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La musica come campo di lotta per l'identità

di Luca Leonello Rimbotti - 18/05/2017

La musica come campo di lotta per l'identità

Fonte: Italicum

La musica della prima metà del Novecento è stata l’ultima occasione per verificare se vi fossero, nella società europea, le forze e i talenti per rinforzare la tradizione di cultura musicale, abbinandola alle nuove proposte scaturite dalla modernità. Come accaduto per ogni altra branca culturale, anche nel caso della musica cosiddetta “seria”, oppure “classica”, si è avuto lo scontro fra il “tradizionalismo rivoluzionario” e la rivoluzione modernista pura e semplice, sostanzialmente sovversiva e infeconda. Sappiamo che, in generale, parlare di una frattura fra cultura ottocentesca e novecentesca non è possibile, dato che vi fu una sostanziale continuità e che molte delle proposte, anche radicali, portate avanti nel nuovo secolo erano già state avviate in quello vecchio. E sappiamo anche che la musica – come larga parte della letteratura e pure della filosofia – si presentò all’alba del secolo XX come un prodotto del pensiero e della temperie tipici del Romanticismo.

Basta ricordare che le scuole nazionali musicali sorte nel corso dell’Ottocento, e affermatesi pienamente nel secolo seguente, non furono che l’applicazione di concetti e stati d’animo creati da quel clima romantico che, riscoperte le radici popolari, dette vita al moderno nazionalismo europeo. Tanto che la musica – sin lì essenzialmente dominata da quanto si faceva in Italia, Francia e Germania – divenne un formidabile momento di affermazione di etno-nazionalismo culturale un po’ ovunque, nel cuore come nella periferia dell’Europa: e fu il primo momento storico moderno in cui la provincia, il regionalismo e persino il localismo, sulla scia della rinascita delle comunità nazionali, vennero sospinti al centro degli eventi creativi. Questo nazionalismo, sgretolando il cosmopolitismo del vecchio ordine basato su imperi dinastici mal costruiti e su principi universali allora già vecchi e trapassati, suscitò e riplasmò lo spirito, la tradizione, l’identità della nazione in tutta Europa. Come accadde con la letteratura e con la poesia, anche in musica furono riscoperti il folklore locale, la favolistica, la ricchissima tradizione orale, e in tal modo la cantata popolare, la danza villereccia o persino il tema della nenia infantile tradizionale entrarono a buon diritto entro gli schemi del poema sinfonico, della romanza lirica, oppure del più elitario contesto cameristico, sino ad allora troppo chiuso in un esclusivismo antistorico.

In questo contesto di nascita delle scuole nazionali musicali, ricordiamo l’affermazione della scuola scandinava (con eccellenze del rango di un Grieg o di un Sibelius), di quella spagnola (con un De Falla, un Albeniz, un Granados), di quella slava (Dvorak, Smetana) precisando che specialmente, all’interno di quest’ultima, di altissimo valore fu la grande stagione dei compositori russi di Ottocento e Novecento, da Glinka a Rimskij-Korsakov, da Mussorgskij a Prokoviev a Stravinski ed oltre. In tutti costoro vibra al massimo grado la corda potente dell’identificazione nella storia, nella condizione, nella facies del proprio popolo, di cui si viene descrivendo l’affabulazione mitica e l’epopea identitaria legata al suolo dei padri. Per dire: nel poema sinfonico Nelle steppe dell’Asia centrale di Borodin o nel Boris Godunov di Mussorgskij, che sono del secondo Ottocento, come nel Taras Bulba del ceco Janàcek oppure nell’Alexandr Nevskij di Prokoviev, che sono della prima metà del Novecento, batte la medesima necessità culturale: l’elaborazione celebrativa della terra nazionale e della storia del popolo e dei suoi eroi, in un quadro di descrittivismo che non è certo solo colore di suoni brillanti o evocativi, ma profonda ricerca anche filologica entro l’anima culturale della tradizione popolare così riscoperta. Non diverso è l’esempio del Peer Gynt del norvegese Edvard Grieg o di Tapiola del finlandese Jean Sibelius, tra molti altri, che vollero significare la moderna rivalutazione della saga nordica e l’incanto della favolistica popolare tradizionale rilanciata nella modernità. Essi costituiscono a loro volta altrettanti apici di ciò che abbiamo definito come “tradizionalismo rivoluzionario”: il passato che viene riscoperto con piena coscienza e per tale gettato nel mondo moderno, rinnovato e potenziato, come sfida alle degenerazioni, già allora in atto e ben riconoscibili come distruttive dei patrimoni comunitari atavici.

