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Ebbene, sì: Jack London era razzista; e allora?

di Francesco Lamendola - 20/06/2017

Ebbene, sì: Jack London era razzista; e allora?

Fonte: Il Corriere delle regioni

 

 

 

Ci sono delle cose che si capiscono solo col tempo, con l’esperienza, non per mezzo dei libri; anzi, a dispetto dei libri. Naturalmente, si tratta di valutazioni personali, quindi con un certo margine di soggettivismo; peraltro, apparteniamo alla razza, in via d’estinzione, di coloro i quali credono ancora che esista pur sempre una cosa che si può qualificare come la realtà oggettiva, e un’altra che si può chiamare la conoscenza oggettiva: vale a dire, crediamo che esista la verità. Non le verità, ma proprio la verità, al singolare: adaequatio rei et intellectus, corrispondenza fra la mente che coglie la cosa, e la cosa che viene colta nel suo essere reale. Dunque, riteniamo importante che la propria percezione soggettiva non sia arbitraria, non sia gratuita, che non sia puramente emozionale e sentimentale, ma che abbia una solida base razionale. E al diavolo gli eterni maestri del sospetto e della diffidenza, secondo i quali non esiste la razionalità, proprio come non esiste la verità, e, addirittura, come non esiste il linguaggio per esprimere cose e pensieri.

Queste riflessioni ci sono venute alla mente rileggendo un libro che, a suo tempo, ci aveva lasciati dubbiosi e perplessi, il romanzo di Jack London La valle della Luna (titolo originale: The Valley of the Moon), pubblicato nel 1913: data significativa, l’ultimo anno di quiete prima della tempesta, prima del tremendo ciclo delle due guerre mondiali, al cui termine il mondo non sarebbe stato mai più quello di prima. È un romanzo d’avventura, caratteristicamente londoniano: nel senso che, al gusto dell’avventura, s’intreccia, fin dall’inizio, una delicata vicenda amorosa fra i due protagonisti, Saxon e Billy. Un po’ come nello schema generale di Martin Eden, ma con la notevole differenza che, in quello, il protagonista maschile viene dai bassifondi e lotta coraggiosamente per emergere e affermarsi, sia intellettualmente e spiritualmente, che materialmente, ma ha la sfortuna d’innamorarsi di una ragazza bella e ricca, la quale, da figlia viziata delle classi alte, non lo comprende, non lo sostiene, e gli riserva una totale delusione sentimentale; mentre qui, invece, entrambi i protagonisti, sia lui che lei, vengono dalle classi sociali più misere – o, più precisamente, impoverite: perché sono figli di dignitosi emigranti – ed entrambi scelgono di costruirsi una nuova vita, unendo le loro forze e sostenendosi a vicenda, in un nobile slancio di elevazione che non è soltanto di tipo sociale, ma un vero e proprio anelito alla libertà e alla pienezza vitale, nel senso più ampio e generoso dell’espressione.

Le perplessità, il disagio che prova il lettore, davanti a questo romanzo di Jack London, nascono dal sottofondo ideologico che lo caratterizza, una strana mescolanza di socialismo umanitario e sentimentale, e di razzismo, diciamo così, darwiniano. Sia la protagonista, Saxon – il suo nome è tutto un programma – sia il suo innamorato, Bill, decidono di voltare le spalle ai lavori degradanti e malpagati della città di Oakland, sul lato interno della Baia di San Francisco, e di mettersi in marcia verso l’interno della California, in cerca di libertà e di nuovi orizzonti esistenziali, scansando, anzi, fuggendo, non solo il volto brutto della civiltà moderna, il sovraffollamento, lo sfruttamento operaio, la degradazione spirituale e l’alienazione dell’industrialismo, ma anche gli immigrati più recenti, i latini, gli slavi, i cinesi e i giapponesi. Ai loro occhi, infatti, questi immigrati più recenti, e tanto diversi da loro, sono tutti esponenti di una umanità inferiore, hanno “invaso” la loro patria e stanno letteralmente togliendo lo spazio ai suoi primitivi abitanti (sorvoliamo, in questa sede, sul fatto che i primitivi abitanti dell’America erano i pellerossa, che furono tranquillamente sterminati da quei primi coloni di ceppo anglosassone).

