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Il denaro ha in mano il destino del pianeta

di Sandro Buganini - 17/06/2017

Il denaro ha in mano il destino del pianeta

Fonte: Italicum

 

Salvare il mondo o preservare il capitale?

 

Se è vero che il potenziale industriale ed economico del mondo capitalistico è in aumento e non in declino, è altrettanto vero che maggiore è la sua aggressività, peggiori sono le condizioni di vita in cui si viene a trovare l’umanità di fronte ai cataclismi naturali e storici. A differenza della piena periodica dei fiumi, la piena dell’accumulazione del capitalismo non ha come prospettiva la “decrescenza” di una curva discendente delle letture all’idrometro, ma la catastrofe dell’inondazione.

 

A Marrakesh a novembre, nel G7 di Taormina a maggio e nel summit Ue-Cina a Bruxelles, per finire poi con il G7 di Bologna di giugno, in tutte queste occasioni il mondo ha assistito distrattamente alle kermesse dei potenti del pianeta sul cambiamento climatico. In quegli ambiti la questione in discussione è stata essenzialmente la possibilità di conciliare sviluppo capitalistico e salvaguardia dell’ambiente, che, nell’ipocrita formula dello “sviluppo sostenibile”, riassume l’intento di moderare la devastazione, pur continuando a ampliare il vortice degli affari. Si da il caso che oggi sia in gioco non la sorte di singole aree colpite da cataclismi o calamità, ma il riscaldamento globale, un fenomeno dalle dimensioni planetarie, che mette a rischio equilibri che la natura ha costruito in milioni di anni e che un paio di secoli di capitalismo ha compromesso con il consumo sfrenato di risorse e il rilascio nella terra, nell’acqua e nell’aria di quantità gigantesche di sostanze venefiche. Sappiamo bene che ad ogni epoca dello sviluppo industriale sono da abbinarsi catastrofi sempre crescenti: se, infatti, nell’ottocento avevamo l’insana città industriale annerita dal carbone, isolata nel verde della campagna, oggi è il mondo intero ad essere annebbiato dai fumi degli scarichi dell’industria e non c’è angolo remoto che sia preservato dagli effetti dell’avvelenamento.

 

Ma i “grandi” della Terra proclamano che tutto si risolverà grazie alla cooperazione volonterosa tra paesi affratellati da un comune obiettivo (Trump pare non concordi granché, ma conosciamo le sue debolezze “strutturali”). Viene da domandarsi se, in realtà, si tratta di salvare il mondo dalla catastrofe o, piuttosto, di preservare il capitale? Non è, infatti, nella natura dell’attuale società globale la programmazione di rimedi duraturi per i rischi creati dalla devastazione che essa stessa provoca all’ambiente. Le catastrofi, al contrario, sono il suo teatro ideale: le alluvioni, i dissesti idrogeologici, i terremoti, le guerre distruttrici, sono occasioni per ricostruire, per sfruttare senza sosta lavoro vivente. Ricordiamo, a tal proposito, le telefonate degli sciacalli che si rallegravano all’indomani del terremoto dell’Aquila per gli affari che il sisma avrebbe regalato agli “onesti” costruttori. La verità è che il capitale si nutre di emergenze. Che cosa c’è di meglio allora di una flagello globale per mobilitare capitali e forza lavoro da qui all’eternità?

 

Ci raccontano che gli accordi infine raggiunti (per quello che possono valere ed al di là di ogni critica che gli si possa muovere), dovrebbero se non altro rassicurare sulla determinazione comune a intervenire finalmente per il bene dell’umanità. I precedenti incontri annuali, a partire dal Summit della Terra a Rio de Janeiro (1992), avevano portato all’impegno dei paesi industrializzati a ridurre le emissioni di gas-serra del 5% all’anno (Protocollo di Kyoto, 1997); questo nonostante la rilevante diserzione degli Stati Uniti e la concessione ai paesi in via di sviluppo di aumentarle, per consentir loro di “svilupparsi”. Con l’ascesa esplosiva della Cina, e in generale dell’economia dell’Estremo Oriente, la situazione è mutata, al punto da far fallire la conferenza di Copenhagen (2009) per il nuovo rifiuto dei paesi industrializzati ad accettare nuovi tagli.

 

La verità è che a vent’anni di distanza dal Protocollo di Kyoto le emissioni dei paesi industrializzati sono sì calate del 23%, ma una parte significativa di questa diminuzione è stata esclusivamente conseguenza della caduta produttiva a seguito della grande recessione, mentre nel frattempo il calo è stato quasi annullato dall’aumento sostenuto delle emissioni cinesi e di altri paesi emergenti. Il bilancio fallimentare è evidente se consideriamo che il sistema produttivo mondiale ha continuato e continua a scaricare nell’atmosfera enormi quantità di CO2 che alimentano il riscaldamento globale, avvicinandolo oramai al punto di non ritorno. La produzione mondiale è cresciuta, e con essa il livello di inquinamento del pianeta. Oggi non sono più soltanto all’attenzione le previsioni pessimistiche di autorevoli studi scientifici; i cambiamenti climatici sono già un dato di esperienza diretta per la gente comune.

