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L’uomo moderno odia se stesso perché odia la propria degenerazione

di Francesco Lamendola - 07/07/2017

L’uomo moderno odia se stesso perché odia la propria degenerazione

Fonte: Accademia nuova Italia

 

L’uomo moderno, al di là delle cose che dice, e in cui dichiara di credere, dimostra, con tutto il suo atteggiamento verso la vita e verso se stesso, di non amarsi, anzi, di detestarsi, di disprezzarsi e di odiarsi. Lo dimostra con l’abuso degli alcolici e con l’uso di droghe, con l’aumento dei suicidi, con le depressioni, con il dilagare dell’omosessualità (che è, specialmente per il maschio, una forma di odio di sé), e con il crollo delle nascite: se si volesse bene, se avesse fiducia nel futuro, crederebbe nel matrimonio, nella famiglia e nella procreazione. Invece a tutti sarà capitato di sentir dire: Sì, ci sarebbe piaciuto avere un figlio, anzi, avere diversi figli, a me e alla mia compagna piacciono i bambini; ma mettere al mondo delle vite in una realtà così difficile, con un futuro così incerto: come si fa ad assumersi una tale responsabilità?

Ma perché l’uomo moderno non si vuole bene? Non ci risulta che l’uomo greco o l’uomo romano, o l’uomo medievale, provassero un simile sentimento e un così forte desiderio di punirsi e di auto-distruggersi. A parte singole, e drammatiche, contingenze storiche, come invasioni, guerre prolungate, pestilenze, per secoli e secoli, quanto indietro vogliamo andare nel tempo, non si trova una umanità così malata come l’attuale: si trova un’umanità sostanzialmente sana, pur in mezzo a difficoltà d’ogni genere. Anzi, possiamo dire tranquillamente che, dal punto di vista della sicurezza medica, legislativa, politica, economica, sociale, l’uomo moderno, almeno limitandoci all’uomo occidentale, sia il figlio di una situazione decisamente privilegiata: nessuno dei suoi predecessori poteva godere di altrettante garanzie, di altrettanti diritti, di altrettanto benessere. Eppure, nessuna delle generazioni che precedono l’avvento della modernità è stata afflitta da un così acuto male di vivere. Nei poeti antichi, per esempio, non c’è il male di vivere, se non per singole situazioni, come un amore infelice, che può spingere fino al pensiero della morte e del suicidio (Saffo, Catullo, Virgilio); ma non è presente come sentimento diffuso. Che cos’è accaduto, dunque? Donde è giunta questa epidemia micidiale, che sta mietendo più vittime delle epidemie che colpirono l’Europa nei secoli passati, come la peste nera del 1348, o la peste bubbonica del 1630?

La risposta è una sola: è arrivata con la modernità. L’affermarsi della civiltà moderna, fra il XVII e il XVIII secolo (la sua nascita va collocata tra la fine del medioevo e l’inizio dell’umanesimo: e, infatti, il primo poeta “moderno”, afflitto dal male di vivere, è Francesco Petrarca; mentre il primo “eroe” moderno, farneticante e infelice, è don Chisciotte della Mancia) coincide con il diffondersi di questa epidemia di negatività, d’angoscia esistenziale, di vera e propria disperazione, accompagnata da una quantità di anomalie, nevrosi e perversioni del sano istinto vitale, a cominciare da quelle sessuali, e da altrettanto evidenti deviazioni dell’intelletto, culminate nel rifiuto della verità, nell’odio per tutto ciò che è buono, bello e giusto e nella esaltazione sfrenata, paranoica e autolesionistica della malvagità, della bruttezza e dell’ingiustizia. Se non si tiene presente questo quadro, non si riuscirà mai a dare conto del successo travolgente, e tuttora perdurante, di scrittori come De Sade, o di pensatori come Hegel: solo una società profondamente malata, che ha smarrito del tutto sia il gusto di ciò che è vero, bello e buono, e anzi lo ha preso in odio, sia il retto uso della ragione, per sostituirlo con sofismi e fumisterie intellettuali d’ogni genere, culminanti nella folle teoria che non è l’essere a generare il pensiero, ma il pensiero a generare l’essere, può riservare a simili  personaggi, e alle loro opere, un’attenzione carica di rispetto e devozione, sforzandosi di cercarvi chi sa quali abissali profondità, mentre meriterebbero, tutt’al più, l’interesse meramente scientifico o filosofico  che si rivolge alle patologie fisiche e mentali.

