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Ungheria '56. Per Togliatti e il Pci nessun dubbio: «L’Urss ha schiacciato il fascismo»

di Enzo Bettiza - 10/10/2006


Sarà in libreria da domani il nuovo saggio di Enzo Bettiza, a cinquant’anni dai fatti d’Ungheria: 1956 - Budapest: i giorni della rivoluzione (Mondadori, pagg. 216, euro 16,50). Ne anticipiamo alcune pagine.

Sarà il 1956 l’anno del vero Togliatti. Sarà l’Ungheria a costringere l’uomo dai molti volti a rivelare quello autentico, nel fondo immutabile, del plenipotenziario kominternista che alle dipendenze di Stalin aveva attraversato incolume gli anni più terribili della tregenda bolscevica. Vediamo un attimo chi era, com’era o, meglio ancora, come appariva colui che già Trockij, prima di Stalin, aveva definito «il grande avvocato della Terza Internazionale». Se non si scava più a fondo nella sua indole, se non se ne scandaglia il retroterra storico nonché individuale, si rischia di capire ben poco dell’uomo colto e inquietante che aveva esumato dalla teologia medioevale il concetto della «doppia verità». La misura clericale di quella doppiezza, intimamente legata alla formazione esistenziale del personaggio bifronte che era insieme «Ercoli» e Togliatti, va tenuta presente ogni qualvolta si tenti di penetrare nelle penombre del suo passato e nei convolvoli del suo labirinto mentale. Si trattava di una doppiezza diventata natura, respiro, pensiero, retropensiero, reticolo dottrinario, pulsione politica, culto cinico e mesto della storia: era essa la chiave che ci permette di cogliere la profonda dicotomia psicoideologica che rendeva così sfaccettato, bivalente, così diverso il leader del Pci da un Thorez pietrificato nel dogma o un Carrillo disciolto nel suo chisciottesco radicalismo revisionistico.

Togliatti non era mai una cosa sola. A seconda della scacchiera nazionale o internazionale su cui agiva, egli poteva presentarsi di volta in volta come revisionista o come dogmatico, e spesso poteva essere nello stesso momento una cosa e l’altra: accorto temporeggiatore gramsciano nelle sabbie mobili della politica romana, ma leninista risoluto nelle questioni concernenti la stabilità e la coesione dei poteri comunisti nell’Europa centrorientale. Una sorta di schizofrenia pacata e strumentale faceva parte del suo metabolismo psicoideologico e della sua pessimistica visione del mondo. Questo duplice personaggio, capo del maggiore partito filosovietico d’Occidente, dopo la disfatta elettorale del 1948 doveva apparire moderatamente insidioso ma non più pericoloso per la vulnerabile democrazia italiana. Al tempo stesso, doveva rivelarsi deludente per quei riformatori delle «democrazie popolari» che, isolati e frustrati com’erano, prendevano spesso lucciole per lanterne. Basterà ricordare in proposito le sviste dei revisionisti polacchi e soprattutto ungheresi, fra i quali non erano pochi i cosiddetti comunisti nazionali; essi, illudendosi, hanno sempre cercato un sostegno e un punto di riferimento nel «partito nuovo» di Togliatti, che a torto immaginavano il più sensibile ai loro aneliti di libertà e di autonomia da Mosca. (...)

