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Il bifrontismo spirituale di Arnold Zweig

di Francesco Lamendola - 13/06/2017

Il bifrontismo spirituale di Arnold Zweig

Fonte: Il Corriere delle regioni

C’è stato un tempo, specialmente fra le due guerre mondiali, e poi, ancora per qualche anno, anche dopo la Seconda, in cui il nome di Arnold Zweig era assai ben conosciuto fra i lettori di tutto il mondo come uno dei più rappresentativi della letteratura tedesca. In particolare, il suo La questione del sergente Grischa, del 1927, era considerato, accanto a Nelle tempeste d’acciaio di Ernst Jünger, del 1920, e a Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Erich Maria Remarque, del 1929, come il più notevole romanzo di uno scrittore tedesco sulla drammatica esperienza della Prima guerra mondiale, vista dalla prospettiva dei soldati impegnati in prima linea. Poi, un poco alla volta, la sua fama si è attenuata, e a un certo punto, quasi insensibilmente, si è volatilizzata, tanto che sono ben pochi, ai nostri giorni, tranne gli esperti di germanistica, a ricordarlo. I suoi romanzi, già molto popolari anche nel nostro Paese, non sono più stati ristampati; la critica ha smesso di occuparsene; le pagine culturali dei giornali li hanno dimenticati.

Si è trattato di un comportamento ingiusto, così come eccessive erano state le lodi tributate a suo tempo a questo scrittore ebreo–tedesco, il cui punto di vista è sempre innanzitutto quello di un ebreo, e di un ebreo sionista, e, da ultimo, di un marxista che, tornato dall’esilio in Palestina, si gode il piacere di essere acclamato, a Berlino Est, come uno dei più grandi artisti del XX secolo, e di vincere il Premio Lenin nel 1958. Logico che, oggi come oggi, la sua memoria riesca sgradita a molti tedeschi, e non solo agli ex cittadini della Repubblica Democratica, i quali, pur non avendo particolari nostalgie per il nazismo, del comunismo ne hanno avuto abbastanza. Quanto all’altra componente essenziale della sua scrittura, la psicanalisi, e più precisamente la psicanalisi freudiana (Arnold Zweig fu amico e corrispondente di Freud), essa è un altro elemento che spiega la sua immensa popolarità di sessant’anni or sono, e il suo rapido declino successivo: non si possono cavalcare certe mode culturali senza poi doverne pagare il prezzo. Il tempo, alla fine, è galantuomo, più di quel che non si creda: peraltro, la cantonata filo-freudiana (così come quella marxista) sono stati davvero in tanti a prenderla, anche scrittori e poeti di valore, tanto che si fa prima a dire quelli che ne sono rimasti immuni: valga per tutti il caso del nostro Umberto Saba, che da essa, sostanzialmente, ricavò il concetto della “poesia onesta”, espressione che tradisce immediatamente il limite più pesante di codesti intellettuali progressisti: la pretesa moralistica di essere sempre un gradino più in su dei comuni mortali, di aver sempre da fare la lezione a tutti quanti.

Che Arnold Zweig stia pagando anche lo scotto di una ideologia fluttuante, ondivaga, e assai più ambigua di quel che non sia apparso ai suoi tempi, è, probabilmente, un’altra di quelle verità che appaiono sui tempi lunghi, quando le passioni e i facili entusiasmi si decantano, e subentra una consapevolezza più oggettiva verso una certa stagione culturale. Egli si era mosso fra il clima dell’Espressionismo e quello della Nuova Oggettività: e già questo rivela abbondantemente la sua scarsa coerenza interna. L’Espressionismo nasce da una volontà di lasciare che a prevalere, nella rappresentazione artistica, siano gli aspetti dell’emotività su quelli della razionalità; la Nuova Oggettività, viceversa, è una reazione all’Espressionismo, e si sforza di ripristinare, un po’ come aveva fatto il Naturalismo, un principio di verità oggettiva, al di sopra del tumulto dei tempi e dei luoghi, nonché dei punti di vista personali e soggettivi. È pur vero che entrambi i movimenti, specie nell’area di lingua tedesca, nascono da una radice comune, ossia dalla frustrazione e dall’angoscia per un crollo di valori e di certezze cui l’individuo reagisce con una denuncia che vorrebbe essere implacabile e inconfutabile, ma, che, in pratica, risulta di scarsa efficacia, perché limitata nella sua forza dirompente da una intima persuasione dell’inutilità di ogni rivolta, da un pessimismo cupo e angosciato che scivola continuamente verso l’abisso del nichilismo. In comune, alla fine, hanno il loro atteggiamento di fondo, tra disperato e velleitario,  e in definitiva rassegnato, perché privo di qualunque illusione circa una possibile redenzione dell’uomo.

