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Iran, il perché della vittoria di Rouhani

di Mauro Indelicato - 22/05/2017

Iran, il perché della vittoria di Rouhani

Fonte: Gli occhi della guerra

Il testa a testa non c’è stato: la vittoria di Hassan Rouhani alla presidenziali di venerdì in Iran, è stata netta e ben superiore alle aspettative, dando ai conservatori rappresentati da Raisi una sonora sconfitta che segue di appena dodici mesi quella già rimediata nelle scorse elezioni legislative, dove le liste moderate e riformiste hanno conquistato la maggioranza in Parlamento.Il successo del presidente uscente, che conferma quindi la tradizione della rielezione per un secondo mandato per i capi di Stato in carica, è stato netto: le cifre ufficiali parlano di un 57% per Rouhani, a fronte di un 39% per Raisi. Eppure, alla vigilia, grazie anche alla convergenza di tutti i candidati conservatori proprio su Raisi, si ipotizzava una tornata elettorale molto equilibrata con un possibile ricorso al ballottaggio; in particolare, sembrava impossibile per Rouhani confermare da subito il 51% ottenuto nel 2013, costringendo il presidente ad un delicato secondo turno. Così non è stato ed adesso in molti, sia tra i moderati vincitori che tra gli sconfitti conservatori, si interrogano su un esito così imprevedibile.

La decisiva mobilitazione della borghesia iraniana

L’Iran è arrivato al voto in condizioni differenti rispetto ai mesi che hanno preceduto la vittoria elettorale riformista del 2016: lo scorso anno infatti il paese si aspettava molto dall’accordo sul nucleare che ha tolto le sanzioni, sia da un punto di vista economico che di sicurezza; non solo miliardi stranieri di investimenti sbloccati e possibilità per il paese di poter vendere il proprio petrolio e mostrare le potenzialità della propria economia, ma anche ritorno sulla scena internazionale non più come ‘paese canaglia’ ma come potenza regionale riconosciuta. In questi dodici mesi, le condizioni sono però cambiate: molte sanzioni, nonostante l’accordo, non sono state tolte e tanti investimenti rischiano ancora di rimanere nel cassetto e, per quanto concerne la riabilitazione del paese in ambito internazionale, l’elezione di Trump alla presidenza USA ha cambiato le carte in tavola, con Teheran tornata ad essere minacciata più volte e con il governo di Washington nuovamente allineato alle posizioni israeliane.

Inoltre, se da un lato il PIL indica una crescita superiore al 4% per il 2016, dall’altro però le classi meno abbienti temono riforme che possano ridurre il welfare state incrementato soprattutto durante gli anni di Ahmadinejad; per il presidente Rouhani le difficoltà di entrare a contatto con i ceti più in difficoltà sono emerse lo scorso 7 maggio, quando è stato contestato dai minatori del Golestan a cui era andato a fare visita. Lo scenario iraniano quindi, è radicalmente cambiato rispetto allo scorso anno, con i conservatori pronti ad avanzare lì dove le politiche interne ed estere del presidente uscente rischiavano di essere di fatto superate dagli eventi; è stato questo un motivo in più per ritenere difficile un’elezione al primo turno di Rouhani. Cosa è cambiato quindi negli ultimi giorni per far ritrovare al rieletto capo dell’esecutivo lo smalto giusto per incrementare i voti rispetto allo stesso 2013?

Gran parte dei media occidentali, fanno in queste ore riferimento all’onda verde del 2009 ed alla mobilitazione dei giovani che hanno preferito un moderato rispetto allo spauracchio di un candidato conservatore come Raisi; che c’è stata un’importante mobilitazione appare reale, lo confermano i dati di un’affluenza arrivata a lambire il 75% degli aventi diritto, pur tuttavia tirare in ballo l’insoddisfazione di molti giovani e  le manifestazioni di otto anni fa seguite alla rielezione di Ahmadinejad appare molto azzardato e frutto di una mera semplificazione. All’interno del paese, la lotta tra i due principali candidati non è stata vissuta come una disputa tra il bene ed il male, tra il ‘votabile’ ed il ‘non votabile’: a far la differenza non è stata la divisione del voto tra giovani e meno giovani, né quello tra città e campagna, bensì la mobilitazione di un ceto, quale quello della borghesia e dell’Iran più ricco, che ha tutto l’interesse affinché le politiche più moderate intraprese da Teheran vadano in porto e possano far riavvicinare il paese con l’occidente.