Noi vediamo pertanto che la nascita delle scuole nazionali musicali dal grembo del Romanticismo europeo presenta la precisa rivendicazione di un’identità rimasta a lungo sopita per il prevalere incontrastato, sino ad allora, dell’opera italiana e dell’opera-comique francese, e poi del potente sinfonismo lirico del Wort-Ton-Drama wagneriano. Ma rimasta sopita anche perché la via della riscoperta della nazione e dei suoi patrimoni di sapere era impedita dalla mentalità politica dell’epoca, ancora impigliata, come notavamo, nelle maglie costrittive dell’ambiguo concetto di impero sovranazionale, portatore di valori genericamente internazionalistici.

Riflettiamo, ad esempio, sul fatto che la crisi e poi il tracollo dello Stato multinazionale asburgico liberò energie culturali ai quattro punti cardinali, fungendo da volano per la ripresa identitaria di non meno di tre grandi entità etniche europee: il germanesimo, lo slavismo e l’italianità. Quello che accadde in Germania con il trionfo del wagnerismo, nel mondo slavo fu ben rappresentato proprio da un Prokoviev, che in pieno regime sovietico rappresentò genialmente le virtù del popolo russo in chiave propriamente nazionale ed etnicista: e pensiamo al film di Eizenstein su Alexandr Nevskij, la cui estetica espressionista e la cui musica di elevata capacità impressionista, appunto di mano dello stesso Prokoviev, produssero un eccellente lavoro di sintesi nazionale e popolare, secondo le vie di un eroismo di immagine e di suono che ha fatto davvero epoca. Lo storico della musica Renato Di Benedetto non ha mancato di sottolineare questi aspetti della creatività musicale europea della prima metà del Novecento, così profondamente legata al dato etnico nazionale, scrivendo nel caso slavo che «in Russia la cultura musicale fu alimentata dallo spirito di un radicale nazionalismo […] come ricerca e costruzione di un’identità culturale». Tanto forte fu questo imprinting, che il nazionalismo russo ebbe a riverberarsi, come abbiamo notato nel caso di Prokoviev, perfettamente inalterato, ed anzi rimodulato, sotto il regime comunista staliniano.

In Italia, tutto questo precipitato di valori di nazione e di popolo sotto veste musicale, può essere ben rappresentato da tutta una serie di esemplari eccellenze musicali. Ad esempio, ricordiamo la Cavalleria rusticana di Mascagni o i Pagliacci di Leoncavallo, che sono degli ultimi anni dell’Ottocento, ma che ebbero un picco di successo negli anni Venti del Novecento (celebre fu la rappresentazione simultanea delle due opere alla Scala di Milano, sotto la direzione dello stesso Mascagni, nel 1926) e che sono state giudicate opere tipiche del realismo compositivo. Questo, ideologicamente, si affiancava proprio a quella ricerca di tempi e convenzioni nazionali e popolari che fu il cuore del romanticismo musicale, ciò che, a proposito dell’opera di Mascagni, ha fatto parlare il musicologo Franco Abbiati, di un «capolavoro d’impeti melodrammatici schiettamente rivoluzionari, che nientemeno immettevano nel teatro una ventata d’istintivo, perfino brutale verismo plebeo»: ed ecco qui confermato il nostro concetto di “tradizione rivoluzionaria”.

Ma quando uno si ponga, per esempio, all’ascolto dei Pini di Roma di Ottorino Respighi (poema sinfonico composto nel 1924), avrà subito la possibilità non solo di udire, ma proprio di “vedere” la saga nazionale rappresentata attraverso la gamma timbrica di superbi richiami sonori. Il famoso capolavoro di Respighi è una traccia di fertile connubio fra retaggio romantico e Neue Sachlichkeit, la “nuova oggettività” di cui si impregnò la “rivoluzione conservatrice” weimariana, innestandosi in molti altri contesti. E proprio i Pini di Roma noi possiamo prendere a mo’ d’esempio. Qui si hanno tutti i registri di un moderno tradizionalismo sonoro: la narrazione musicale dei giochi infantili a Villa Borghese o della calma solenne di una muta catacomba, oppure, ancora, l’evocazione della severa spazialità del Gianicolo; tutto questo si conclude con la celebrazione della simbiosi fra maestosi ruderi antichi e silenzio eroico gravante sulla via Appia antica, dove, d’improvviso, si ha l’irrompere di quel celebre cadenzato che rappresenta il sopraggiungere di una legione romana in marcia, accompagnata da un tema trionfale crescente, fino all’apoteosi finale, che vuol rievocare l’ascesa dei legionari sul Campidoglio.