Ora, il socialismo, come tutti sanno, è un’ideologia che si può non condividere, ma comunque rispettabile, e come tale è sempre stata considerata, anche dagli intellettuali di destra (non veniva forse dai ranghi del socialismo lo stesso Benito Mussolini?); mentre il razzismo è un atteggiamento mentale insopportabile, e, se si traduce in una vera ideologia, è considerato come una delle più abiette e moralmente spregevoli fra quante hanno funestato il “secolo breve”, essendo una diretta ispiratrice dei campi di sterminio nazisti. Questo, almeno, secondo la cultura politically correct. Perciò non vi è nulla di male, tutt’altro, nel prendere atto che Jack London avesse delle dichiarate simpatie socialiste; mentre ha sempre costituito un grosso problema, per i suoi lettori e per i suoi ammiratori, il fatto che fosse, o che venisse sospettato di essere, anche un razzista, almeno in una certa misura: cosa che è difficilmente occultabile, se appena si legge un romanzo come L’avventura, nel quale egli sbatte in faccia al lettore tutto il suo disprezzo nei confronti dei popoli melanesiani e ribadisce a chiare note il diritto-dovere, come sarebbe piaciuto a Kipling, da parte dell’uomo bianco, di dominare su di essi, anche con il pugno di ferro, se necessario. Insomma: London socialista, va bene; London razzista, assolutamente non va bene. Eppure, è chiaro che egli deve essere stato, Dio sa come, nello stesso tempo sia socialista che razzista. Ma qual è il vero Jack London? Dove sta il nucleo più sincero del suo pensiero, del suo stesso sentire: verso il socialismo umanitario, o verso il razzismo biologico e culturale?

Ce lo siamo chiesto anche noi, insistentemente, quasi tormentosamente, e ne abbiamo già parlato in maniera diffusa in diversi articoli (cfr. specialmente La visione del mondo di Jack London era socialista oppure razzista e brutalmente darwiniana?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 22/12/2008, e ripubblicato su Il Corriere delle Regioni il 12/01/2016; e Jack London, un lupo del mare che se ne infischia dell’altalena della critica “politically correct”, pubblicato su Il Corriere delle Regioni il 22/02/2017). Ed ecco che il dubbio si è, se non sciolto, in gran parte chiarito, non per un ulteriore forzo di tipo intellettuale, ma alla luce di una serie di esperienze e di fatti che si sono svolti, e tuttora si stanno svolgendo, intorno a noi, con un ritmo così imperioso ed incalzante, da aver modificato in maniera radicale lo stesso paesaggio umano che ci circonda, nel giro di pochi anni. In altre parole: il fatto che l’Italia (per parlare solo dell’Italia; ma il fenomeno riguarda quasi tutta l’Europa e anche gli Stati Uniti e il Canada; escluse, per adesso, l’Australia e la Nuova Zelanda, come pure la Russia) sia diventata, nel giro di due decenni, una terra d’invasione, costantemente sommersa da flussi d’immigrati che si presentano, assai poco verosimilmente, come profughi di guerra e di chissà quali terribili carestie (ma, se sono profughi, come mai non sono quasi tutti vecchi, donne e bambini, bensì, per la grande maggioranza, dei baldi giovanotti, atletici e pieni di ormoni, anche se con pochissima voglia di lavorare, e ancor meno di rispettare le nostre leggi e le nostre usanze, per non parlare dei nostri valori?), ci ha fatto cadere un velo dagli occhi e ci ha mostrato, di colpo, la realtà sociale della California dei primi anni del Novecento, così come doveva apparire ad un americano di origine anglosassone: cioè talmente sommersa, nel giro di pochi anni, dalle ondate migratorie più diverse, da vedere avviata all’estinzione la propria identità culturale, sociale, economica, per diventare, sotto gli sguardi costernati ed increduli degli abitanti originari, qualche cosa d’irriconoscibile, di totalmente diverso da ciò ch’era stata fino ad allora.