Ma c’è un altro aspetto che mina, dall’interno, la saldezza dell’opera di questo autore, che ha dedicato alla Prima guerra mondiale il ciclo letterario forse più corposo di qualunque altro scrittore europeo: La grande guerra degli uomini bianchi, formato da ben sei romanzi che formano, in pratica, un solo racconto: intendiamo parlare di quello che, con riferimento alla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, è stato chiamato dai critici “bifrontismo spirituale”. Così come Tasso voleva esaltare i valori della Controriforma, e invece ha celebrato quelli del Rinascimento, primo fra tutti l’edonismo; e così come, se vogliamo, Parini, ne Il giorno, voleva criticare e riformare la nobiltà, ma ha lasciato trasparire una sensuale simpatia nei suoi confronti, anche quando mostrava di disapprovarla severamente: ebbene, allo stesso modo vi è un bifrontismo in Arnold Zweig, là dove egli descrive il ciclo autodistruttivo del militarismo prussiano, che ha portato la Germania alla catastrofe del 1919 (e, poi, del 1945). Perché la parabola che Zweig descrive, nella persona dei suoi protagonisti, che riflettono la sua stessa esperienza autobiografica (era stato volontario entusiasta nel 1914, e assai vicino alle posizioni dei pangermanisti), vorrebbe essere quella dal nazionalismo tedesco a una concezione umanitaria, antimilitarista e pacifista, caratterizzata da un convinto socialismo internazionalista; e invece, a leggerla in filigrana, la sua opera lascia trasparire assai meno evoluzione a sinistra e più nostalgia a destra - se così vogliamo esprimerci, semplificando, ma con vantaggio della chiarezza - di quanto l’autore non s’immagini.

Insomma: l’animo di Arnold Zweig è assai più diviso di quanto la sua ragione non sia disposta ad ammettere. Così come Tasso vorrebbe persuaderci (e persuadersi) che l’eros è una pericolosa tentazione e conduce al peccato, ma poi ce lo mostra con tale sensualità, da restarne affascinato lui per primo, e così come Parini vorrebbe additare alla nostra indignazione le vuote e oziose giornate del “giovin signore”, ma poi ci mostra quei palazzi, quegli oggetti di lusso, quel modo di vivere sfarzoso, con toni così partecipi, da tradire una segreta attrazione, allo stesso modo Zweig vorrebbe darci a intendere che, da giovane idealista e “patriota”, si è poi ricreduto, davanti agli orrori della guerra, e ha scoperto di che lacrime grondi e di che sangue la politica di potenza voluta dagli industriali e dagli junker, fino ad abbracciare un credo umanitario che è la totale sconfessione delle convinzioni precedenti, ma quel che ci mostra, in effetti, è un po’ diverso, e cioè il persistere, in lui, di una sorta d’ipnosi, o, quanto meno, di fascino inconfessabile, che quelle divise, quei progetti grandiosi, quelle carte geografiche spiegate sui tavoli degli alti comandi militari, seguitano a esercitare su di lui, nonostante tutto e a dispetto di tutto.

