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I debiti degli Stati Uniti continuano a crescere: è allarme rosso

di Giacomo Gabellini - 17/06/2017

I debiti degli Stati Uniti continuano a crescere: è allarme rosso

Fonte: L'Indro

A nemmeno dieci anni dallo scoppio della crisi, che di fatto palesò che la crescita economica registrata dagli Stati Uniti nel corso degli anni precedenti era stata costruita su una montagna di debiti, l’economia Usa è tornata a presentare le stesse condizioni problematiche del periodo immediatamente precedente al fallimento di Lehman Brothers. Nei primi anni del nuovo millennio, alcuni economisti della scuola neoliberale come Nouriel Roubini avevano richiamato l’attenzione sul potenziale disastroso del processo di deregolamentazione totale della finanza che era stato attuato a partire dagli anni ’80 (con una brusca accelerata sotto le amministrazioni di Bill Clinton e George Bush jr.), mentre alcuni studiosi di impostazione marxista tendevano ad affrontare la questione in maniera più strutturale, ritenendo che la deregulation fosse l’unica soluzione disponibile per permettere al sistema di continuare la propria corsa.

Secondo costoro, la progressiva saturazione dei vari settori di cui si compone il mercato era andata a legarsi alla stagnazione salariale che vigeva negli Usa da diversi decenni, originando una sinergia negativa che aveva esaurito la spinta propulsiva dell’economia reale. Gli apparati dirigenziali giunsero quindi alla conclusione che la finanza era l’unico comparto in grado di fungere da motore alternativo in grado di trainare la crescita, e decisero quindi di rimuovere l’intera architettura normativa vigente e azzerare i tassi di interesse nella convinzione che ciò avrebbe favorito il pieno sviluppo delle potenzialità attribuite al settore finanziario.

Il Paese, del resto, sarebbe comunque riuscito a conservare la propria capacità di attrarre investimenti esteri grazie essenzialmente al ruolo centrale rivestito dal dollaro nel commercio internazionale. Non a caso, nel corso del periodo compreso tra il 2001 e il 2004, gli investitori stranieri acquisirono titoli di aziende statunitensi quotate in Borsa per un valore complessivo di 500 miliardi di dollari, e titoli di Stato per un valore di 400 miliardi di dollari. Ad essi vanno aggiunti circa 225 miliardi di dollari investiti da acquirenti stranieri in titoli dotati di garanzia ipotecaria.

Questa massa enorme di denaro finì, di fatto, per favorire l’indebitamento dei cittadini statunitensi che potevano esibire come garanzia reale il valore di mercato delle proprie abitazioni. Il flusso crescente di denaro canalizzato in questo specifico settore alimentò un vero e proprio boom dell’edilizia e del credito al consumo, trasformando le banche in ammortizzatori sociali che, grazie ai propri ‘prestiti facili’, riuscirono a mantenere alti i consumi nazionali nonostante i salari medi fossero drasticamente diminuiti.

Un notevole apporto alla diffusione dei crediti facili era stato fornito dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) attraverso una particolare gestione dei Diritti Speciali di Prelievo (Dsp). I Dsp sono capitali ai quali enti pubblici e privati possono accedere, pagando un interesse, allo scopo di accrescere le proprie riserve. Negli anni ’80 gli interessi pretesi dal Fmi erano prossimi al 15%, mentre nel successivo ventennio passarono al 5% per poi scendere al di sotto della soglia del 3%. L’abbassamento dei tassi di interesse incoraggiò il ricorso ai Dsp soprattutto da parte delle banche, che incrementando il valore delle proprie riserve ebbero modo di erogare un numero crescente di crediti e abbassare i criteri di aggiudicazione.

