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Il capitalismo come patologia storica. Parte prima: nichilismo

di Andrea Zhok - 09/06/2017

Il capitalismo come patologia storica. Parte prima: nichilismo

Fonte: Antropologia Filosofica

Del termine “capitalismo” si è fatto uso ed abuso nell’ultimo secolo e mezzo, fino allo sfinimento, finendo per logorarne inevitabilmente il significato. Logorarsi nell’uso è il destino di tutte le parole di successo, e forse dovremmo rassegnarci ad inventarne una diversa per evitare di ricadere in connotazioni stantie, o di essere assimilati alla retorica anticapitalista, spesso rabbiosa quanto confusa. Tuttavia il termine “capitalismo” è di per sé un termine mirato e preciso, e preferiamo perciò conservarlo in vita limitandoci a circoscrivere il più precisamente possibile cosa intendiamo con il termine.

Pur esistendone diverse definizioni, per “capitalismo” qui intendiamo, coerentemente con il conio marxista, un sistema di produzione economica e riproduzione sociale che si fonda sulla centralità del capitale (denaro, valore di scambio) e non del bene (merce, valore d’uso). Anche se il termine capitale è stato esteso a posteriori a qualunque cosa potesse essere storicamente tesaurizzata per uso futuro (dal frumento ai monili), di fatto il senso di capitale moderno è strettamente legato alle funzioni del denaro. Solo il capitale in senso monetario porta alla luce le caratteristiche del capitalismo in senso pieno, e ritrovare ‘capitalismi’ in epoche passate, dove c’era tutt’al più accumulazione della terra, è improprio.

Ci sono in verità ‘episodi’ di meccanismi capitalisti discernibili in Mesopotamia, nella Grecia classica, nel tardo Impero romano, agli albori del Rinascimento italiano, e in qualche altra occasione, ma fino alla cosiddetta Rivoluzione Industriale inglese non è esistito alcun meccanismo sociale ed economico stabile dove il capitale fosse centrale rispetto a variabili umane come il potere politico e religioso, la natura delle merci e dei bisogni.

Cosa comporta qui la “centralità del capitale (denaro)”? Implica che il meccanismo degli scambi è organizzato in modo tale che esso può funzionare, e continuare a funzionare efficientemente, anche in assenza di alcun accordo politico, valoriale o morale tra gli agenti economici. Mentre le precondizioni per un’azione collettiva nella storia precapitalistica erano determinate dalla capacità di alcuni agenti di creare consenso attorno ad un progetto (consenso, beninteso, ottenibile con la persuasione ma anche con la minaccia, il ricatto, l’eliminazione fisica del dissenso, ecc.), nel sistema capitalistico azioni collettive possono costantemente prendere forma senza essere progettate da nessuno, in modo del tutto preterintenzionale. Questo aspetto fondamentale del capitalismo è ciò che faceva dire ad Adam Smith che “non è dalla benevolenza del macellaio, del fornaio o del birraio che ci aspettiamo il nostro pranzo”, ma dal fatto che essi, perseguendo i propri interessi, finiscono per essere di giovamento anche a noi nel perseguimento dei nostri. Come osservava acutamente F. von Hayek un paio di secoli più tardi, la potenza del sistema economico e sociale capitalista (o ‘di libero mercato’) sta proprio nel non richiedere alcun accordo per funzionare: è, in un certo senso, un sistema strutturalmente apolitico, che ha bisogno della politica solo per la creazione ed il mantenimento delle ‘regole di mera condotta’, le regole formali che garantiscono al sistema di funzionare (tutela della proprietà e dei contratti, funzionamento giustizia amministrativa, ecc.) In un sistema capitalista, idealmente, ciascuno può esercitare i propri talenti vendendoli sul mercato e ottenendo, attraverso un capillare sistema di scambi (divisione del lavoro), beni che mai sarebbe stato in grado di procurarsi o produrre da solo.

Prima di esercitare la critica è importante comprendere appieno la potenza del modello capitalistico (il ‘libero mercato’). Esso favorisce un’elevatissima divisione del lavoro che si genera spontaneamente, per iniziativa periferica degli agenti economici, e che dunque non ha bisogno (di solito) di essere coordinata e progettata dall’alto. L’elevata facilità degli scambi consente l’elevata divisione del lavoro, che permette a sua volta elevata specializzazione e con ciò anche elevata produttività.

