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Colombo raggiunse l’America nel 1477?

di Francesco Lamendola - 14/07/2017

Colombo raggiunse l’America nel 1477?

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

E' possibile che Cristoforo Colombo abbia raggiunto l’America non nel 1492, ma nel 1477, cioè quindici anni prima della data “ufficiale”? Sì, è possibile; anzi, diremo di più: è addirittura probabile. E non si tratta nemmeno di una notizia sensazionale, di una rivelazione, di una scoperta: la notizia era già lì, sotto gli occhi di tutti; solo che nessuno sembra essersene accorto. Ipnotizzati dall’eterno dibattito se a scoprire l’America sia stato Colombo o se siano stati i Vichinghi, ci si è dimenticati che le imprese dei Vichinghi, Colombo le conosceva molto bene, per essersi recato in una delle terre da essi colonizzate, l’Islanda, e per esser da lì salpato verso altre terre, ancor più settentrionali: probabilmente, la Groenlandia. E, se la geografia non è una opinione, l’Islanda è ancora parte dell’Europa, ma la Groenlandia appartiene, fisicamente, al continente americano. Dunque, se Colombo giunse in Groenlandia, giunse anche in America, non nel 1492, ma nel 1477: quella dell’ottobre 1492 sarebbe stata, dunque, una “riscoperta” del continente che lui stesso aveva già “scoperto” (e salvi restando, naturalmente, i diritti dei Vichinghi, che vi giunsero prima di lui; e anche quelli dei monaci irlandesi, di san Brandano e i suoi compagni, i quali, forse, vi erano giunti prima ancora). In questo caso, la ferma convinzione di Colombo – che, sul momento, parve a molti temeraria – che, navigando sempre a occidente, dall’Europa si sarebbe giunti al “Catai” di Marco Polo (perché Colombo non ammise mai, neppure in punto di morte, e dopo ben quattro viaggi transatlantici, di avere scoperto un nuovo continente, ma ribadì sempre di essere approdato in Asia) aveva una base ancor più solida di tutte le teorie e le ipotesi geografiche e matematiche sinora tirate in ballo, a cominciare dalle teorie di Paolo dal Pozzo Toscanelli: e cioè il fatto che Colombo, quella terra, l’aveva già raggiunta, e sia pure alle estreme latitudini settentrionali, dove si presentava assai diversa da come l’aveva descritta il celebre mercante veneziano nel Milione.

Tutti conoscono i viaggi transatlantici di Colombo, quattro per l’esattezza, che diedero al navigatore italiano la celebrità mondiale e che, ancora oggi, sono oggetto di studio appassionato da parte degli storici delle esplorazioni marittime. Eppure, prima di quei viaggi, Colombo, quando aveva appena ventisei o ventisette anni, ne fece un altro, altamente spettacolare, che lo portò nelle acque fredde dell’Atlantico Settentrionale, fino all’Islanda, e ancora più a settentrione, profittando di un inverno straordinariamente mite e, perciò, con il mare libero dai ghiacci galleggianti (quei ghiacci che, nel 1912, avrebbero mandato a picco una nave poderosa e giudicata inaffondabile, come il Titanic), forse fino alla latitudine sbalorditiva di 78° gradi: il punto più settentrionale mai raggiunto da un navigatore europeo in direzione del Polo Nord. Di questo viaggio, però, poco si parla, e poco lo si è studiato: tutta l’attenzione degli studiosi e dei biografi del grande genovese è sempre stata rivolta in direzione dell’Ovest, cioè in direzione dell’America, il nuovo continente da lui scoperto suo malgrado; perché, come si è detto, fino all’ultimo ritenne, e ostinatamente sostenne, di essere giunto invece nelle isole prospicienti la costa orientale dell’Asia.

Quegli anni giovanili della vita di Colombo sono conosciuti a grandi linee, ma restano delle macchie bianche, per così dire, nella mappa ideale di una ricostruzione dettagliata e minuziosa della sua biografia; restano delle zone inesplorate di alcuni mesi, che lasciamo spazio ad ipotesi, anche affascinanti. Di una cosa siamo certi: il primo soggiorno di Colombo in Portogallo si colloca fra il 1476 e il 1478; e, nel corso di esso, egli partecipò a una spedizione commerciale genovese in Inghilterra, che per poco non si risolse in un disastro, a causa dell’agguato che le tesero alcune navi corsare capitanate, forse, da un suo quasi omonimo Coullon o Coulomb, ma il cui vero nome era Guillaume de Cazenove, noto anche come Colombo il Vecchio, signore di Varelme e di Masnil-Paviot, oppure da un altro Coullon, il greco Georgias Bissipat, entrambi al servizio del re di Francia Luigi XI. Comunque, Colombo riuscì a salvarsi, gettandosi a nuoto e guadagnando terra; qualche mese dopo salì a bordo di un’altra nave genovese e giunse  a Bristol, nel dicembre.