La degenerazione si verificò a partire dagli attentati dell’11 settembre 2001, in seguito ai quali il tasso di interesse reale a breve termine rimase negativo per ben 31 mesi consecutivi consentendo alle banche di rifornirsi di fiumi di denaro a costo irrisorio e creando in questo modo le condizioni affinché gli istituti di credito erogassero prestiti a qualsiasi genere di richiedente, compresi i cosiddetti Ninja (No Income, No Job & Assets). Circostanze che fecero in modo che all’esorbitante indebitamento delle famiglie – riguardante prevalentemente il settore immobiliare – andasse a sommarsi una parallela e crescente esposizione, che raggiunse i 1.200 miliardi di dollari verso la metà del 2005, da parte di imprese ed istituti finanziari. Non stupisce quindi che il volume dei mutui subprime crebbe da 30 a oltre 600 miliardi di dollari nel giro di un decennio. I nodi vennero al pettine non appena la Fed elevò i tassi di interesse. Da quel momento, un numero sempre maggiore di debitori cominciò a non riuscire più a pagare le rate del mutuo contratto, e la cosa fece immediatamente crollare il castello di carte dei derivati tenuto insieme dal sistema della cartolarizzazione, il quale interconnetteva in un’unica filiera società para-pubbliche specializzate in mutui (Freddie Mac e Fannie Mae), banche d’investimento, agenzie di rating e compagnie assicuratrici. Il governo e la Fed reagirono da un lato con nazionalizzazioni e corpose iniezioni di capitale necessarie a salvare l’intero comparto bancario che era stato spinto sull’orlo del precipizio dallo scoppio della bolla creditizia, e dall’altro riabbassando i tassi di interesse e lanciando corposi programmi di quantitative easing per evitare il blocco del credito che avrebbe inesorabilmente condotto allo strangolamento dell’economia reale.

In realtà, le vantaggiosissime condizioni di rifinanziamento garantite dalla Federal Reserve in accordo con il governo di Washington hanno indotto fin da allora le banche a rimettere in moto il medesimo meccanismo perverso che era all’origine della crisi. Come risultato, la massa debitoria negli Stati Uniti è tornata a livelli astronomici. E la cosa vale per ogni genere di debito, sia pubblico che privato, che sommati raggiungono l’immane cifra del 350% del Pil Usa.

Nello specifico, il ‘Sole 24 Ore’ informa che: «la Federal Reserve di New York ha di recente annunciato un nuovo record storico per il debito privato statunitense: 12,7 trilioni di dollari (ovvero 12.700 miliardi). Una cifra enorme, pari a oltre cinque volte il nostro debito pubblico. Il brutto è che oltreoceano dovunque ti giri trovi livelli di indebitamento a nuovi record. Prendiamo il debito universitario contratto per pagare i costosi atenei statunitensi: oggi torreggia a quota 1.300 trilioni di dollari, più del doppio dei 611 miliardi di nove anni fa. A pagare questa montagna di soldi (che solo nel quarto trimestre dell’anno scorso è aumentata di 31 miliardi di dollari) sono 42,4 milioni di cittadini statunitensi, dicono i dati del Department of Education. Ma quel che fa più paura è la percentuale di default: ormai sono tremila al giorno, aumentati del 17% in un anno. Il che consegna ai prestiti universitari lo scettro delle insolvenze più numerose, secondo la Fed di New York, tanto da far temere la futura esplosione di una bolla per certi versi simile a quella dei famigerati mutui immobiliari d’antan. La marea dei debiti però continua ad alzarsi anche su altri fronti: per esempio le carte di credito, dove siamo oltre il trilione di dollari, o i mutui immobiliari. Senza dimenticare il settore auto (a 1,1 trilioni di dollari), dove i finanziamenti sono stati concessi anche a profili subprime con l’inevitabile sequenza di default che ne è seguita. Poi naturalmente ci sono il debito governativo federale e quello dei singoli Stati».

Il ‘Financial Times’ riporta inoltre che, a partire dal 2010, le imprese Usa hanno accumulato qualcosa come 7,8 trilioni di debito ma la loro capacità di sostenerlo è ai minimi dal 2008. Lo stesso quotidiano appare inoltre fortemente pessimista circa la capacità delle istituzioni di tenere la situazione sotto controllo, e suggerisce pertanto di procedere alla cancellazione dei mutui ritenuti inesigibili, anche alla luce delle difficoltà crescenti riscontrate dalla declinante middle-class a onorare i sempre più alti interessi sul debito. Un evento inaspettato o un rialzo sensibile dei tassi, che prima o poi dovrà essere attuato anche se la Fed continua puntualmente a rimandare la decisione in tal senso, possono infatti innescare fallimenti a catena, con il rischio – fortemente sottostimato – di produrre  pesantissimi contraccolpi a livello sistemico.
La ‘tempesta perfetta’ potrebbe abbattersi anche sul sensibilissimo settore del risparmio, per effetto della mancata reintroduzione del vecchio Glass-Steagall Act che, negli anni ’30, aveva decretato la netta separazione tra banche commerciali e banchi d’investimento onde evitare che qualsiasi istituto giocasse liberamente d’azzardo con il denaro dei correntisti. Come nota il giornalista Marcello Foa: «il problema è serissimo, strutturale e ricorrente. Riguarda gli Stati Uniti ma in misura crescente anche molti Paesi europei, dove il ricorso all’indebitamento come surrogato al reddito è sempre più diffuso».