Di tale potenza storica Marx (diversamente da molti suoi epigoni) era perfettamente consapevole ed egli infatti invitava nelle prime pagine del Manifesto a riconoscere le straordinarie conquiste operate dal nuovo sistema produttivo, il sistema capitalistico o sistema della borghesia (dove per ‘borghesia’ al tempo di Marx si intendeva il 5% circa della popolazione, che possedeva i mezzi di produzione). Qualunque superamento (l’hegeliana Aufhebung) del capitalismo, per Marx doveva essere in grado di giovarsi della potenza produttiva e organizzativa portata alla luce dal capitalismo medesimo, modificandone radicalmente le forme, non certo di cancellare con un colpo di spugna il capitalismo, per ritornare ad un’idealizzata condizione precapitalistica. È essenziale comprendere (ed è un punto in cui paradossalmente Marx e Hayek concordano) che il capitalismo non può essere letto come una sorta di incidente della storia: si tratta di una realizzazione storica emersa spontaneamente, e che si è imposta progressivamente grazie ad alcuni suoi specifici pregi. Il capitalismo è una tradizione specificamente occidentale, cresciuta sulla scorta della maturazione di tecniche specifiche, dalla scrittura alfabetica, alla numerazione posizionale, alla stampa, e che ha favorito l’imporsi delle forme di governo democratiche.

In quanto tradizione – sul senso da attribuire alle tradizioni si veda sopra http://antropologiafilosofica.altervista.org/senso-etico-della-naturalita-le-ragioni-della-conservazione/ – il capitalismo è emerso per prove ed errori, consolidandosi nel tempo, e non si è certo imposto per caso. Questo implica che obiezioni e soluzioni semplicistiche, che pure hanno avuto corso nella storia, come l’abolizione tout court di ogni forma di proprietà, o del denaro, siano sicuramente fuori bersaglio.

Ma una volta detto che il capitalismo non è un accidente della storia e che ha innumerevoli pregi, questo non significa che esso debba essere santificato. Come per tutte le tradizioni, si possono (e in questo caso credo si debbano) creare le condizioni per esigere un loro superamento.

L’obiezione che spesso viene imputata come problema principale del capitalismo, ovvero di essere economicamente ingiusto, se presa isolatamente è un’obiezione debole. Dopo tutto si può facilmente ribattere che di ingiustizie la storia è piena, e che almeno quelle distributive odierne tendono a beneficare a lungo termine molte più persone che in passato. Da sempre uno degli argomenti preferiti dei filo-capitalisti è che oggi un cittadino medio può godere di beni che qualche secolo fa nessun re poteva avere a disposizione, dai mezzi di trasporto privati, ai telefoni, alla TV, all’aria condizionata, ecc. (cfr. von Mises). Ed in effetti una critica del capitalismo che verta sul semplice elemento dell’ingiustizia economica, criticandolo dal punto di vista dei ‘perdenti’ del sistema, pur essendo certo legittima, è in definitiva una critica di scarso respiro. Dal puro e semplice punto di vista della disponibilità generale dei beni, anche per i meno fortunati, il capitalismo rappresenta, rispetto alle realtà storiche precedenti, comunque un passo avanti per la maggior parte delle persone. Che ci siano le condizioni perché le cose vadano meglio di come vanno, e che tale possibilità sia colpevolmente negata, è indubbio, ma non si tratta certo un’obiezione radicale.

I veri problemi legati a quell’epocale trasformazione del mondo rappresentata dal sistema economico e sociale dello scambio monetario competitivo ( = capitalismo) sono meno direttamente ovvi e molto più insidiosi.

Il primo problema, su cui vogliamo soffermarci oggi, non è un problema che riguarda il rapporto del capitalismo con i beni, ma con i valori. Come abbiamo detto, la forza del capitalismo sta nella sua capacità di funzionare anche senza doversi appellare ad alcuna cooperazione, anche in assenza di alcun accordo intersoggettivo su fini o valori. Il problema è che questa virtù ha anche un suo lato oscuro.

Il sistema di relazioni economiche e sociali generato in un ‘sistema di mercato’ può disinteressarsi di un coordinamento intersoggettivo su intenzioni o valori in quanto ad essere valorizzato è primariamente il medio di scambio ( = denaro), e non le realtà scambiate. In altri termini: non è importante per il sistema, né per i più potenti tra gli agenti economici, quali siano le qualità intrinseche di ciò che viene prodotto, ma solo il fatto che esso ‘abbia un mercato’, cioè che possa essere venduto, ovvero che possa essere trasformato in denaro eccedente rispetto a quello impegnato per produrlo.