Si prenda, a titolo di esempio, il quarto volume del ciclo La grande guerra degli uomini bianchi, intitolato Einsetzung eines Königs (Istituzione di un re, del 1937; ma tradotto in italiano, nel 1947, per Mondadori, da Enrico Brulich, chi sa perché, con il titolo La pelle dell’orso, che può andar bene solo per i primi capitoli dell’opera, dai quali è pescata l’espressione). Questo romanzo si presta alla nostra riflessione sul bifrontismo più della già ricordata Questione del sergente Grischa, e anche del quasi altrettanto conosciuto Giovane donna del 1914, pubblicato nel 1931 (gli altri tre volumi del ciclo sono: Istruzione a Verdun, del 1935; Cessate il fuoco, del 1954; e Il tempo è maturo, del 1957; Zweig muore nel 1968, più che ottantenne, essendo nato a Glogau, nella Bassa Slesia, poi ceduta alla Polonia, nel 1887). In questo romanzo prolisso, fluviale, noioso, ripetitivo, con pochissimi squarci di vera poesia, ma, in compenso, con una irritante, continua, implacabile intonazione declamatoria e moraleggiante - difetti che, ne La questione del sergente Grischa, erano stati controbilanciati e felicemente risolti da una maggiore stringatezza della narrazione e da una più intima e sincera adesione al dramma dei personaggi – il lettore intravede quel che l’autore, forse, non ha visto con altrettanta chiarezza. E cioè che il mondo degli ufficiali di Stato Maggiore, col monocolo, gli stivaloni di cuoio e i cappotti con il bavero di pelliccia, così duri, così cinici, così spietati nel decidere il destino di singoli poveri Cristi, come, appunto il sergente Grischa - un russo fuggito dal campo di prigionia e condannato a morte per spionaggio da un tribunale militare, che pure lo sa innocente – così come quello di popoli interi – in questo caso, il popolo lituano, la cui patria deve diventare, nei piani spregiudicati del Comando germanico, uno stato satellite da assegnare a un principe bavarese, cattolico come cattolici saranno i suoi nuovi sudditi – è un mondo che, in realtà, lo affascina profondamente, e verso il quale prova un’invincibile attrazione.

Questa segreta attrazione – ma neanche tanto segreta, a ben guardare – trapela di continuo, come in questo dialogo  (i dialoghi, infatti, sono così frequenti e prolissi, che le 500 pagine del romanzo sono costituite in gran parte da essi) fra il giovane soldato Bertin, partito volontario nel 1914 e pieno di speranze, poi disilluso dal cinismo con cui le truppe vengono mandate al macello e dalla cieca rapacità dei pangermanisti, che sacrificano ogni possibilità di pace per le loro incontenibili mire annessionistiche, e il tenente Winfried, rampollo di una nobile famiglia e che gode di alte protezioni, destinato a una brillante carriera nello Stato maggiore, il quale nutre, anch’egli, qualche dubbio sulla bontà della causa nazionalista e più di qualche scrupolo legalitario (si era battuto invano, nel primo volume, per la salvezza del sergente Grischa), ma finisce per essere conquistato dalla logica delle conquiste imperialistiche. Che è, poi, non quella del vecchio spirito militare fridericiano, aristocratico e legalitario, ma quella del giovane e aggressivo blocco finanziario e industriale tedesco (op. cit., pp. 78-80):

 

Winfried dopo aver squadrato il suo amico ne rimase contento. Era sì divenuto più pallido, Bertin, ma portava la testa abbastanza eretta ed era più sicuro di sé forse anche soltanto perché aveva un’uniforme che gli stava meglio, calzoni lunghi con i sottopiedi e un accenno di piega. O forse si rifletteva su di lui lo splendore di quella stanza? Quella tappezzeria di damasco rosso, le cornici d’oro attorno ai due zar, che l’artista aveva dipinto ad olio come due bei regnanti rosei c on cappelli piumati, stivali lucenti e decorazioni sul panno blu? “Pare si trovi bene in questa simpatica città” disse Winfried. “Sì”, rispose Berrtin “mi trovo bene. Mi riesce di pensare, di riordinare le vicende degli ultimi anni e ciò solleva lo spirito. Ma forse è anche merito del vitto. L’Ober-Ost dà un buon rancio ai suoi soldato, ogni giorno l’ufficiale di servizio assaggia il cibo e i cuochi non possono fare i loro imbrogli”. Winfried espresse la sua soddisfazione in proposito. L’altro lo guardò negli occhi e disse: “Qualcuno dovrà ben avere qualche beneficio del fatto che tutto il paese adagio adagio sta morendo di fame”. Winfried si mise a ridere: “Finalmente ti riconosco, vecchio pessimista”.

