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Catastrofi annunciate

di Gianni Sartori - 24/04/2017

Fonte: Gianni Sartori

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    Alcuni misfatti ambientali di cui talvolta si era parlato (come quello provocato nel 2010 dalla BP nel Golfo del Messico) e la maggioranza di cui si è saputo poco o niente (v. in Nigeria) non sono stati altro che l’ultimo anello di una tragica catena di eco-crimini.

    Rileggere a distanza di un quarto di secolo “La guerra delle petroliere”, un articolo apparso su “Arancia Blu” nel maggio 1991, fa ancora un certo effetto. Soprattutto perché a distanza di tanti anni le analogie si sprecano.
    L’autore, Gianni Tamino, coglieva tutto l’assurdo di essersi “appena lasciati alle spalle una guerra ultra tecnologica per il petrolio, le cui conseguenze militari, politiche ed ambientali non sono ancora ben valutabili, ed ecco due disastri nei nostri mari a causa di quel petrolio”. L’Iraq era stato bombardato per garantire all’Occidente “un prezzo inferiore a quello che siamo disposti a pagare per l’acqua minerale”. Ma il basso costo del greggio “rendendo poco conveniente il ricorso alle fonti rinnovabili e non incentivando il risparmio energetico, è una delle cause di quanto è avvenuto a Livorno e Genova”. L’11 aprile 1991 la Haven si era incendiata al largo della città ligure durante un’operazione di “tank’s stripping” (travaso da un serbatoio all’altro) non autorizzata. Cinque morti e 500 chilometri quadrati di mare cosparsi di petrolio. Poco ore prima, a Livorno, il traghetto Moby Prince aveva speronato una petroliera dell’Agip. Centoquaranta morti e 25mila tonnellate di petrolio riversate in mare.
    Nel caso di Livorno, si ricordava che “nel porto il traffico, civile, militare e commerciale, è intensissimo con traghetti che passano a pochi metri da petroliere cariche ormeggiate”. Per la Haven, il collegamento tra guerre e disastri ambientali nasceva spontaneo. Rimasta gravemente danneggiata durante il conflitto Iran-Iraq, la petroliera navigava con personale sottopagato e non preparato professionalmente. Quando esplose, il greggio finì in mare nella più totale disorganizzazione.
    La lista delle ecocatastrofi provocate da idrocarburi è piuttosto lunga. Dalla Torrey Canyon in Cornovaglia (1967) all’Exxon Valdez (Alaska 1989), fino a Jessica, la cui onda nera colpì le isole Galapagos nel 2001. Era il 1979 quando lo scontro tra una nave e una petroliera provocò il versamento di 340 milioni di litri di greggio nel mare di Trinidad, mentre dall’Erika affondata nel dicembre 1999 al largo di Brest fuoriuscirono 260 milioni di litri. Qualche anno prima, nel 1978, nella stessa zona della costa bretone era naufragata l’Amoco Cadiz.
    La Prestige, affondata nel 2002 in Galizia, arrivò a contaminare, oltre alle coste spagnole e portoghesi, anche quelle della Francia. Senza dimenticare il greggio fuoriuscito dai pozzi e dalle raffinerie del Kuwait e dell’Iraq nel 1991. Si calcola che quasi duemila milioni di litri andarono a contaminare le acque del Golfo Persico. Il riversamento del greggio dalla sola raffineria di Mina al Ahmadi, nel Kuwait, avrebbe portato in mare l’equivalente di 11 milioni di barili di petrolio.
    Il noto "incidente" della Deepwater Horizon, affondata a causa di un’esplosione, non era stato il primo grave incidente avvenuto su una piattaforma. Nel giugno del 1979 era già capitato alla messicana Ixtoc. Milioni di litri di petrolio si riversarono nel golfo del Messico da un pozzo esploso. Un’altra piattaforma, la Alexander-Kielland, nel 1980 crollò nel mare del Nord uccidendo 123 persone. Sempre nel mare del Nord, una fuga di gas seguita da un’esplosione causò l’inabissamento della Piper-Alpha, utilizzata da Occidental Petroleum. I morti furono 167. Nel marzo del 2001 tre esplosioni provocarono una decina di morti sulla piattaforma P-36 della compagnia brasiliana Petrobras. Colando a picco riversò in mare un milione e mezzo di litri di greggio.