Il sig. A può aver trovato con immani fatiche e sacrifici personali la cura per il cancro, ma se essa non trova uno sbocco di mercato, limitandone l’accesso ad esempio con brevetti, e poi vendendola in modo selettivo, essa potrà anche avere enorme valore umano e sociale, ma non avrà nessun valore monetario.

Il sig. B può produrre Snuff Movies, sfruttando indecorosamente persone malate o bisognose, ma se trova il modo di limitarne l’accesso a chi paga, e di diffonderli dietro compenso, può arricchirsi in questo modo.

Una volta trasformato un atto o prodotto in denaro, la sua origine viene cancellata: il denaro, quale che ne sia la provenienza, non porta seco nulla del percorso che lo ha generato, dunque quanto maggior valore pubblico viene riconosciuto al denaro, tanto più i modi di procurarselo sono sottratti ad ogni valutazione critica, essendo letteralmente privi di valore (monetario). Diviene così normale giustificare attività che in altri tempi o luoghi sarebbero state ritenute ridicole, parassitarie, indegne, immorali, dannose dicendo (e dicendosi) che “dopo tutto è un modo come un altro per guadagnarsi da vivere”. E questo, beninteso, non coinvolge soltanto le attività marginali di chi fatica a sbarcare il lunario, ma anche attività altamente remunerative: fare qualcosa per denaro è divenuto giustificazione sufficiente ed esauriente, cui chiedere qualcosa di più suona velleitario o moralistico.

Che un venditore menta o illuda per vendere qualunque cosa vendere debba, è divenuto moralmente accettabile. L’esistenza stessa di quella forma di menzogna, inganno o illusionismo sistematico che è l’onnipresente pubblicità nel mondo contemporaneo è un’evidenza macroscopica in questo senso. Tutti noi viviamo questa sorta di patetica doppia verità: diciamo a noi stessi, ai nostri figli, al prossimo, che ‘mentire è male’, ma poi accettiamo e digeriamo quotidianamente serie sterminate di comunicazioni pubblicitarie che sappiamo essere appunto forme sistematiche di distorsione del vero, di persuasione illusionistica, create strumentalmente per ottenere il fine precostituito della vendita di un prodotto.

Qualunque sia il bene o servizio originariamente venduto, una volta trasformato in denaro (capitale), esso diviene un’entità in grado di dare accesso a ogni altro bene e servizio nel mondo: il denaro, in quanto medio universale di scambio, è divenuto condizione di possibilità universale per l’ottenimento di ogni fine, e perciò esso può diventare anche potere, e dunque riconoscimento pubblico.

In sostanza, nel processo storico in cui il capitale monetario ha acquisito centralità, avvengono simultaneamente due processi di trasformazione assiologica fondamentale:

1) in direzione del passato, il modo di raggiungere il successo monetario viene separato radicalmente dal successo stesso (l’attività viene ‘valorizzata’ solo dal suo esito, dalla vendita, dalla metamorfosi in denaro);

2) in direzione del futuro, il capitale stesso (denaro) diviene una sorta di ‘supervalore’, proponendosi idealmente come mezzo di accesso ad ogni bene, di realizzazione prospettica d’ogni fine materialmente disponibile.

La sovrapposizione di queste due tendenze ha come esito un mutamento strutturale nel nostro modo di relazionarci alla realtà. Come noto sin dal tempo delle prime analisi marxiane, il meccanismo del capitale colloca sistematicamente come saliente il mezzo al posto del fine, e tende perciò a trasformare in fine il mezzo (il denaro diviene il Fine che non ha bisogno di altre giustificazioni). La finalità che viene promossa dal meccanismo autoriproduttivo del capitale dunque non concerne l’appagamento di alcun bisogno o desiderio: si tratta dell’incremento del capitale stesso, della riproduzione accresciuta del denaro.

Qui non si tratta di ‘antropomorfizzare’ il capitale facendone un’entità dotata di volontà autonoma. Il punto è che il funzionamento del capitalismo spinge ciascun agente economico (e volenti o nolenti lo siamo tutti) ad assumere l’accrescimento del capitale come modus operandi e forma mentis.

