi vuol essere lieto, sia, di doman non v’è certezza”, scriveva lo stesso Lorenzo de’ Medici. Luigi Pulci, l’autore del poema eroicomico Morgante, cortigiano della Signoria, scriveva questi mediocri versi per dilettare i gaudenti fiorentini: “non credo più al nero ch’a l’azzurro, ma nel cappone…e credo nella torta e nel tortello: l’uno è la madre e l’altro è il suo figliolo; e ’l vero paternostro è il fegatello.”

Materialismo quasi animale, relativismo etico da taverna senza la potenza espressiva del senese Cecco Angiolieri di quasi due secoli prima. “Tre cose solamente m’ènno in grado, le quali posso non ben men fornire, cioè la donna, la taverna e ’l dado: queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.” Il cruccio di Cecco era uno solo: la cronica mancanza di quattrini per soddisfare la sua idea di felicità. Secoli dopo, fu Jean Baptiste Say, l’economista francese del primo Ottocento, a teorizzare un’imbarazzante modello di letizia che Pulci e l’Angiolieri avrebbero approvato senz’altro, affermando senza mezzi termini che “la felicità di un individuo è proporzionale alla quantità di bisogni che può soddisfare, ovvero che la felicità è proporzionale alla quantità di prodotti di cui può disporre”.

Il primato dell’economia cominciava un lungo cammino, fino ad emanciparsi dalla sfera politica, ovvero dalla dimensione comunitaria non individuale. Louis Dumont, nel suo Homo aequalis, genesi e trionfo dell’ideologia economica, svolge una considerazione ancora più importante: la dimensione economica, che noi oggi associamo al trionfo del mercato e della forma-merce, doveva necessariamente liberarsi anche della morale. Missione compiuta, da alcuni decenni, con la partecipazione in ruoli diversi ma complementari delle due grandi “narrazioni” della modernità, liberalismo e marxismo.

Torniamo a Firenze, in quegli anni decisivi di fine Quattrocento. L’intensa vita artistica e culturale, unita alla prosperità economica, attirava in riva all’Arno intellettuali da ogni angolo d’Italia. Giunse in città anche un frate ferrarese, Gerolamo Savonarola, a cui Firenze dovette sembrare una novella Sodoma. Infiammò migliaia di persone con i suoi sermoni morali in Santa Maria del Fiore sino a diventare, per una breve stagione, il vero padrone della città, restituita ad un austero, ma soffocante codice morale. Una delle sue iniziative più famose furono i falò della vanità, roghi in piazza di oggetti che, secondo l’allucinato domenicano, erano fomite o simbolo di vizio o immoralità. Bruciavano abiti lussuosi e specchi, profumi, ornamenti di ogni tipo, ma anche manoscritti di canzoni licenziose, libri o dipinti che, nella sbrigativa visione dei Piagnoni- quello era il nome dei seguaci di Frate Gerolamo – rappresentavano il male da estirpare. Non sfuggirono al fuoco alcuni capolavori di Sandro Botticelli, il genio pittorico della Nascita di Venere e della Primavera, divenuto seguace appassionato del Savonarola.

Nessun rogo ha mai distrutto definitivamente le idee, tant’è che nel 1498 Frà Gerolamo venne impiccato, le sue ceneri disperse per evitare successivi traffici di reliquie, i testi delle sue prediche posti nell’ Indice dei Libri Proibiti istituito da papa Paolo IV nel 1558, in piena Controriforma. Il falò delle vanità non è un modello, evidentemente, tanto meno un auspicio, tuttavia rappresentò una reazione, un momento di dissenso aperto ed attivo rispetto ad un modello, quello di una società materialista e consumista ante litteram che, pochi anni dopo la stagione savonaroliana, avrebbe scandalizzato un altro monaco, l’agostiniano tedesco Martin Lutero in visita nella Roma del Rinascimento, dell’arte, ma anche della lussuria, non di rado invertita, dell’aperto traffico delle indulgenze, dei banchetti e del deserto spirituale.