Diremo di più: lo stravolgimento in atto nel nostro Paese e l’incomprensibile comportamento delle classi dirigenti, politiche e religiose, le quali sembrano preoccupate unicamente di favorire questa invasione mascherata, e di giustificare qualsiasi ulteriore migrazione/invasione, senza affatto darsi pensiero per il benessere e per i sentimenti dei cittadini italiani (e, in genere, europei), ci ha indotti a riconsiderare anche il concetto di “razzismo”, sul quale la cultura politicamente corretta aveva emesso uno sentenza di condanna totale e inappellabile, senza peraltro specificare cosa si debba intendere, esattamente,  per “razzismo”, ogni qualvolta si adopera – in verità, con molta, troppa larghezza – questo vocabolo, sempre e solo per stigmatizzare, insultare o criminalizzare qualcuno, per decretarne la messa al bando politica e morale, senza “se” e senza ”ma”. Il fatto che la parola “razzismo” sia risultata impronunciabile a partire dal 1945, ha fatto sì che la nostra cultura non sia stata capace di elaborare gli strumenti per riconoscere, distinguere e analizzarle diverse forme di comportamento spicciolo, ed, eventualmente, di concezione teorica, che possono venire designate per mezzo di essa: sicché abbiamo finito per mettere nello stesso calderone tutto e il contrario di tutto, ma in maniera affrettata e artificiale, sostanzialmente con cattiva coscienza. Riteniamo che sia anche per questa mancata riflessione e chiarificazione se, ora, davanti a cose che non ci piacciono, o meglio che non ci piacerebbero, se le guardassimo sino in fondo, preferiamo girare la testa dall’altra parte: così sta accadendo per la lenta, inesorabile espulsione dei bianchi dalla Repubblica Sudafricana, dopo la fine dell’apartheid (laddove il mondo progressista e perbenista ha applaudito al “miracolo” della convivenza tra le diverse razze) o per la loro tragedia silenziosa, esposti ai furti, alle rapine, alle uccisioni, da parte della maggioranza nera: dal momento che la cultura politicamente corretta ci aveva sempre detto e ripetuto che il razzismo è una cosa che esiste in un‘unica direzione, da parte dei bianchi verso i popoli di colore; ma non nell’altra, da parte di questi ultimi nei confronti dei bianchi. E pazienza se c’erano già stati non pochi segnali d’allarme, che avrebbero dovuto indurci a rivedere questa versione unilaterale del razzismo, la quale si è imposta per la sola ragione che l’Occidente, da un bel po’ di tempo in qua, odia se stesso, e che non gli pare vero di rappresentarsi come il solo depositario della malvagità universale; una smania auto-denigratoria che gli altri popoli non hanno per niente (cfr. i nostri articoli Il genocidio di Zanzibar del 1964 venne ignorato perché infastidiva la vulgata marxista e Il grande tabù della sinistra che tiene ancora imprigionate cultura e informazione, pubblicati su Il Corriere delle Regioni rispettivamente il 26/11/2015  e il 19/01/2016). Infatti, non c’è peggior sordo di chi non vuole udire, né peggior cieco di chi si rifiuta di vedere anche ciò che ha sotto gli occhi.

Alla luce di queste riflessioni e constatazioni, anche i passaggi ideologicamente più scabrosi di un romanzo come La valle della Luna acquistano un altro significato, si presentano sotto una luce nuova. Si veda il dialogo iniziale fra i due protagonisti, i quali cominciano a simpatizzare seduti al tavolo di un locale pubblico, e sentono crescere l’attrazione reciproca mano a mano che si rendono conto di avere in comune sia l’origine anglosassone, sia la fierezza di considerarsi come i “veri” abitanti di quel Paese, in mezzo a una folla di stranieri che, pur essendo vittime, quanto loro e più di loro, dello sfruttamento di classe (e qui vengono fuori, appunto, le simpatie socialiste di London, invero più sentimentali, e quindi superficiali, che intellettualmente ponderate e digerite), nondimeno costituiscono essi stessi, agli occhi dei precedenti abitanti di Oakland, della California e, in generale, degli Stati Uniti, un ulteriore problema, un’ulteriore minaccia alla preservazione della loro identità e del loro senso di appartenenza originario (da: La valle della Luna, in: J. London, Romanzi d’amore e d’avventura, Milano, Mursia, 1974, pp. 231-233):

 

Allora Billy cominciò, per discrezione, a conversare con Saxon.