“Be’”, disse Bertin, “guardi un po’ intorno, le facce della gente che sta alla finestra o passeggia al bel sole di febbraio, altro che pessimismo! È una cosa terribile e senza speranza. E se ora si inizia la grande offensiva in occidente e se anche arriviamo fino a Parigi, che gusto ci sarà a vivere in simile modo? Sotto l’incubo dei pangermanisti e dei loro comandi? E siccome ci sono delle prospettive ben fondate… “ interruppe il suo discorso quasi senza speranza. Winfried lo guardò con un senso di pietà, come si guarda uno squilibrato: “Lei è pazzo, Bertin; come si fa a pensare una simile cosa e per giunta esprimerla ad alta voce? Vuole che la porti davanti al tribunale di guerra?”. Bertin si avvicinò alla scrivania, e Winfried notò che la sua esacerbazione era al colmo, “è forse andato alla guerra, capitano Winfried, per conquistare il Belgio e il bacino minerario di Briey oppure per invadere pacificamente l’Ucraina? Sapeva che si potesse torcere il principio di autodecisione dei popoli fino a farlo corrispondere nel modo più preciso a certe idee, né più né meno di una vite alla sua madrevite? Le sta a cuore un posticino in questo territorio o altrove e continua a tale scopo la guerra fino al dissanguamento… degli altri, si capisce?”. Winfried arrossì per colpa di certe intenzione di certe visioni che, non molto tempo prima, un vecchio signore, a letto [cioè lo zio, pezzo grosso dell’Alto comando] gli aveva prospettato. Bertin attribuì quel rossore al senso di vergogna da cui era preso quel giovane ufficiale per il mondo [?] nel quale i nazionalisti potevano liberamente sfogarsi facendo strazio di un’intera collettività umana, della cultura tedesca, delle conquiste incessanti di un grande popolo, della sua tecnica, del suo valore, della sua muta rassegnazione e della sua buona fede. E continuò: “Lei sa cin quali convinzioni io venni dal fronte, e quali idee noi speravamo di realizzare a Mervinsk e quali tentativi abbiamo fatto. Ci pareva che il caso del generale Paprotkin fosse una eccezione e che la causa giusta avrebbe finito per trionfare: la nostra causa. Ma se lei fosse da quattro settimane all’Ober-Ost, signor capitano, lei saprebbe che forse la causa giusta vincerà, per quanto appaia poco probabile, ma che essa non si trova più dalla nostra parte, ma altrove, oppure al di là, oppure in Cielo, oppure sulla stella Sirio che, proprio seimila anni fa, ha iniziato il calendario egiziano”.

Winfried si sentiva a disagio. Quell’uomo era quasi suo amico,dell’incontro improvviso con lui si era segretamente rallegrato come di un magnifico scherzo del caso. E ora faceva dei ragionamento che non era permesso ascoltare.

 