    Istruzioni per l’uso

    Cosa succede quando il petrolio finisce in mare? La mousse oleosa sulla superficie marina impedisce il ricambio d’ossigeno con l’esterno e il passaggio della luce solare, danneggiando flora e fauna, in particolare il plancton. Grumi di catrame, sostanze tossiche (fenoli, benzolo…) si fissano sul fondo avvelenando alghe e spugne.
    L’intera catena alimentare viene irreparabilmente compromessa.
    Spesso per ridurre i danni ambientali si è fatto uso di sostanze emulsionanti, più pericolose dello stesso petrolio. In teoria verrebbero utilizzate soltanto quando l’onda nera sta per colpire le coste, puntando soprattutto su barriere galleggianti e speciali battelli per recuperare il greggio. Talvolta le spiagge ricoperte da pellicole oleose vengono irrorate con batteri in grado di degradare gli idrocarburi. Questo procedimento rende però necessario l’utilizzo di speciali “nutrienti”, potenzialmente nocivi per gli ecosistemi. Sia in Galizia che in Bretagna (dove vennero utilizzati dei “solventi”) sarebbero deceduti, nel giro di qualche anno, alcuni dei volontari accorsi per ripulire le spiagge o salvare uccelli marini.
    Per proteggersi, la maggior parte di loro aveva utilizzato attrezzature di fortuna (guanti che si consumavano facilmente, mascherine di carta…). Solo in un secondo tempo, le istituzioni erano intervenute con operatori adeguatamente protetti.
    Anche la scelta di incendiare il petrolio fuoriuscito (come proposto a suo tempo per la Deepwater Horizon) non è esente da rischi. In questo modo l’inquinamento viene trasferito dall’acqua all’atmosfera e inoltre si produce bitume che va a depositarsi sui fondali da dove diventa praticamente impossibile rimuoverlo. Quanto all’ utilizzo degli aerei (in Messico sarebbe toccato ai C-130 dell’Air Force) per “bombardare” con dissolventi chimici la coltre di petrolio, rappresenta solo un’ulteriore conferma di quanto disperata possa diventare la situazione. Ma, non essendoci limite al peggio, in qualche circostanza si sarebbe presa in considerazione addirittura l’ipotesi di un’esplosione nucleare…(!?). Incredibile ma vero.
    Con ogni nuovo disastro ambientale provocato da una multinazionale torna di attualità la richiesta di una Corte penale internazionale per i crimini ambientali. “Chi distrugge l’ambiente – sosteneva a Copenaghen il procuratore argentino Antonio Gomez – aggredisce persone fisiche”. Quindi dovrebbe essere “perseguibile penalmente e andare in prigione: i responsabili delle grandi imprese possono pagare le multe, contrattare il prezzo della salute o della vita altrui, ma non sopportano la galera”.
    Gomez, esponente della Red latinoamericana de Publico ministerio ambiental, riteneva che la costituzione di una Corte penale europea sarebbe “un primo passo indispensabile” nella prospettiva dell’inclusione dei delitti ambientali fra quelli sanzionabili dalla Corte penale dell’Aja.

     

     

    Dal Golfo del Messico alle Lofoten

     

     

     