- Sapete che avete u nome curioso? Non ho mai sentito nessuno che si chiamasse così. Però è bello. Mi piace.

- Me l’ha dato mia madre. Era stata educata bene e conosceva parole d’ogni genere. Ha continuato a leggere libri quasi fino alla morte. E ha scritto molto. Ho ancora qualche sua poesia pubblicata da un giornale di San José molti anni fa. I sassoni erano una razza di gente… M’ha raccontato molte cose di loro quando ero bambina. Erano selvaggi, come gli indiani; soltanto, erano bianchi. Avevano occhi azzurri e capelli biondi, ed erano guerrieri terribili.

Mentre ella parlava, Billy ascoltava con grande attenzione, gli occhi fissi in quelli di lei.

- Non ne ho mai sentito parlare, – confessò a un certo punto. – Vivevano da queste parti?

Ella rise.

- No. Vivevano in Inghilterra. Furono i primi inglesi, e sapete che gli americani discendono dagli inglesi. Siamo sassoni tanto voi che io e Mary e Bert, e tutti gli americani che sono veri americani, sapete, e non “dagoes” e giapponesi, o gente simile.

- La mia gente è da molti anni in America - disse Billy lentamente, digerendo le informazioni ed uniformando ad esse il proprio spirito. – Quella di mia madre è venuta nel Maine un centinaio d’anni fa.

Anche mio padre era del Maine,- l’interruppe lei con un gorgoglio di gioia. E mia madre è nata nell’Ohio, o almeno dove ora si trova l’Ohio. Lei, quel paese lo chiamava la Grande Riserva dell’Ovest. E vostro padre di dov’era?

- Mah! – e scrollò le spalle. – Non lo sapeva nemmeno lui. Nessuno l’ha mai saputo. Però era americano, e come!

- Infatti, è un vecchio nome americano. C’è ancora adesso un gran generale inglese che si chiama Roberts. L’ho letto nei giornali.

- Ma Roberts non era il ero nome di mio padre. Il suo vero nome non l’ha mai saputo. Roberts era il nome d’un cercatore d’oro che lo aveva adottato. Ora vi racconterò. Una volta, sapete, cui si batteva sempre contro gli indiani, e molti cercatori e coloni vi prendevamo pare. Roberts era capo d’un gruppo di minatori, e una volta, dopo una battaglia, ha preso un mucchio di prigionieri: “squaws”, ragazzi e poppanti. E uno di quei ragazzi era mio padre. Allora doveva aver qualcosa come cinque anni. Sapeva parlare soltanto indiano.- Saxon batté le mani e gli occhi le sfavillarono: - Sarà stato preso durante una scorreria indiana.

- È ciò che si crede, - sentenziò Billy. – Quattro anni prima una carovana di coloni dell’Oregon era stata distrutta dai Modoc. Fatto sta che Roberts se l’è adottato, ed ecco perché non conosco il mio ero nome. Ma potete star certa che la prateria l’ha attraversata anche lui.

- E anche il io l’ha attraversata, - disse Saxon con orgoglio.

- E anche mia madre, - soggiunse Billy con voce pure vibrante d’orgoglio. – O almeno in parte, dal momento che è nata in un carro sul fiume Platte, durante la traversata.

- Anche la mia, - disse Saxon. – Allora aveva otto anni, e dopo morti i buoi, ha fatto quasi tutta la strada a piedi.

- Mettetela qui, ragazza. Non siamo forse vecchi amici, dal momento che abbiamo la stessa gente dietro di noi?

Saxon gli diede la mano con occhi raggianti, ed essi si scambiarono una stretta solenne.

- Che bello!, - mormorò lei. Siamo tutt’e due americani del vecchio ceppo. E se voi non siete un sassone, vuol dire che di sassoni non ce ne sono mai stati. Basta guardarvi i capelli, gli occhi, tutto. E siete anche pugilatore!

- Mah, credo che tutti i nostri vecchi siano stati pugilatori quando occorreva. Per forza, altrimenti non sarebbero mai arrivati fin qua.