Una valida chiave di lettura per comprendere tali meccanismi ce la offre un pensatore che, certamente, non è una guida sana e veritiera, essendo afflitto, anch’egli, da molte delle patologie cui abbiamo accennato, e che culminarono nella follia che gli oscurò irrimediabilmente l’intelletto, negli ultimi dieci anni di vita: Friedrich Nietzsche. Lo abbiamo definito, altra volta, un cattivo maestro, e il giudizio rimane: tuttavia, a differenza degli altri due “maestri del sospetto” cui viene generalmente associato, Marx e Freud, Nietzsche è diverso, è fatto di un’altra pasta. Se lo si sa leggere fra le righe, se si riesce a cogliere quel che vi è di valido nelle sue folgoranti intuizioni, separandolo dalla rumorosa zavorra delle sue più ampie e deliranti teorie – in fondo, egli era negato alla vastità della speculazione filosofica, mentre eccelleva come psicologo e moralista – si trovano molte pietre preziose nelle sue pagine, mescolate a sassi e detriti d’ogni tipo: la sfida è quella di separarle dal resto e di collocarle in una prospettiva sana, diversa dalla sua, che è comunque la prospettiva d’un malato che protesta continuamente la sua crociata per la “salute” (il che ne fa un tipo eminentemente tragico: il destino di Nietzsche era comunque la follia, non come approdo del suo pensiero aberrante, ma come esito della sua congenita incapacità di essere felice). Pertanto, egli è un cattivo maestro perché le masse, come del resto aveva lui stesso, lucidamente, previsto, non arrivano a capirlo, anche se la cultura oggi dominante ha messo in giro l’opinione, assurda e interessata (e perciò truffaldina) che egli, in fondo, sia un filosofo abbastanza semplice, e che qualsiasi persona mediamente istruita lo può leggere con profitto; peggio: che qualsiasi persona mediamente istruita non può non averlo letto, poiché egli è un “maestro”. Così, mentre il danno che Marx e Freud hanno causato, e seguitano a causare, è connaturato alla limitatezza delle loro intelligenze, e quindi è sistematico e irreversibile, il danno provocato da Nietzsche è dovuto a un equivoco di fondo: perché un lettore dall’intelligenza vigile e sana riuscirà sempre a trovarvi delle perle di saggezza, ovviamente senza lasciarsi trascinare dalle sue aberranti teorie generali, mentre un lettore dall’intelligenza vigile e sana si stancherà assai presto di leggere Marx e Freud, questi due falsari tronfi di presunzione  maligna; ma non se ne stancano mai le masse anonime, rancorose e vendicative, che trovano in essi proprio il materiale di cui hanno bisogno per giustificare il loro odio feroce contro la verità, la giustizia, la bontà e la bellezza, naturalmente mascherandoli con il loro esatto contrario e credendosi chiamati a una superiore missione di giustizia e verità. Max e Freud, insomma, vanno bene per chi non sa fare altro che odiare e distruggere; ma Nietzsche, che pure si presta anche lui a un tale uso degradato, sarebbe suscettibile, di per sé, di stimolare e vivificare delle energie sane, mettendo in moto un circuito intellettuale virtuoso.

Che cosa sostiene, dunque, Nietzsche, a proposito dell’estetica? Che l’amore del bello nasce da un sentimento sano della vita, attivo, generoso, energico; e che l’uomo interiormente sano vede “belle” tutte le cose che son suscettibili di appagare il suo amore per la vita. Viceversa, l’uomo sano vede come “brutto” tutto ciò che è contrario alla vita, tutto ciò che è malato, patologico, deforme, degenerato, aberrante. Lasciamo da parte, in questa sede, le conclusioni, a loro volta aberranti, che egli trae dalla sua giusta intuizione – l’esaltazione della “bestia bionda” e della “volontà di potenza”; sebbene, su quest’ultima, si sia fatta, sovente in mala fede, parecchia confusione – e concentriamo la nostra attenzione sull’idea centrale qui espressa: è sano amare la bellezza, è patologico amare la bruttezza. Ora pensiamo a quanto l’uomo moderno è divenuto malato: pensiamo all’arte moderna, alla poesia moderna, alle città moderne, alla musica moderna, al teatro moderno, al cinema moderno, all’economia moderna, alla tecnologia moderna, alla maniera moderna di godere, si fa per dire, lo sport e il tempo libero, e quanto sia imbruttita perfino la liturgia, cioè la forma del sacro: c’è di che restare impressionati. Utilizzando questa chiave di lettura, si vede e si comprende chiaramente quanto la civiltà moderna sia il frutto di una gigantesca malattia, e come essa stia sospingendo l’umanità intera verso il baratro dell’abnorme, dell’orrido, del mostruoso, del folle, del sadico, del necrofilo, del demoniaco. Si vedrà allora come i cosiddetti maestri della modernità altro non sono che degli ossessi, dei demoni incarnati, e i loro seguaci, solo del bestiame umano, ebbro di sensazioni spaventose, umilianti, distruttive. Un esempio per tutti: l’apologia moderna della pederastia. Si può immaginare qualcosa di più degradante, di più umiliante, di più doloroso (anche in senso fisico) per un individuo sano e innamorato della vita?