Secondo la studiosa francese Marianne Mahn-Lot (1913-2005), una fra i massimi esperti dei viaggi di scoperta dell’America, Colombo, dall’Islanda, avrebbe potuto raggiungere la costa orientale della Groenlandia, e, forse, spingersi più a Nord di qualunque altro navigatore europeo fino a quel momento, oltrepassando di molto il Circolo Polare Artico. Così ella scrive, alla voce Colombo, nel Dizionario biografico degli italiani, Treccani, 1982, vol. 27):

 

Forse potrebbe essere arrivato fino alla Groenlandia, approfittando di una temperatura clemente (“no estaba congelado el mar”). E lo storico danese V. Steffanson ha stabilito che l’inverno 1476-77 fu particolarmente mite (“Ultima Thule”, London 1942). Avrebbe raggiunti, allora, la latitudine enorme di 78° Nord, cime del resto lascerebbe supporre la decifrazione, eseguita da A. Bernardini-Sjoestedt (1961) di una nota apposta dal Colombo nel margine della “Historia rerum” di Enea Silvio Piccolomini che egli possedeva: un tratto orizzontale tra due punti seguito da “78” a significare la latitudine di 78° (si tratta, nel passo annotato, della Cina del Nord). Si tenga presente che la Groenlandia fu colonizzata dagli Scandinavi verso l’ano Mille e che le colonie cristiane vi erano cadute in decadenza nel sec. XIV. C’era stata anche una penetrazione vichinga nel “Vinland” (Terranova e regione vicina all’imbocco del San Lorenzo). Di tutto ciò era rimasto un certo ricordo nella memoria collettiva, che si combinava con il mito dell’isola “Brasil”, parola che in gaelico vuol dire “grande isola”. Su tutto il litorale atlantico si credeva all’esistenza di quest’isola: essa è disegnata, ad esempio, nel portolano genovese di Angelino Dalorto datato 1325-1330, dove figura collocata a sudovest dell’Islanda. A partire dal 1480 (poco dopo il passaggio del Colombo in questo porto), i marinai di Bristol intrapresero una spedizione l’anno per scoprire o riscoprire “Brasil”. Il Colombo lo sapeva certamente, come prova la lettera che un mercante inglese, John Day, gli indirizzò alcuni anni dopo (lettera rintracciata e pubblicata da L. A. Vigneras, in “Hisp. Am. Hist. Review”, XXXVI [1956], pp. 503-509): parlando di Giovanni Caboto che nel 1496 sbarcò su di un litorale sconosciuto, Day scrisse al Colombo che si trattava sicuramente di “Brasil”, già scoperta “in otros tiempos”, cioè molto tempo prima. Come che sia, dal 1477 il Colombo può aver concepito l’idea di un periplo ad Ovest: su uno dei suoi libri egli annotò ad esempio che a Galllway vide due cadaveri portati dal mare e che erano “uomini del Catai” (la Cina).

 

Colombo, dunque, al principio del 1477, era in Inghilterra e in Irlanda; di lì, immediatamente, senza nemmeno aspettare la primavera, si spinse fino in Islanda; e poi proseguì, con una nave, ancora più a Nord, giungendo forse in vista della Groenlandia, e risalendo il Mar di Groenlandia fino a toccare, come sembra, il 78° parallelo di latitudine Nord.

Ha scritto il saggista Gianni Granzotto nel suo fortunato libro Cristoforo Colombo (Milano, Mondadori, 1984, pp. 44-45):

 

… Era arrivato a Lisbona probabilmente nel settembre del 1476. E già nei primi mesi del 1477, fra gennaio e febbraio, prese imbarco su un convoglio carico di mercanzie che i Centurione e i Di Negro avevano di bel nuovo allestito per gli scali delle Fiandre., del’Inghilterra e dell’Islanda. In cima al mondo, insomma. L’Islanda era l’ultima delle terre, la Thule che gli antichi facevano coincidere con il limite del globo. Persino Tolomeo aveva incertezze nel collocarla in un punto che non fosse vago, nebbioso come i cieli del settentrione, ignoto alla maggior parte degli uomini sulla terra.

