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Perché il divieto di apologia di fascismo è un atto fascista

di Alessio Postiglione - 12/07/2017

Perché il divieto di apologia di fascismo è un atto fascista

Fonte: linkiesta

Il disegno di legge Fiano, quello che rafforza il divieto di apologia di fascismo, non serve. E le buone intenzioni del Pd rischiano di lastricare le strade che portano all’inferno. Più che divieto di apologia, servirebbe infatti parresia di fascismo, cioè dire tutta l’amara verità sul fascismo - e, magari un po’ di apologia di marxismo -, cioè di analisi storica dei processi, per svelare veramente cosa il fascismo storico sia stato,dato che la sua negazione ne ha prodotto anche la mitizzazione.

In primis, lanciare una simile campagna politica per inertizzare un pirla o un bontempone che allestisce un lido di Chioggia con nostalgica paccottiglia (cinese e, dunque, comunista) è ridicolo. Reati sono i fatti, non le opinioni. Le opinioni possono costituire un aggravante, quando difendono e promuovono specifici comportamenti criminali. Tuttavia, l’atteggiamento pedagogico di chi propone lo Stato etico hegeliano, che stabilisce il giusto e lo sbagliato, le opinioni legali e proibite, le fake news e la Verità, è esso stesso fascismo (di sinistra), di marca Orwelliana: il fascismo antropologico dei difensori dello Stato eudemonologico, lo Stato che ti educa perché ha la presunzione di essere espressione della “volontà generale”, il cui compito è guidare il popolo verso il Sol dell’Avvenir (comunista) o il superuomo (fascista). Limitare la libertà in nome di una ideologia, quand’anche fosse buona, è esso stesso fascismo. Che lo Stato liberale si limiti a garantire la libertà e ad asfaltare le strade, visto che le palingenesi volte a creare “l’Ordine nuovo” si sono sempre tradotte nella stessa distopia, nonostante le diverse premesse di destra e di sinistra.

Lo Stato, invece, può e deve combattere la pulviscolare violenza concreta di frange di personaggi instabili, sottoproletariato in cerca di una identità, e marginalizzato nelle periferie, ma la lotta alle idee è inutile. La devianza sociale, infatti, ha sempre bisogno di legittimarsi ideologicamente e oggi fanno più danni la “cultura ultras” dello stadio o la religione, rivista e scorretta, altro che fascisti e comunisti.

Servirebbe apologia di marxismo, inoltre, perché agli immemori serve fare l’analisi storica: decostruire il fascismo storico, per archiviarlo realmente.

Prende piede, dovunque, infatti, il totalitarismo del politically correct, nuova manifestazione di quel fascismo antropologico che ha nella imposizione totale della verità la sua essenza.

All’Università di Princeton vogliono cancellare le dediche all’ex presidente USA, nonché rettore dello stesso ateneo, nonché padre del pensiero democratico, Woodrow Wilson, perché - illo tempore -, avrebbe legittimato la segregazione razziale. Nel frattempo, le femministe accusano di femminicidio la “Carmen” di Bizet. Fare la guerra a fenomeni del passato con gli occhi ideologici del presente è un errore, ed è la manifestazione di questa tendenza ad affermare verità totalitarie, sottratte alla discussione. I fenomeni vanno storicizzati, non aboliti per decreto. Serve parresia di fascismo, perché questo tipo di antifascismo ha prodotto la nostra Italia caciarona, dove esistono due tipi di fascismo: quello dei fascisti e degli antifascisti, come diceva Ennio Flaiano. L’Italia delle baruffe chiozzotte o dell’ammuina napoletana, che ha apparentemente proibito il fascismo senza analizzarlo.

All’Università di Princeton vogliono cancellare le dediche all’ex presidente USA, nonché rettore dello stesso ateneo, nonché padre del pensiero democratico, Woodrow Wilson, perché - illo tempore -, avrebbe legittimato la segregazione razziale

Dice Zeev Sternhell - massimo studioso della destra, “il fascismo non è stato, come nella famosa espressione di Benedetto Croce, “una parentesi” della Storia […] Il fascismo non può essere ridotto, come nella classica interpretazione marxiana, a una reazione anti-proletaria che si sviluppa in una fase di declino capitalistica”. Insomma, il fascismo non viene da Marte, ma ha dei prerequisiti culturali nella Storia del pensiero occidentale. Ma l’antifascismo conformista, con il quale molti intellettuali hanno costruito floride carriere, non volendo analizzarlo - perché avrebbero dovuto mettere a processo la storia della cultura occidentale, estrema sinistra compresa -, ne hanno favorito la mitizzazione, e mistificazione: una fascinazione, con la quale il “non detto” resta presente, come una pulsione carsica. Se, come diceva Brecht, dovevamo sederci dalle parti del torto, per essere anticonformisti, ecco perché molti giovani si sono seduti a destra, mentre il conformismo culturale del comunisti vietava una disamina serena del fascismo.

Perché, in fin dei conti, come hanno dimostrato studiosi come Sternhell o George Mosse, fascismo e comunismo hanno più cose in comune di quanto fascisti e comunisti siano propensi a riconoscere: a partire dal comune background del “sorelismo”, dice Sternhell. Entrambi prigionieri dello Stato hegeliano e totalitario, dall’idea di una verità deliberata dal Gran Consiglio o dal Soviet, entrambi ossessionati da nemici assoluti, in quanto appartenenti a una razza o a una classe.

Proprio perché in questi anni, alla fine, non abbiamo parlato di fascismo, alla fine non sappiamo bene manco cos’è: dunque, quale sua idea dovremmo vietare? Le idee sul sacro di Renè Guenon? L’antimodernismo di Evola? O il programma di Sansepolcro, che con buona probabilità andrebbe bene a tutta la sinistra operaista occidentale? Intendiamoci, il fascismo è stato un concreto regime sanguinario, in continuità con certe idee che esso affermava, così come il socialismo reale, esso stesso in continuità con certe idee marxiste. Ma come è impossibile vietare marxismo o tradizionalismo islamico, per combattere le Brigate Rosse o i jihadisti, lo stesso vale per l’estrema destra fascista o fascistoide.

Le idee si combattono con le idee. Massima severità contro le condotte violente, aggravate dall’apologia di reato. Ma la democrazia non può mai limitare se stessa in nome della democrazia.