Gli anni che viviamo narrano una storia simile a quella della Firenze medicea, senza lo straordinario fervore culturale, ma anche senza vere obiezioni o reazioni di popolo ad un mondo in cui tutto ha un prezzo poiché nulla ha più un valore. In questo senso, la vanità che dilaga senza argini rappresenta una chiave di lettura per tentare una spiegazione al successo del modello di vita corrente. Un esempio: da sempre è esistita la “moda”, donne e uomini hanno desiderato il superfluo, ornamenti, monili, abiti. Sotto ogni cielo hanno voluto affermare ricchezza, status sociale, identità personale o di gruppo con dei “segni” visibili. Mai, tuttavia, si era sviluppata una vera e propria ideologia, o fenomenologia della merce, del prodotto “alla moda”. Roland Barthes, che si è a lungo occupato del sistema-moda, fece una osservazione molto acuta: “rifiutando dogmaticamente la moda che l’ha preceduta, la nuova moda rifiuta il proprio passato “. Questo è il punto essenziale: l’ideologia economica ha rivendicato la sua estraneità alla politica ed ha proclamato l’indifferenza morale, travestita da autonomia, proprio per rifiutare il rapporto con il passato.

Riducendo tutto “ad unum”, ovvero all’idea di un tempo nuovo liberato dai vincoli delle appartenenze, dei doveri etici, delle credenze comunitarie e religiose, si doveva per forza azzerare un intero mondo: quello di prima, il mondo di ieri, per usare la suggestiva espressione di Stefan Zweig. Ma occorreva andare oltre, abolendo, o almeno destituendo di valore tutti gli “ieri”. La moda assolve perfettamente il compito, giacché un’economia il cui cardine è l’obsolescenza programmata, vive ed esalta un presente continuo, che si estende ed allarga sino all’alba di domani, quando il nuovo licenzierà il già vecchio, detronizzato dopo un brevissimo regno, rimuovendolo, dichiarandolo decaduto, passato di moda, derubricandolo a “ieri”, orma negativa del passato, programmaticamente “meno “di oggi.

Ovviamente, si è reso necessario gettare tra i rifiuti ogni visione della vita che distraesse dall’Unico trionfante. Alla fine, alla mente umana è stata lasciata un’unica modalità di giudizio, il materialismo feticista della merce. Ma se il solo strumento a disposizione fosse un martello, si tenderà a trattare tutto come se fosse un chiodo. Alla faccia delle conclamate opportunità della nostra epoca, della libertà immensa e dell’abbattimento di ogni frontiera. Già agli albori del Settecento, del resto, Mandeville credette di aver scoperto, discendendo all’origine delle società umane, che la soddisfazione dei bisogni materiali è la sola ragione per cui gli uomini vivono in società. Una ben povera riduzione dell’animale politico di Aristotele, ma un elemento centrale dell’ideologia moderna, in cui i rapporti tra uomini e cose sono primari e centrali, mentre quelli tra gli uomini- la comunità o la stessa società- divengono secondari.

Gli stessi rapporti politici si identificano da tempo come nuda prassi del potere, dal momento che il comune sentire dei moderni aborre la gerarchia. Messa da parte la gerarchia, il problema fondamentale si sposta nel rapporto tra il potere e l’ideologia, ovvero il sistema valoriale che la sostiene. Gli stessi inevitabili rapporti di subordinazione possono essere giustificati esclusivamente come il risultato meccanico, “naturale” all’interno dell’ideologia del mercato misura di tutte le cose, dell’interazione tra individui portatori di interessi definiti razionali. L’autorità si degrada in potere e questo in influenza. Il tutto entro il perimetro dell’individualismo, dunque dei principi di utilità e di piacere che hanno nel consumo il gesto centrale, ritualizzato, liturgico, e il momento sacramentale nell’atto pressoché mistico dell’acquisto, mediato dai messaggi pubblicitari.