Colombo arrivò fin là, nel mare che chiamavano tenebroso. Forse si spinse anche oltre, se diamo credito a una nota citata da Las Casas nella quale Colombo dice: “Nel mese di febbraio 1477 navigai cento miglia oltre l’isola di Thule”. Dà anche conto delle latitudini, così come le aveva misurate. Non corrispondevamo a quelle riferite da Tolomeo per uno scarto di 10 gradi più a nord. E nemmeno – precisa Colombo – “questa isola si trova entro la linea che conclude l’occidente come dice Tolomeo, ma molto più verso ponente”. Lo impressionarono le maree, l’ampiezza del loro salto. “Quando mi recai colà il mare non era gelato, benché vi fossero grandi maree, tanto grandi che in alcune parti si alzavamo e si abbassavano di 25 braccia due volte al giorno”. La misura corrisponde a 12-13 metri, mentre in Islanda il massimo livello di marea cresce soltanto di 4 o 5 metri nei giorni di luna piena e di luna nuova. Colombo faceva qualche confusione, per esempio con Bristol, un porto dove approdò prima di procedere per l’Islanda. Nelle acque di Bristol le cifre che egli indica non sono esagerate.

                                                       

Una traccia del passaggio di Colombo per le Isole Britanniche e, poi, l’Islanda, è conservata nel libro di lord Dufferin, Lettere dalle latitudini nordiche (Letters from high latitudes), del 1856, ove si legge (Granzotto, cit., p. 46):

 

Si tramanda che nel febbraio del 1477 giunse a Rejkiavik con una nave proveniente da Bristol un marinaio genovese dal viso lungo e dagli occhi grigi, che si interessò in modo singolare su ogni cosa relativa all’argomento delle scoperte vichinghe.

 

Così, da parte sua, Leo Steiner – che, peraltro, non crede alla scoperta di altre terre, oltre l’Islanda, da parte del grande navigatore - , con una punta di accettabile inventiva romanzesca, ma senza nulla inventare di estraneo, ha rievocato questo capitolo affascinante, ma poco conosciuto della vita di Colombo, nella sua biografia Cristoforo Colombo (prefazione di Giulio Andreotti, Milano, Editoriale Del Drago, 1992, pp. 56-60):

 

… A interrompere quel primo soggiorno lusitano era giunto a Lisbona dopo Natale [del 1476], proveniente da Genova, il convoglio carco di mercanzie guidato da Matteo Doria e Paolo Di Negro. Cristoforo si era imbarcato come incaricato d’affari, riprendendo, a cinque mesi di distanza, il viaggio verso il Nord interrotto dai corsari di Coullon. Aveva così toccato e conosciuto i grandi porti fiamminghi e inglesi, Anversa e Rotterdam, Londra e Bristol. Ma non si era fermato lì, a quest’ultimo salo. Mentre la spedizione invertiva la rotta per far ritorno a Genova, lui aveva chiesto e ottenuto l’impegno di accompagnare, a bordo di un veliero inglese, un carico di legname, cereali, miele, vino e sale, diretto ad un porto lontano, molto più a settentrione, lassù nella remota Islanda, l’ultima Thule degli antichi, ai confini del mondo.

Da Bristol il veliero aveva fatto tappa a Galway, il porto più sicuro della costa occidentale irlandese, per staccarsene deciso, puntando dritto al Nord, all’Islanda, in pieno mare aperto, nelle distese settentrionali dell’Oceano, quel Mare Tenebroso  degli antichi, che già nel nome conteneva lo spavento di quelli che avevamo osato affrontarlo.

E spaventoso, di una violenza mai prima affrontata, era stato il fortunale incontrato alla fine della traversata, con la nave alla deriva, squassata da raffiche rabbiose senza un attimo di tregua, che saliva e scendeva lungo onde alte come colline. Finché all’alba del secondo giorno l’uragano s’era smorzato, quasi all’improvviso. Ed ecco che, mentre si appoggiava alla murata, sfinito, inzuppato d’acqua fino alle midolla, in quella subitanea calma del vento e del mare, Cristoforo aveva visto profilarsi all’orizzonte, contro una tersa lama di cielo ritagliava sotto la cappa delle nubi, l’oscura costa dell’Islanda. Nel rifiatare, dopo essersi prodigato più di trenta ore assieme a tutti gli altri alle manovre e alle pompe, per salvare il veliero dal naufragio, nel domandarsi una volta ancora perché mai avesse accettato e, di più, sollecitato l’ingaggio su una rotta così inusitata e pericolosa, gli era venuta per la prima volta una risposta più persuasiva di tutte quelle che si era dato finora. Da molto tempo conosceva la ragione prima di quel suo continuo viaggiare. Sapeva come i traffici e le merci – la lana, il legname, lo zucchero, il pesce secco o che altro – fossero sempre stato solo un pretesto: per imbarcarsi, navigare, sbarcare. Lo scopo vero era sempre stato, fin da ragazzo, l’andar per mare. […]