Nulla, in fondo, se lo avesse voluto, avrebbe potuto impedirgli di aderire senza riserve, con piena lealtà e convinzione, alla democrazia occidentale in Italia. Niente e nessuno, se non lui medesimo, avrebbero potuto impedirgli di socialdemocratizzare gradualmente il «partito nuovo» dandogli strutture e contenuti ideologici davvero nuovi. Se inoltre nel 1956 si fosse schierato dalla parte degli operai di Poznan e degli intellettuali di Budapest, se avesse appoggiato i moti popolari di quelle nazioni in rivolta, se avesse colto l’occasione per seguire la pista antitotalitaria aperta da Nenni (ex Premio Stalin) e indicata perfino dal vecchio comunista Di Vittorio, forse la liberazione di mezza Europa sarebbe avvenuta con qualche anno di anticipo sul 1989. Lo «scudo della Nato», che più tardi sarà evocato positivamente da Berlinguer, offriva fin da allora a Togliatti una protezione sufficiente per consentirgli di bonificare il comunismo italiano. Se l’irreversibilità era concepita come una predestinazione metafisica dei regimi comunisti, non si può asserire la stessa cosa per le opposizioni comuniste nelle società occidentali. Si è visto, nel travaglio degli Anni Ottanta, che esse erano in grado di mutare il loro codice genetico sia pure lentamente e con difficoltà. Ma già negli Anni Cinquanta il radicamento elettorale del Pci in Occidente, il prestigio di cui lo stesso Togliatti godeva in molti ambienti politici e culturali occidentali, erano tali da potergli permettere la rottura del vizioso e deleterio «vincolo di ferro con l’Urss». Sarebbe bastato forse, nel momento in cui i sovietici esitavano tra l’invasione e il compromesso, fare un passo, un solo passo deciso, a favore del governo Nagy, per assicurare agli ungheresi una sovranità neutrale, non ostile alla Russia, di tipo austriaco o finlandese. Una simile mossa avrebbe contemporaneamente conferito un timbro di verità, di adesione sincera, anziché strumentale, alle conclamate scelte costituzionali e parlamentari del Pci: avrebbe, in altre parole, «degramscizzato» e legittimato compiutamente il contributo democratico dei comunisti alla normalizzazione della vita politica italiana. Il blocco anomalo del «fattore K» (fattosi quanto mai esponenziale durante l’agonia ungherese) sarebbe con ogni probabilità cessato. L’età dell’umiliante conventio ad excludendum sarebbe forse finita. Un socialismo di tipo occidentale avrebbe trovato più ampio spazio nel Paese, una normale alternanza dei governi avrebbe fatto dimenticare l’incubo sterile dell’alternativa di regime. (...)

Non a caso dunque, nelle dirimenti giornate del ‘56, la voce dei «carristi» delle Botteghe Oscure doveva fare da lugubre eco in Italia al fragore dei carri armati di Ungheria. Pietro Ingrao, direttore dell’«Unità», vergava bollettini di guerra col titolo Da una parte della barricata, sollecitando la solidarietà verso «i compagni ungheresi vittime del bestiale terrore nazifascista». Giorgio Amendola inveiva contro i «fascisti di Horthy» fra gli applausi dei lavoratori di Genova e di Torino. I fratelli Pajetta, sempre in prima linea, inneggiavano all’Armata Rossa in Parlamento e nei comizi. Non tacevano neppure insigni dinosauri del partito, come il latinista Concetto Marchesi, che sprezzava il popolo ungherese «sceso in piazza a rivendicare la libertà fra gli applausi della borghesia capitalistica e le celebrazioni delle messe propiziatorie». Perfino Umberto Terracini, storico presidente della Costituente, noto per la sua opposizione al patto Ribbentrop-Molotov del 1939, descriveva la crisi magiara nei termini di «un fallimento di metodo ma non di sostanza» e, quindi, auspicava l’intervento sovietico «a scudo dei combattenti per la costruzione del socialismo». Breve: tutti i diciannove membri della direzione del Pci pensavano che si doveva estirpare radicalmente e al più presto il contagioso tumore di Budapest.

Non dovranno aspettare molto; già la domenica del 4 novembre Togliatti potrà brindare, «con un bicchiere di vino rosso in più», all’inizio della seconda e definitiva repressione russa. Il primo ciclo di calunnie si chiudeva al rombo del cannone. Qualche giorno dopo scriverà un articolo che sembrava sgorgargli dal cuore più che dalla mente: «E’ mia opinione che una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza questa volta, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell’uovo».