Facendo leva sul senso di insoddisfazione di molti giovani, che rappresentano circa il 60% dell’elettorato, e coalizzando attorno al presidente uscente diverse associazioni ed organizzazioni che non vedono di buon occhio le politiche conservatrici, la borghesia iraniana è riuscita a creare una mobilitazione importante che ha portato alle urne milioni di cittadini inizialmente scettici su entrambi i principali candidati e questo ha dato a Rouhani lo slancio decisivo per sforare il 50% ed essere rieletto per un secondo mandato. Se nel 2005 e nel 2009 ad un’economia vacillante ed alle minacce esterne sempre presenti gli iraniani hanno risposto scegliendo la via più dura dell’ex presidente Ahmadinejad, oggi nonostante le difficoltà interne e le rinnovate sfide imposte dai cambiamenti esterni, il paese ha legittimamente preferito una via più ‘morbida’ ,anche grazie ad un’influenza apparsa molto importante da parte della borghesia e della classe imprenditoriale tanto di Teheran quanto delle altre principali città.

Le conseguenze in politica estera della vittoria di Rouhani

Difficilmente comunque cambierà qualcosa nella politica estera dell’Iran; in primo luogo, Hassan Rouhani ha sì più volte dichiarato di perseguire la via del dialogo con l’occidente, ma non rientra nel suo programma un cambiamento radicale di Teheran sullo scacchiere mediorientale ed internazionale nel suo complesso: l’Iran continuerà a sostenere Assad in Siria e gli Houti nello Yemen, così come continuerà la sua contrapposizione con l’Arabia Saudita nei vari ambiti più delicati della regione. Non sembrerebbe in discussione nemmeno il rapporto con la Russia, con la quale Teheran collabora soprattutto in Siria nonostante alcuni differenze in termini di interessi; in generale quindi, il posizionamento assunto dall’Iran negli ultimi anni rimarrà identico seppur volto, in alcuni aspetti, a ricercare il dialogo con l’occidente così come avvenuto in occasione dell’accordo sul nucleare, cartina di tornasole per Rouhani ma anche prima insidia da risolvere per il suo nuovo mandato.

E’ bene inoltre specificare un altro aspetto importante relativo sia alle elezioni che all’architettura istituzionale iraniana: il presidente non gode, all’interno della Costituzione Islamica, di alcun potere assoluto od autoritario. Rouhani, dalla sua poltrona, potrà sì guidare l’esecutivo ma al tempo stesso dovrà rendere conto tanto ad un 40% che ha votato Raisi, a livello politico, quanto ad altre importanti cariche a livello istituzionale: dalla Guida Suprema al Consiglio dei Guardiani, dai leader militari a quelli dei Pasdaran, la politica estera iraniana non può né subire cambiamenti repentini e né essere decisa esclusivamente dal presidente, bensì deve passare dal vaglio dei rami istituzionali sopra descritti.

Tiene l’architettura della Rivoluzione del 1979

 

Un altro dato importante, accennato in precedenza, riguarda quello dell’affluenza: più di due terzi degli iraniani sono andati alle urne, un fatto che inizia ad essere raro anche nelle democrazie europee ed è molto più che raro nel contesto mediorientale. Questo dimostra come, a prescindere dai candidati per i quali si vota, la Repubblica Islamica ‘tiene il passo’ tra i suoi cittadini che, in fin dei conti, manifestano di non essere disaffezionati né allo strumento del voto né all’impalcatura istituzionale fuoriuscita dalla Rivoluzione Khomeinista del 1979. Il dato non è da sottovalutare anche in chiave estera: il finanziamento, a partire dalla fine degli anni 2000, di diversicanali in lingua Farsi con sede negli USA, ha come obiettivo quello di rendere impopolari molti dettami della Repubblica Islamica specie tra i giovani sfruttando anche l’insofferenza dei tanti ancora in cerca di lavoro. Una propaganda che è riuscita solo in parte: è vero che tra chi è nato dopo il 1979 in tanti chiedono incisive riforme ma, al tempo stesso, tali richieste non sembrano riguardare l’architettura istituzionale sorta dopo la presa del potere di Khomeini; risultano invece al momento minoritari se non marginali, almeno in patria, coloro che sostengono l’abbattimento in toto della Repubblica Islamica.