Respighi fu maestro in questo sforzo di abbinare tradizione e modernità, rappresentando al meglio in Italia la lezione orchestrale wagneriana e quella sinfonica, da sempre poco praticata dai musicisti italiani. E unendovi la grande capacità di risvegliare i patrimoni antichi: basta dire che Respighi fu gran compositore di “villanelle”, di “saltarelli”, di arie campestri e popolari, secondo lo stile di canti e danze rinascimentali e barocche, che egli sapientemente seppe far rivivere con il suo moderno linguaggio musicale. E la sua generazione, quella dei musicisti nati all’incirca negli anni Ottanta dell’Ottocento, è rimasta a indicare questa tendenza attraverso l’opera di tutto uno stuolo di talenti eccezionali: i “neoclassici” Alfredo Casella e Ferruccio Busoni, l’uno più popolaresco, propriamente nazionalpopolare, l’altro più “mozartiano” e formatosi sui canoni del Romanticismo germanico, ma entrambi sul crinale fra modernità e tradizionalismo; e poi il “wagneriano” Riccardo Zandonai e il mistico Ildebrando Pizzetti, liturgico affermatore del primato della voce umana su quella strumentale, e fino a Gian Francesco Malipiero, morto nel 1973, più degli altri “avanguardista” e buon seguace di Stravinski, ma anche – e questo è sintomatico di quanto andiamo dicendo – rivalutatore dello spirito popolare “trovadorico”, unendo così il gusto moderno per la dissonanza con quello, addirittura, della tradizione madrigalista cinque-seicentesca.

Tutti costoro, e compreso l’istriano Luigi Dallapiccola (che pure ebbe tarde fasi di moderata ispirazione alla musica dodecafonica), seppero sfuggire alla trappola modaiola delle effimere pseudo-avanguardie atonali, con le quali la musica contemporanea, dal secondo Novecento in poi, ha elaborato una scomposizione disarmonica di dogmatico radicalismo, precipitando nel casuale cozzo di suoni e rumori affastellati senza costrutto, secondo l’intellettualizzata utopia dodecafonica modernista. A fianco dell’arte pittorica informale, astratta e anti-figurativa, e ugualmente frutto ideologico dell’infernale progressismo universalista, la musica atonale dodecafonica rappresenta il climax del crollo occidentale in ambito creativo. 

Aggiungiamo che, ben lontani dal demonizzare a-priori i percorsi della musica contemporanea, ivi compresi i più radicali contatti con la musica cosiddetta “concreta” o elettronica, oppure certi esperimenti di fonologia computerizzata di ultima generazione, sentiamo però di dover tirare una linea precisa di demarcazione: di qua la musica, di là lo sperimentalismo e la contaminazione sonori; di qua la cultura, insomma, che è sempre memoria e continuità, e di là la ricerca: due vie, due momenti diversi da non confondere tra loro. La musicalità atonale e informale, buona come esperimento estetico o come sottofondo sonoro per situazioni scenotecniche, è un attrezzo inservibile quando alla musica si chieda di darci emozioni che coinvolgano intera la sfera cognitiva e intellettiva, per una più elevata nobilitazione dello spirito, sia individuale che comunitario.

Ricordiamo che il rumore industriale fatto musica – così come lo concepirono i futuristi cent’anni fa – non voleva essere un’estetica indipendente o peggio un’accademia ideologica, ma solo un potente richiamo concettuale al dominio dell’uomo sulla tecnica: il Manifesto della musica futurista (del 1913) prevedeva certo la provocazione di una “arte del rumore”, ma per ampliare la sensibilità sonora dei moderni e farli convivere con la società industriale e i suoi suoni meccanici, che non necessariamente dovevano essere aspri e disarmonici, potendo anche comprendere, come scrisse Luigi Russolo, «i rumori tenui e delicati, che danno sensazioni acustiche piacevoli». Una simile estetica rumoristica, tuttavia, se aveva motivo di esistere come geniale prototipo inventivo all’epoca del vapore e del biplano, diventa relitto di archeologia industriale nell’epoca dell’elettronica digitale. 