Ridotti a chiodi, percossi dal martello del sistema merce, condividiamo il triste destino di utensile: essere confitto in un muro o diventare minuscola parte strumentale di un altro oggetto, più importante, con l’unica funzione di tenerlo insieme. E’ una definizione tra le tante del consumatore in uniforme da buon soldato Sveik, uno dei milioni destinati a far muovere l’ingranaggio impersonale del Potere. Sveik il Consumatore ha l’obbligo funzionale della vanità. Senza di essa, senza il gioco di specchi del desiderio mimetico (René Girard) che si fa acquisto, crolla il sistema. Dunque, se non un falò, almeno un principio d’incendio, una modesta pira delle vanità diventa un imperativo morale.

Un primo passo – ogni lunga marcia inizia con un piccolo passo – è restituire i significati originali ai concetti, per uscire dalle gabbie mentali in cui ci hanno rinchiusi con la nostra fattiva collaborazione. Un aiuto può venire da un’idea controversa e non sempre accettabile, quella della cosiddetta decrescita. I fondatori hanno commesso un imperdonabile errore concettuale e semantico definendo decrescita i loro costrutti ideali. Decrescere significa infatti diminuire, calare, scemare di volume, di numero, e questo suona sospetto, negativo, desta incomprensione, ostilità pregiudiziale in un’epoca il cui paradigma è andare oltre, sempre di più, senza una sosta, lontani da ripensamenti, spostare l’asticella sempre più su. Eppure, gli alberi più alti smettono di crescere, arrivati ad un certo sviluppo, come gli uomini e tutti gli altri viventi.

La decrescita, al netto del suo nome equivoco, è una rispettabile corrente di pensiero politico, economico e sociale favorevole alla riduzione controllata, selettiva e volontaria della produzione economica e dei consumi, con l’obiettivo di stabilire relazioni di equilibrio ecologico fra l’uomo e la natura, nonché di equità fra gli stessi esseri umani. Una prima capitale distinzione è quella proposta da Maurizio Pallante tra beni e merci. Un bene è qualcosa che serve davvero alla nostra vita, le è utile ed in qualche misura diventa parte di noi, le merci sono tutto ciò che può essere, semplicemente, compravenduto. Da un lato quindi lo spazio del mercato e del denaro, dall’altro quello dei rapporti che Illich definì “conviviali”, ossia estranei allo scambio economico, e vernacolari, cioè diretti, non mediati. Geminello Alvi ammonisce che “non vi è alcuna comunità di profitto, che ha il nome diverso di società”.

Il fatto è che una società priva di punti di riferimento, liquida, non è più neppure tale, ed è governata in termini di puro potere, rapporti di forza in cui prevalgono il sistema del denaro e della merce. Va poi contestata la stessa divisione, parcellizzazione del lavoro, grande asso nella manica della modernità, cantata da Adam Smith con accenti quasi lirici nell’apologo degli spilli. Il disprezzo del lavoro manuale si è diffuso da ben più di mezzo secolo, rendendo debole da un lato la condizione di chi li svolge sul mercato del lavoro, dall’altro ci ha reso dipendenti per quasi tutto. Non sappiamo più svolgere funzioni una volta comunissime, come riparare attrezzi, provvedere personalmente a svariati lavori artigianali. Una sconfitta epocale per saperi e mestieri di grande rilievo, un errore grave anche in termini economici. Una perdita di autonomia che ci rende dipendenti in tutto e che ha diminuito la nostra stessa intelligenza pratica, eliminando quel collegamento tra le mani ed il cervello che tanta parte ha avuto nella storia materiale della nostra specie.