Oltre alla segreta attrazione verso il mondo di quei generali imperiosi e di quei pangermanisti che sognavano di creare una Grande Germania abbracciante quasi tutta la Mitteleuropa, e anche qualcosa di più, traspare qui un altro aspetto della narrativa di Zweig: la sua intima divisione fra l’essere ebreo e l’essere cittadino tedesco. Si percepisce che, all’epoca in cui fu scritto questo libro, nel 1937, la vittoria era andata definitivamente all’identità ebraica; però bisogna tener conto che nel 1933 egli aveva dovuto lasciare la Germania, in seguito alle leggi razziali, e che si era stabilito in Palestina, per poi tornare solo a guerra finita, scegliendo di stabilirsi nella pare orientale, sotto il regime comunista, quasi come uno cui la storia ha dato ragione. Fu un grosso equivoco, perché aver scelto di sostenere il regime filo-staliniano non era un gran passo avanti rispetto all’essere fuggito dal regime nazista, nemmeno in senso propriamente ebraico, vista la scarsa simpatia mostrata da Stalin verso gli ebrei, e specialmente i sionisti. Ma quando Arnold Zweig fece le esperienze di cui riferisce nel libro Istituzione di un re (che è ambientato sul fronte orientale, nel corso del 1918, cioè all’epoca della pace di Brest-Litowsk fra gli Imperi Centrali e la Russia bolscevica), forse la bilancia era ancora in equilibrio, e Zweig, come migliaia di altri suoi correligionari, si stava chiedendo se facesse bene a sentirsi interamente un cittadino tedesco, assumendosene tutti gli oneri oltre agli onori, o se dovesse cominciare a pensare, come affermava Theodor Herzl, che l’unica vera soluzione della questione ebraica consisteva nel creare uno Stato ebreo in Palestina, la terra degli antichi padri.

Forse, durante la Prima guerra mondiale, le due identità lottavano ancora nell’animo di Arnold Zweig, e, se non fosse subentrata tutta una serie di delusioni (nel 1916 il Comando tedesco aveva avviato una indagine per schedare gli ebrei arruolati nell’esercito, onde verificare se fossero vere le dicerie sulla loro propensione ad imboscarsi, cioè a comportarsi da mediocri cittadini, cosa che parve ingiusta e offensiva a molti di essi), gli ebrei tedeschi avrebbero potuto accelerare il processo d’integrazione proprio grazie alla partecipazione alla guerra; e, forse, tutto il ciclo de La grande guerra degli uomini bianchi andrebbe riletto secondo questa particolare chiave di lettura: lo sforzo di un ebreo tedesco per chiarire a se stesso le ragioni pro e contro il fatto di seguitare a vivere in Germania, da leale cittadino tedesco, invece di emigrare altrove, per esempio in Palestina, per contribuire alla nascita di una patria ebrea per tutti i suoi correligionari. E poiché abbiamo visto come Winfried/Zweig fosse potentemente attratto, almeno all’inizio della Prima guerra mondiale, dalla fierezza di sentirsi tedesco, la questione che si deve porre sul tappeto, e che attende ancora una risposta soddisfacente, è se sia stato il nazismo a spingere fuori dalla società tedesca degli ebrei desiderosi d’integrarsi, come Arnold Zweig, o se sia stata l’incapacità d’integrarsi veramente e intimamente, da parte di tanti ebrei, specie intellettuali, come appunto  Arnold Zweig, a spingere il nazismo verso la fatale decisione della loro persecuzione e dell’espulsione, infine dello sterminio. Possiamo anche porre la questione in questi termini: un regime che si fosse mostrato più mite e benevolo verso le minoranze interne, specialmente quella ebraica, diciamo una prosecuzione ed una evoluzione della Repubblica di Weimar oltre la soglia critica della Grande Depressione del 1929, sarebbe stato capace di tenere legati a sé, trasformandoli in strumenti di forza intellettuale, uomini che avevano dei sentimenti simili a quelli di Arnold Zweig, invece di spingerli ad emigrare? E, in tal caso, il destino della Germania sarebbe stato diverso, rispetto al catastrofico redde rationerm del 1945? Oppure ciò sarebbe stato materialmente e spiritualmente impossibile, e niente e nessuno avrebbero potuto far sì che gli ebrei tedeschi, e specialmente le teste pensanti, abbandonassero le seduzioni del sionismo per concentrarsi invece sul legame di fedeltà con la Germania?

Quasi certamente non lo sapremo mai. E questa è stata una delle più grandi tragedie, non solo per la Germania moderna, ma per tutta l’Europa. La mancata integrazione degli ebrei, il grande fascino esercitato su di essi dal programma sionista, e la cupa diffidenza di molti tedeschi verso quella secolare minoranza, hanno avuto delle conseguenze gravissime, sia per l’Europa che per il mondo...