Comunque sia, gli estremismi atonali presenti nel lascito dei vari Luigi Nono o Luciano Berio, e compresa la folla dei loro imitatori, sono rimasti fissi alla componente disarmonica, che non oltrepassa, ma malamente replica, gli sperimentalismi elettronici di prog-rock internazionale quali i rispettabilissimi Tangerine Dream, Amon Düll o Klaus Schulze. Attraverso una pluridecennale applicazione che ha trasformato l’avanguardia in retroguardia, questi estremismi, ad uno sguardo libero e maturo, hanno piuttosto l’aria di “stereotipi di consumo”, come sono stati ben definite certe soluzioni elettro-acustiche alla Edgard Varèse. In molti di questi casi non c’è neppure quell’approccio alla ritmica elettronica che ha una sua dignità, magari come tappeto sonoro per scenari da tecno-scienza futuribile, come ad esempio talune musiche industrial, garage, ambient. Del resto, le campionature computerizzate e il sovra-utilizzo di strumentazioni pre-registrate, tipo mellotron prima e sintetizzatori digitali poi, sono da molto tempo terreno della ricerca identitaria e anti-mondialista: e basta pensare agli austriaci von Thronstahl. In questo senso, la pretesa di “classicità” della musica contemporanea atonale cosiddetta “seria” resta ciò che è, un tentativo fallito di costruire una nuova estetica del suono su basi sovversive della normale capacità di sopportazione uditiva: tali derive sono decisamente inadatte a farsi apprezzare come soluzioni estetiche credibili, in una vera civiltà culturale che sia padrona di se stessa.

Nella frantumazione generale dei significati fuoriusciti dall’epoca corrotta e morente che stiamo vivendo, occorre distinguere. L’annientamento della melodia nel terrore acustico del frastuono o del nonsenso dodecafonico, è un artificio alla fine approdato sulla sponda opposta rispetto ad un sano progresso delle arti. La sconfitta della melodia e dell’armonia non si è rivelata una gran conquista, ma il tradimento di un bagaglio identificato in passato col sublime. Secondo quello che il grande Richard Strauss proclamò poco prima di morire, nel 1949: «La melodia quale si manifesta nei capolavori dei nostri classici fino all’apice raggiunto da Richard Wagner è uno dei doni più eletti elargiti agli uomini da una divinità ignota». La musica europea, ancora alla metà del Novecento, si trovava sulla strada maestra dell’innovazione nel solco della tradizione. Nel nostro Novecento italiano, dal conosciutissimo Puccini al più esclusivo Dallapiccola, l’arte musicale è stata rinvigorita con ogni sorta di genere, con composizioni liriche, sinfoniche, cameristiche, corali etc., dallo spartito più popolano al più elitario e secondo vie sonore molteplici, dalla romanza popolare al frammento erudito. Per fare solo alcuni esempi qua e là, pagine di alto valore come l’Elegia eroica di Casella su una poesia di D’Annunzio (1916), il poema sinfonico Le feste romane di Respighi (1928), il balletto Marsia di Dallapiccola (1942), il poema sinfonico I quadri di Segantini di Zandonai (1931), o come l’opera incompiuta di Busoni Doktor Faust (1924), o innumerevoli altre, famose e meno famose, sono documenti che testimoniano del vigore di un retaggio culturale in quei decenni ancora ben vivo.

La seconda metà del Novecento, e ancor più questo estenuante primo ventennio del secolo XXI, al contrario, non hanno fatto che riproporci il tema della disintegrazione della cultura e, in essa e in particolare, della musica, abbandonata al suo ingrato destino di discarica acustica post-industriale. Ed è proprio da questo cattivo rapporto con la modernità che dipende l’improduttività estetica della società attuale, maldisposta a concepire lavori appena un po’ più che occasionali. La musica, più di ogni altra arte, è il luogo della chiamata a raccolta dei sensi e delle anime affini, in grado di suscitare per canali sottilissimi la potenza dell’entusiasmo condiviso e dell’immedesimazione in un sentimento profondo e non effimero. Forte della sua seduzione sui precordi irrazionali e sensitivi, essa agisce come un magnete di riconoscimento e quindi si presenterebbe, oggi come sempre, in qualità di supremo elemento unificante e tonificante. Se non fosse che un intellettualismo arrogante e artificiale e un dogmatismo progressista duro a morire impongono il conformismo di avanguardie sterili e prive di talento, sopravvissute a se stesse. E dire che proprio la modernità, se intesa come punto d’incontro per rinnovare e rinsaldare gli ideali, gli stili, i modi della tradizione, sia alta che popolare, e non come ottusa macchina della dissolvenza, proprio la modernità avrebbe potuto e potrebbe ancora oggi ingenerare un’estetica musicale per così dire “attualista”, viva nel veloce mutamento odierno, non schiava delle mode oligarchiche, ma attenta ai modelli dell’eterna tradizione popolare, secondo ciò che il maggior musicologo italiano del Novecento, Massimo Mila, definì come la «vera avanguardia, radicata nella Storia e perciò costruttiva».