 

Finché si trattava, ad esempio, delle popolazioni miserabili del Sahel, colpite dalla desertificazione, o di quelle distribuite nelle sperdute isole-Stato, minacciate dall’innalzamento del livello degli oceani, la questione poteva essere relegata in cronaca o derubricata a fenomeno collegato all’aumento dei flussi migratori. Ma ora sono le latitudini intermedie, le aree vitali del capitalismo mondiale, a essere direttamente colpite dal riscaldamento globale. Tropicalizzazione, aumento dei fenomeni estremi, difficoltà a parametrare correttamente previsioni a lunga scadenza, riscaldamento dei nostri mari con mutazione della fauna. Il 2015, anno record di temperatura media, è stato superato dal 2016. Il nuovo anno segnerà probabilmente un altro record. In ogni caso il calore assorbito dagli oceani viene periodicamente restituito all’atmosfera, ed è questa una delle ragioni per cui, se anche si realizzassero subito drastiche riduzioni delle emissioni, la temperatura si alzerebbe ugualmente di almeno un grado, un grado e mezzo, da qui a qualche decennio. A proposito del disinteresse organico dell’attuale società, ad occidente come ad oriente, ricordiamo come proprio nei giorni del summit di Marrakesh, Pechino fosse avvolta in una densa cappa di smog che rendeva l’aria irrespirabile, con valori di inquinanti che superavano di 20 volte i limiti stabiliti dall’OMS: le autorità, allora, intervenirono chiudendo le aziende più pestilenziali, ma il fatto era, ed è che in un’area metropolitana grande come la Spagna basta che cambino le condizioni meteorologiche perché la città sprofondi in uno scenario apocalittico e le soluzioni anche più radicali siano rese inefficaci.

 

La scienza odierna, infatti, pur dotata di strumenti di analisi, rimane completamente impotente di fronte ai fenomeni che studia e, in pratica, si limita ancora soltanto a fare “appello alla saggezza degli uomini”. Così chiusa l’epoca del mero “negazionismo”, il servilismo degli scienziati si dispone ad avallare le soluzioni annunciate dal potere politico: un piano globale di riduzione delle emissioni, con presunti modelli di consumo più morigerati, ma soprattutto con il ruolo determinante del progresso tecnologico, che, per altro, fa riferimento a tecnologie al momento non immediatamente disponibili. Non è poi certo secondario che impiegare una parte consistente della massa di capitale finanziario attualmente inutilizzato, per investimenti in nuove infrastrutture di produzione energetica e per l’acquisto di tecnologie produttive e anti-inquinamento, avvantaggerebbe soprattutto i capitalismi sviluppati e la stessa Cina, che, tra le tante sovrapproduzioni, annovera anche quella dei pannelli solari. Insomma, un affare per le banche finanziatrici, una boccata d’ossigeno per i sistemi industriali globali in affanno!

 

Se poi tutto questo comporterà qualche beneficio al clima del pianeta sarà una conseguenza indotta, com’è proprio del modo di produzione capitalistico, il cui scopo non è certo la soddisfazione dei bisogni umani, ma la produzione stessa. E’ vero, l’innovazione tecnologica può permettere di risparmiare sulle risorse, di ridurre i consumi energetici, di razionalizzare produzione e distribuzione in tutti i passaggi, ma si dovrà comunque produrre “di più”, perché il mondo non cada in una nuova recessione, il peggiore dei mali che possa patire il regime capitalistico. Ma produrre “di più” vuol dire consumare risorse aggiuntive, anche se a ritmi di incremento decrescenti. Difficile allora credere alle false soluzioni di un’economia verde che cerca di mercificare ulteriormente vita e natura in vista di ulteriori profitti.

 

Dovremmo per principio rifiutare la finanziarizzazione del clima, che, in ogni caso, pone un prezzo all’ambiente e crea nuovi mercati, che, per loro natura, non faranno altro che aumentare le ineguaglianze e velocizzare la distruzione della terra. E’ questa una lezione che molti dovrebbero aver già imparato, ovvero che l’odierno modo di produzione non può risolvere in modo stabile e duraturo il problema della salvaguardia degli esseri viventi, come non è un grado di elaborare un piano di specie di lungo periodo, che prescinda dalle esigenze dell’accumulazione a breve termine. Una lettura semplice, che politica e cultura globali si prodigano a occultare e sminuire, nel timore che la presa di coscienza di milioni di donne e di uomini mettano in pericolo l’esistenza stessa del denaro e della sua capacità di dominare l’esistenza umana.
Sandro Buganini