    Tra gli ecosistemi più fragili e maggiormente esposti ai rischi ambientali vi è sicuramente quello del Golfo del Messico, sottoposto ad una intensa attività petrolifera. La Deepwater Horizon (di proprietà della società svizzera Transocean e utilizzata dalla British Petroleum, BP) era solo una delle 3500 piattaforme che estraggono petrolio dai fondali a pochi chilometri dalla costa. Nel 2009 la BP, società anglo-olandese, si era rifiutata di applicare un rafforzamento delle norme di sicurezza come richiesto dal Mineral Management Service (MMS), l’ente incaricato di concedere i permessi di estrazione. Già in passato questo atteggiamento della compagnia aveva provocato gravi incidenti negli Stati Uniti: l’esplosione della raffineria di Texas City nel 2005 e l’inquinamento di Prudhoe Bay, in Alaska, nel 2006.
    La marea nera causata nel 2010 dalla Deepwater Horizon aveva danneggiato irreparabilmente le zone umide, le riserve naturali e i luoghi di nidificazione della Louisiana, del Mississipi, dell’Alabama e della Florida. Morte annunciata e poi confermata per i pellicani bruni delle Chandeleurs e per le gru delle dune di Sandhill Crane. Così come per gli alligatori e per gli ultimi lamantini.

    La coltre sottile che ricopriva l’acqua non sarebbe stata che “una minima parte di quella che risale in superficie – spiegava l’ambientalista Cynthia Sarthou – e non siamo in grado di stabilire quale quantità di petrolio rimanga in sospensione nell’oceano o si depositi per sempre sul fondo con conseguenze nocive per le specie marine”. L’impatto complessivo fu semplicemente catastrofico per la sopravvivenza non solo di delfini, tartarughe, capodogli e squali, ma anche per molluschi, crostacei e altri invertebrati marini.
    Sempre nel 2010, dopo il disastro della Deepwater Horizon, l’economista Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on Economic Trends (gruppo di pressione che combatte la minaccia del surriscaldamento) aveva dichiarato di aspettarsi dal governo americano scelte più coraggiose. Ma, dopo aver fatto marcia indietro sulle autorizzazioni per nuove trivellazioni, Obama non aveva saputo o voluto imporre (come chiedeva Rifkin) “la sospensione di ogni attività delle piattaforme offshore nel Golfo del Messico”.
    E con il tempo la situazione era tornata quella di prima. Per il futuro, vista la scarsa sensibilità ambientale dimostrata dal nuovo inquilino della Casa Bianca,potrà soltanto peggiorare
    Qualche anno fa anche il governo norvegese appariva intenzionato ad avviare un ulteriore sfruttamento dei giacimenti di petrolio e di gas al largo delle isole Lofoten e Vesteralen, luoghi essenziali per la riproduzione del merluzzo. Per ora i due schieramenti rimangono fieramente contrapposti: compagnie petrolifere contro pescatori ed ecologisti.
    Ma gli appetiti dei petrolieri sono puntati anche sui nostri fondali marini. Le associazioni ambientaliste hanno denunciato la Irminio srl, controllata dalla Mediterranean Resources llc con sede ad Austin (Texas) per le perforazioni alla ricerca di petrolio e gas di fronte alla costa ragusana. E si era parlato di altre perforazioni nell’area di Sicli. Quello di ritrovarsi tra qualche anno con decine di piattaforme e pozzi petroliferi lungo la costa potrebbe diventare per la Sicilia un rischio concreto.
    Qualche considerazione finale. Penso di non essere il solo ad aver pensato: “Se il disastro avvenuto nel 2010 nel Golfo del Messico fosse accaduto sulle coste africane, forse non ne avremmo nemmeno sentito parlare”. E infatti quasi nessuno (tranne il quotidiano Il manifesto, mi pare) aveva dato notizia di un analogo “incidente” accaduto poco tempo prima nel sempre più devastato delta del Niger. Un oleodotto della Exxon Mobil, multinazionale statunitense, avrebbe riversato nell’ambiente 1000 barili al giorno per una settimana, per un totale di 700mila barili. Marina Forti ricordava che, fino a quel momento, il petrolio riversato nel Golfo del Messico era ancora di “soltanto” 150mila barili (anche se poi le cose si erano ulteriormente aggravate). Ma soprattutto, mentre il valore delle azioni della Bp erano scese del 30%, quelle della Exxon Mobil non ne avevano risentito. Anche nella tragedia, due pesi e due misure. Episodi del genere, concludeva la giornalista, ormai sono “routine nei campi petroliferi della Nigeria e di molti paesi petroliferi africani”.
    Usque tandem?