 

Uno psicanalisti potrebbe sorridere degli sforzi di Jack London - figlio illegittimo di uno strambo genitore,che aveva abbandonato sua madre, e che venne adottato dal nuovo compagno di questa, un vedovo già carico di figli - di nobilitare le sue origini, immaginando che il padre di Billy, proiezione di se stesso, fosse un bianco rapito dagli indiani in tenera età, e poi adottato da un rude ma onesto americano che lo aveva cresciuto come un figlio. Ma la psicanalisi non spiega perché certi popoli sviluppino un senso accentuato  di fierezza e d’indipendenza, mentre altri si lasciano andare alla deriva della decadenza. Saxon e Billy si scoprono simili per le radici e per il senso di fierezza, e subito fraternizzano. Scoprono che le loro famiglie provengono dal Maine, nella Nuova Inghilterra, dov’erano sbarcate un centinaio d’anni prima: mentre i nuovi arrivati - i latini, gli asiatici - sono giunti in California sono da pochi anni. E ciò fa la differenza, oltre alle qualità fisiche e morali, tra un “vero” americano ed uno che non lo è.

Oggi queste idee vengono facilmente bollate di razzismo; quasi tutto il mondo politicamente corretto, dalla politica alla cultura, giudica, ad esempio, che risiedere da una decina d’anni in Italia, sia un requisito sufficiente per chiedere  e ottenere la cittadinanza italiana; o, addirittura, secondo altri, che basti nascere in Italia, per essere automaticamente considerati cittadini italiani. Ora, noi italiani “veri” – se ci è permesso di usare questa espressione, prima che venga approvata qualche legge contro il razzismo che possa ridurci al silenzio - abbiamo dei progenitori “indigeni” non da un centinaio d’anni, ma con qualche migliaio di anni dietro le spalle: se volessimo accertare quando le nostre famiglie si sono stabilite in questo Paese, dovremmo contare non tre o quattro, ma decine e decine di generazioni, forse addirittura centinaia. Questo è un dato di fatto storico, non è una opinione. E su questo dato di fatto, chi è nato in Italia, da genitori italiani, perché mai non dovrebbe avere il diritto di considerarsi un “vero” abitante di questo Pese, più di chi è giunto ieri, proveniente, oltretutto, da una razza (altra parola impronunciabile!), da una cultura, da una civiltà, da un continente, che non hanno niente a che fare con i nostri? Attenzione: non ci sogniamo di dire, né di pensare, che quelle origini sono “inferiori”, rispetto alla nostra; non pensiamo che vi siano popoli “superiori” e “inferiori”: pensiamo, tuttavia, o meglio, constatiamo, che vi sono popolazioni che risiedono sul loro proprio territorio da centinaia e migliaia d’anni, e persone o gruppi che vi sono arrivati ieri, senza nulla conoscerne, con molte pretese, fra le quali vi è quella di essere accolti e insediati, quasi fosse un loro diritto scontato, peraltro conservando tutte le loro usanze, anche le più discutibili (infibulazione, circoncisione femminile, imposizione del burqa e proibizione di guidare la macchina o di muovesi da sole, per le donne), anzi, ostentando un vero e proprio razzismo alla rovescia nei confronti degli abitanti originari, per esempio proibendo ai loro figli di fraternizzare con i giovani del posto. E, se qualcuno, o qualcuna, di essi, si ribella a una tale imposizione, i loro genitori arrivano talvolta fino al delitto, a sopprimere il sangue del loro sangue, per lavare l’offesa che è stata recata alla loro autorità e alle loro tradizioni.

In queste condizioni, è lecito, sì o no, dire che stiamo andando verso una situazione paradossale, nella quale noi stessi ci stiamo facendo invadere e sommergere da dei nuovi arrivati, oltretutto molto più prolifici di noi, i quali, palesemente, non sono interessati a rispettare e mantenere in vita la nostra civiltà, ma la vogliono sostituire con la loro? È lecito, o non è lecito, dire che, rispetto a questo suicidio annunciato del nostro popolo, dei nostri valori, del nostro sistema di vita, noi non siamo d’accordo? I popoli europei hanno ancora il diritto di esprimere questa opinione, oppure, in nome del politicamente corretto, devono solo tacere e sparire, conservando sempre il silenzio, perché, diversamente, si macchierebbero dell’orrenda colpa del razzismo?