Come noi tutti siamo costretti ad imparare precocemente, qualcosa si muove nel mondo delle relazioni materiali se il capitale può con ciò essere accresciuto (come interesse, come profitto, ecc.), e questo rappresenta la normalità, la spontaneità che definisce le nostre aspettative. Tutti gli altri casi appartengono al regime d’eccezione proprio della moralità, della nobiltà di coscienza, della buona volontà, cui concediamo volentieri l’onore delle armi, ma che viene sempre più relegato nella sfera degli enti voluttuari e dispensabili. L’ordinarietà sta nell’aspettativa che, se ci sono interessi sufficienti in ballo, ad esempio contro un intervento di tutela ambientale, quali che siano i proclami in senso contrario, esso rimarrà lettera morta. L’ordinarietà sta nell’aspettativa che se i traffici di eroina, o di organi, o di bambini, o di uteri in affitto o multiproprietà, ecc. rendono, essi troveranno sempre un modo di realizzarsi e perpetuarsi.

Le relazioni sociali in regime di capitalismo educano ad una forma mentis informata dal perenne rinvio dell’appagamento, dall’accrescimento indefinito dei mezzi senza comprensione dei fini, del potere di andare ovunque senza definire alcuna direzione, di fare tutto senza dedicarsi a nulla. Diversamente da quanto riteneva Heidegger, non è la Tecnica in generale che livella, non è la Tecnica che omologa, non è la Tecnica che cancella le differenze ed oblia il fondamento, non è la Tecnica (o la “Tecnoscienza”) che realizza il nichilismo. Tecniche, e strumenti, e la ricerca di tecniche e strumenti più efficienti, sono tutte cose che esistono da quando vi è l’uomo. Ma sono le tecniche, gli strumenti, la scienza in quanto ingranaggi di quella tecnica sociale che è il meccanismo di riproduzione del capitale a spingere ad obliare ogni fondamento. È un sistema di riproduzione della mera potenzialità fine a sé stessa a generare ciò che abbiamo imparato a chiamare nichilismo.

L’annullamento sistematico di ogni valore tende a procedere spontaneamente dall’aver introiettato il processo di accumulazione del capitale, dall’aver fatto (dall’essere costretti a fare) della sua logica una seconda natura che guida le nostre iniziative pubbliche e private. L’accumulazione di capitale è un’ipertrofizzazione del potere astratto e vuoto di fare; non di quel poter fare concreto che ritroviamo nelle abilità, negli abiti, nelle capacità acquisite, o nelle virtù; no, qui si tratta di mera capacità di fare astrattamente qualunque cosa, una capacità che rimane estrinseca, esterna a noi, incarnata in un oggetto trasferibile (denaro), cioè in qualcosa che può essere acquisito accidentalmente, persino casualmente (la “lotteria”, l’“eredità”, ecc.); tale capacità vuota, potenzialmente onnipotente, indifferente alle sue origini, ed esterna alle nostre facoltà (a ciò che siamo) sostituisce nelle nostre vite la comprensione di cosa sia opportuno, sensato o giusto fare.

Si lamenta spesso come la nostra epoca sia, e soprattutto sia vissuta dalla nuove generazioni, come un’epoca dell’immagine, intendendo con ciò della superficie, dell’apparenza, della forma segnica senza contenuto. Ma sarebbe stupefacente se fosse altrimenti, giacché questo è precisamente ciò che il funzionamento ordinario del valore in quanto capitale alimenta. L’immagine, la superficie, è semplicemente la datità presente che, a prescindere dal suo passato, dal suo retroterra e dal suo potenziale a lungo termine diviene in grado di guadagnarsi potere reale (denaro, potere d’acquisto universale). A comandare il processo di valorizzazione è solo il tempo corrente dell’acquisto, della metamorfosi in denaro, la buona parvenza nel momento della transazione: non cosa lo ha preceduto e non le sue implicazioni reali.

Una nota cautelativa finale. Naturalmente il meccanismo della virtualizzazione monetaria (capitalismo) che abbiamo iniziato a descrivere non è un potere sociale unico, né incontrastato. L’essenza nichilistica del capitalismo rappresenta perciò una tendenza di sviluppo, una pressione costante e crescente, ma fortunatamente non l’unica istanza capace di influire in profondità nelle società contemporanee, neppure in quelle maggiormente dominate dalla logica del capitale. Si tratta di una tradizione potente e capillare, capace come tutte le tradizioni di autoalimentarsi inerzialmente, ma una volta che se ne scorga il funzionamento è anche qualcosa che può essere opposto, corretto, trasformato.