Decolonizzare l’immaginario significa riscoprire la differenza profonda tra lavoro ed occupazione: l’uno descrive ogni attività utile o addirittura indispensabile (pensiamo alla famiglia o al concetto di “cura”), l’altra tiene conto esclusivamente di chi produce beni o servizi. Gli stessi occupati e disoccupati entrano nelle statistiche solo con riferimento alla dimensione economica delle loro attività. Anche l’autoproduzione va incoraggiata, eliminando dall’atto di acquistare quei significati simbolici che lo rendono un feticcio indiscutibile. Lo stesso PIL, prodotto interno lordo, è un indicatore parziale, come comprese per primo Robert Kennedy, che pagò con la vita, nel 1968, le sue convinzioni eterodosse. Un economista del livello di Richard Easterlin dimostrò, con indiscutibili argomenti statistici, che la ricchezza non ha rapporti con la felicità, anzi le nazioni più felici sono in genere poco sviluppate dal punto di vista economico.

Qui si aprirebbe un lungo capitolo sul significato di sviluppo, un altro dei totem contemporanei, come la crescita. Limitiamoci a constatare che anche povertà e ricchezza vanno ridefiniti, soprattutto sottratti all’esclusivo approccio economico-monetario. Diciamolo, Jean Baptiste Say citato all’inizio, pronunciò una grande sciocchezza, ponendo in relazione felicità e prodotti a disposizione. Se così non fosse, vano sarebbe il lavoro incessante della megamacchina pubblicitaria che diffonde il consumo e svaluta la vita sino a farla dipendere dalla merce. C’è stato bisogno di un’altra trasvalutazione: l’aggettivo “nuovo” ha assunto valenza invariabilmente positiva, incorporando un significato che non ha, quello di migliore. Il primo a capire il cambio di paradigma fu un poeta, Arthur Rimbaud, nella sua nota esortazione “Bisogna essere assolutamente moderni!”. Moderno altro non significa che “al modo odierno”, è, o meglio era, un termine avalutativo. Da Rimbaud in poi, moderno è il veicolo delle meraviglie, contenitore dello spostamento semantico che ha screditato per sempre ogni passato. Ciò che è nuovo è migliore in quanto è moderno, da cui si inferisce che oggi è meglio di ieri. Vecchio è quindi una specie di insulto, un giudizio negativo inappellabile, mentre tradizionale è una vera e propria contumelia scagliata dall’alto verso il basso!

Di qui un altro un altro abbaglio malizioso, che Plinio Correia de Oliveira avrebbe definito trasbordo ideologico inavvertito. Se “dopo” è programmaticamente meglio di “prima”, la svalutazione del passato si trasforma in disprezzo vero e proprio. Leonardo, in fondo, non scoprì Internet e i suoi disegni sul volo sono così primitivi. Dante credeva ingenuamente nel paradiso e nell’inferno, la stessa macchina a vapore con motore a scoppio sono ben povera cosa rispetto alle scoperte sul DNA che può ricordare ed elaborare informazioni meglio del silicio. Non siamo più, come credeva un altro reperto archeologico dei secoli bui, Bernardo di Chiaravalle, nani sulle spalle di giganti, ma colossi che si emancipano dalla dittatura di piccoli uomini ignoranti che affiorano da un passato tenebroso sconfitto dal bagliore del “modo odierno”, che domani sarà già vecchio, superato, destituito.

Consumare, poi, significa esaurire, tanto è vero che la nostra è una società afflitta dal problema dei rifiuti, i quali ci sommergono proprio in quanto tutto viene “consumato” in gran fretta. La cassetta degli attrezzi è svuotata di quanto serve per utilizzare e riutilizzare. Ai devoti della crescita illimitata andrebbe ricordato l’immenso lavoro di intelligenza, creatività, inventiva, artigianato, quindi l’importante ricaduta economica del cosiddetto riciclaggio, o riutilizzo. Un esempio importante fu il grande fervore intellettuale, seguito da scoperte importanti al tempo in cui l’Italia fu colpita dalle sanzioni delle potenze anglosassoni. Non potevamo comprare un gran numero di merci, ci industriammo per ottenerne di simili (i surrogati) con le armi della creatività e della cultura materiale. Quella che sta rapidamente scomparendo sull’altare del consumo e dei falò quotidiani di tutto ciò che è vecchio o passato di moda. Ma già, i surrogati non hanno il “marchio”, valgono poco, ed i bravi consumatori, che hanno regalato l’intelligenza al Grande Pifferaio, li schifano proprio.