Scrive, dunque, Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, al capitolo Scorribande di un inattuale, § 20 (da: F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli. Come fare filosofia a colpi di martello, a cura di Giorgio Brianese e Cristiana Zuin, Bologna, Zanichelli, 1996, p. 143):

 

Nulla è bello, solo l’uomo è bello: tutta l’estetica si basa su questa ingenuità, né è la sua verità PRIMA. Aggiungiamoci subito anche la sua seconda: nulla è brutto, tranne l’uomo CHE DEGNERA, - in tal modo è circoscritto il regno del giudizio estetico.- Secondo un calcolo fisiologico, tutto ciò che è brutto indebolisce e rattrista l’uomo. Gli rammenta la decadenza, il pericolo, l’impotenza; effettivamente egli ci pere in forza. Si può misurare l’effetto della bruttezza con il dinamometro. In genere, quando l’uomo è depresso, fiutala vicinanza di qualcosa di “brutto”. Il suo senso di potenza, la sua volontà di potenza, il suo coraggio, il suo orgoglio – tutto ciò cade con il brutto, si eleva con il bello… Nell’uno come nell’altro TRAIAMO UNA CONCLUISIONE: le sue premesse sono accumulate nell’istinto in enorme quantità. Il brutti viene inteso come segno e sintomo della degenerazione: tutto ciò che, sia pure alla lontana, ricorda la degenerazione, provoca in noi il giudizio di “brutto”. Ogni sintomo di esaurimento, di pesantezza, di vecchiaia, di stanchezza, ogni specie di non libertà, come spasmo o paralisi, soprattutto l’odore, il colore, la forma del disfacimento, della putrefazione, sia pure nel loro estremo assottigliamento in simbolo – tutto questo provoca un’identica reazione, il giudizio di valore “brutto”. Un odio qui insorge: che cosa odia lì l’uomo? Ma non c’è dubbio: IL TRAMONTO DEL SUO TIPO. Il suo odio proviene dal più profondo istinto della specie; in questo odio c’è orrore, prudenza, profondità, lungimiranza, - è l’odio più profondo che esista. E, a causa sua, PROFONDA  è l’arte…

 

Anche in questo caso, il “folle” ha visto giusto, assai più giusto - e assai più di quanto egli stesso, probabilmente, si rendesse conto - di tanti altri, che si credevano imbottiti di saggezza e depositari della verità. Verrebbe quasi voglia di considerarlo come l’ultimo uomo sano in un mondo di pazzi e di malati, ma un sano che ha contratto anch’egli la loro stessa malattia, per cui, mentre ne denuncia sia i sintomi, sia la causa, non si rende conto di scivolare lui per primo nella palude miasmatica e demoniaca dove il vero diventa falso, dove il giusto diviene ingiusto e dove il bello si trasforma in orrido. Del resto, la sua teoria della trasvalutazione di tutti i valori rivela fino a che punto fosse anch’egli malato, della stessa malattia che affliggeva l’Europa di fine ‘800; tragico destino, il suo: aver visto giusto, ma aver scambiato l’ultima luce di un mondo morente per l’alba di un mondo giovane e nuovo.

Veniamo alla conclusione. Diagnosticata la malattia, e individuata la sua causa, resta da formulare una prognosi. È una malattia mortale, la malattia dell’uomo moderno? Evidentemente, se la malattia è la modernità stessa, come abbiamo cercato di mostrare, e non solo in questa sede, ma in numerosissime altre occasioni, la prognosi non può che essere infausta. In altre parole, la modernità è un mattatoio dal quale non si esce se non dopo essere stati massacrati: non c’è remissione per alcuno; cambia solo il fatto di esservi condotti a suon di strappi, frustate e bastonate, oppure con l’accompagnamento di flauti e danze, il collo inghirlandato di fiori profumati. Il nostro antico nemico, il diavolo, è riuscito a realizzare i nove decimi della sua opera: a sospingerci, ora con le forza, ora – e più spesso – con le lusinghe, entro il recinto del mattatoio, dal quale non c’è più via di scampo. Pertanto, in termini puramente umani, siamo spacciati; e non ci sarebbe altro da dire. Tuttavia, quel ch’è impossibile all’uomo è possibile a Dio; quindi c’è ancora una cosa che possiamo fare: ravvederci, tornare in noi, pentirci di tutto il male che abbiamo fatto a noi stessi e ai nostri simili, alle nostre mogli e mariti, ai nostri genitori e figli, ai nostri amici e parenti, ai nostri vicini e colleghi, ai nostri studenti e apprendisti, e anche a quelli che, probabilmente, non conosceremo mai, almeno di persona, con gli esempi che abbiamo dato, con le cose che abbiamo fatto, detto e scritto; pentirci e domandare aiuto a Dio. Possiamo pregare, il che è molto; il che, in realtà, è tutto. Perché per quante cose possiamo fare, anche buone e giuste, senza la preghiera, non saremo capaci di perseverare, e il bene si cambierà in male, forse lentamente, ma inesorabilmente. Ricordiamo le parole del solo Maestro: State uniti a me come i tralci alla vite, perché da soli non potete far niente.