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Ottimisti disperati

di Marcello Veneziani - 11/07/2017

Ottimisti disperati

Fonte: Marcello Veneziani

Ha ragione Giuseppe De Rita a ritenere che il rancore e la nostalgia siano i sentimenti prevalenti nel nostro Paese.

Ha meno ragione a ritenere che tra quei due sentimenti ondeggi l’elettorato. E ancor meno ragione nell’identificare la linea politica del risentimento nel voto a grillini e leghisti. Da una parte, è vero, nel nostro paese la disaffezione al voto, la sfiducia, la rabbia alla fine si sono costituiti in rancore.

Un (ri)sentimento antipolitico ma che pure è nato dalla politica; il rancore non lo hanno “inventato” in politica i populisti, Grillo o Salvini. Ma esisteva in forma di odio politico contro Berlusconi, contro la destra, contro i valori tradizionali, contro il fantasma del fascismo.

E il principale impresario di quel rancore era, ed è, la sinistra, politica, culturale e mediatica. Lo stesso rancore che la sinistra doc sprizza verso la sinistra spuria, suscitando un rancore di ritorno nei renziani.

È vero che negli ultimi anni il rancore, combinato col vistoso peggioramento delle condizioni di vita, ha preso il posto di ogni cultura d’opposizione, spostandosi dal terreno politico al rifiuto antipolitico.

Il rancore emerge dalla rete, che è oggi il primo termometro del clima nazionale, visto il calo dei giornali, la disaffezione ai talk show e la fuga dai comizi, partiti, vita sezionale e tutto quanto un tempo incanalava i dissensi e i consensi.

Ma non si può dire che il rancore e la nostalgia siano il nuovo bipolarismo affettivo dell’elettorato italiano: il renzismo, per esempio, non rientra in nessuno dei due.

Possiamo chiamarlo vaniloquio vanterino, possiamo dire che è fumo e gag ormai di repertorio, tutto quel che volete; ma Renzi non chiede voti e non raccoglie voti nel nome del rancore né della nostalgia, ma del loro contrario. Di un vago, furbesco, presente che si fa futuro attraverso un’immaginaria riscossa italiana.

La realtà si esaurisce nel suo racconto. Ma in Renzi non c’è traccia di rancore né di nostalgia.

C’è poi da osservare un’altra cosa: è vero che quei due sentimenti sono oggi prevalenti nel nostro paese e a volta sono mescolati o alternati in una stessa persona. Però se il rancore si converte in voto, nei movimenti populisti e in una certa sinistra, la nostalgia resta alla fine un sentimento extrapolitico di fuga dal presente.

La gente distingue tra l’idealizzazione del passato e i loro surrogati di oggi. La gente non vota in memoria di un tempo dorato, nel ricordo dei vecchi partiti popolari, non vota a destra o a sinistra nel nome di Almirante e Berlinguer, o nel nome di Andreotti, Pannella e Craxi.

La nostalgia resta un sentimento impolitico, che può pesare su alcune frange marginali della sinistra e della destra ma non si converte in voto. La funzione che la nostalgia esercita in politica è solo al negativo: serve per screditare nel paragone la politica presente, i politici del momento, ma non serve a indicare nuove strade.

La nostalgia diventa il lievito del rancore, e quell’incontro potrebbe essere sintetizzato dal titolo di un’opera teatrale di Osborne, Ricorda con rabbia. Per convertirsi in sentimento politico pro-positivo dovrebbe avvenire quell’alchimia che muta il ricordo in speranza e che un tempo fu chiamata Nostalgia dell’avvenire.

Per superare il duo rancore/nostalgia occorre qualcosa di più del realismo, qualcosa che può essere definito solo con un ossimoro: ottimismo della disperazione, operosa sfiducia.

È inutile fingere ottimismo, simulare fiducia, bisogna spingere ad agire, a mobilitarsi, pur sapendo in che situazione siamo e in che condizione mentale e reale è la gente.

Realismo crudo motivato dal Mito. Miseria e nobiltà.