Le famiglie delle generazioni formate sino a trenta- quarant’anni fa insegnavano la frugalità come una virtù, trasmettevano il senso della sobrietà dei comportamenti e dei consumi. Altra sconfitta devastante: i bambini delle scuole elementari già pretendono lo zainetto alla moda, da cambiare ad ogni stagione, ed il taglio di capelli come quel certo calciatore o cantante. Raffinatezza ed eleganza, unione di personalità, cultura e buona educazione cedono a ciò che è vistoso, volgare, bizzarro, capriccio, stravaganza, stucchevole trasgressione, obbligatoria come la timbratura del cartellino di presenza al lavoro. La nostra può essere indicata anche come una società dei rifiuti, degli scarti, delle scorie. Il consumo è operazione da compiere in fretta, pronti a ricominciare. Neppure si usa, si compra e si getta, soldatini obbedienti del gusto imposto, della moda di oggi che ridicolizza ed oscura quella di ieri. C’è un’immoralità profonda in tutto questo, e non solo per le intollerabili disparità tra chi ha troppo e gli altri.

Del resto, non è che “gli altri” siano migliori: pensiamo alla moda devastante dei tatuaggi. Milioni di persone, specie giovani, spesso a basso reddito o precari, gettano cifre considerevoli per “costruire”, disegnare il corpo. Generalmente con banalità, autentiche brutture e sciocchezze; da ultimo si è diffusa l’abitudine di farsi tatuare frasi tratte dalle sottoculture di massa e comunque degne al più dei cioccolatini Perugina. Stupisce che la società liquida, in cui tutto è provvisorio o revocabile permetta un gesto, quello del tatuaggio, che resta comunque definitivo. Evidentemente, più forte di tutto è il timore di non apparire “moderni”, al passo con i tempi.

E’ uno dei drammi esistenziali del tramonto del pensiero critico, parente stretto della persona ma nemico della massa e dell’individuo atomo. Vanità sempre nuove incombono, e neanche questa è una novità. Pensiamo a Mosé in lotta contro il vitello d’oro adorato dagli ebrei che egli stava guidando al ritorno in patria, simbolo di ogni materialismo, metafora di ogni vanità.

Oggi, dobbiamo dichiarare guerra all’illimitato, alla dismisura, al gigantesco, simboleggiato da “googol”, il numero uno seguito da cento zeri inventato per distinguere l’enorme dall’infinito matematico; insieme, una lotta senza quartiere all’incultura dello scarto e, specularmente, della novità ad ogni costo. Decrescita è forse un termine equivoco. Va depurata dal pauperismo moralista dei nuovi Piagnoni antitutto, dalla riduzione ad ambientalismo con il culto antiumano di Gaia come dal misoneismo nostalgico di un’Arcadia mai esistita. Tuttavia, resta il sentiero più sicuro per decolonizzare l’immaginario volto al consumo, recuperando una sobria umanità che sa fermare il passo, accontentarsi ed imporsi dei limiti, uscire dal culto di ciò che è vano (vanità…) per recuperare verità, autenticità, libera immaginazione, sogno.

Senza falò di improbabili Savonarola postmoderni, ascoltiamo la voce del poeta: “Strappa da te la vanità, avido di distruggere, avaro di carità”. Il celebre Canto LXXXI di Ezra Pound si chiude tuttavia rivendicando il santo orgoglio di chi ha vissuto e lottato: “Ma avere fatto in luogo di non avere fatto/questa non è vanità. Avere, con discrezione, bussato/ perché un Blunt aprisse/aver raccolto dal vento una tradizione viva/ o da un bell’occhio antico la fiamma inviolata/ Questa non è vanità. Qui l’errore è in ciò che non si è fatto, nella diffidenza che fece esitare.”