E mentre il veliero filava bordeggiando sottovento per raggiungere il fiordo d’approdo, il giovane navigante confrontava via via l’aspra concretezza visiva e sonora del sito – il fragore delle onde e il bianco netto delle schiume che si infrangevano contro le alte, silenziose scogliere color della pace – con le fumose informazioni che su quei luoghi boreali aveva sentito riferire nelle discussioni di Lisbona: di come cioè nell’estremo Nord del mare Oceano isole e terre progressivamente svanirebbero, trasformandosi in ammassi di fango, di polvere e di nebbie, in ghiacci natanti, in nubi di cenere…

Era evidentemente tutta una favola, un miraggio suggerito dall’ignoranza e dalla paura. Sicché nelle settimane seguenti, una volta sbarcato sul duro, compatto suolo lavico dell’isola, nell’andare in diversi luoghi per trattare affari e raccoglier notizie, sempre aveva cercato di ricostruire, dalle sue osservazioni e dai racconti dei residenti, l’insieme di fatti che potevano aver suggerito al primo esploratore dei luoghi, il greco Pitea, qui giunto due o tre secoli prima di Gesù Cristo, la descrizione che se stava all’origine di questa leggenda. Aveva cercato e trovato il passo riguardante l’isola di Thule, riportato da Strabone, in uno dei libri che aveva portato con sé: “Né terra, né acqua, né aria esisto qui distinte, ma è come una concrezione di queste: come una spugna marina in cui la terra, il mare e tutte le cose sono sospese, formando così un legame che unisce insieme il tutto”.

A spiegare razionalmente la favolosa descrizione dell’antico viaggiatore, lui aveva raccolto notizie sugli effetti delle frequenti eruzioni e sugli alti strabilianti fenomeni vulcanici dell’isola: violente piogge di sabbia, di polvere, di cenere e lapilli a oscurare il sole per giorni e giorni, a coprire il mare, a rendere irrespirabile l’aria; getti altissimi, a intervalli regolari, di acque bollenti e di vapori sotterranei, e così via… Insomma, fenomeni tutti riconducibili a cause geologiche, naturali, che svuotavamo di ogni credibilità quelle paurose dicerie sul Nord del mare Tenebroso.

Ma non era solo attorno alle leggende da sfatare che la curiosità e l’ingegno di Cristoforo lavoravano. Quella sua ansia, di giorno in giorno più viva di conoscere e annotare, al fine di completare nella mente la mappa del mondo conosciuto, dopo essere giunto ai suoi confini settentrionali – per circoscrivere così il mondo ignoto, quello che restava ancora da scoprire – gli faceva interrogare sull’argomento, senza stancarsi mai, quelli tra la gente del posto con cui riusciva in qualche modo a comunicare.

Specialmente dal prete danese di Havnarfjördur, la cittadina in fondo al fiordo d’approdo, col quale lui si esprimeva in un latino maccheronico, continuava a ricevere – in un latino ciceroniano dall’accento impossibile – notizie e notizie sule terre oceaniche scoperte a occidente nei tempi andati, a cominciare dall’anno mille, dai naviganti vichinghi. Scoperte di cui da secoli su tramandava la memoria nelle saghe e nei canti popolari.

Il giovane Colombo era venuto così a conoscere le gesta di Eric il Rosso e di suo foglio, Leif Ericsson, di Thorvald, di Thorstein, di Thorfinne d di Karlsefni e di tanti altri intrepidi navigatori. E a conoscere i nomi e le descrizioni delle isole e delle terre incontrate da quei coraggiosi sui loro vascelli leggeri come albatros, via via veleggiando verso l’ignoto Occidente; la Groenlandia, la terra verde; l’Helluland, la terra rocciosa; la Maekland, la terra dei boschi; e infine, ricca di viti selvatiche, la Vinland, la terra del vino.

C’era voluto andare lui stesso, sulle rotte dei vichinghi. Navigando per tre settimane a bordo di un peschereccio sul mare a ponente della grande isola boreale, in quell’inverno miracolosamente mite, senza che ci fossero ghiacci  a galleggiare sulle acque.

Terre non ne aveva incontrate. Ma il fatto di sapere che sicuramente esistevano, nascoste alla vista dietro l’orizzonte, dava al giovane navigante – in procinto di diventare cosmografo – una tensione, una eccitazione mai provata prima. L’impressione cioè di vedere con gli occhi della mente, nitidissimo  ciò che gli altri non vedevano…

 

Sulla via del ritorno, a Galway, sulla costa irlandese, si era poi imbattuto in un fatto concreto, inequivocabile, non in una semplice supposizione o una induzione: poco tempo prima, le onde avevano sospinto a riva due esseri umani, legati ai resti di una zattera, un uomo e una donna, morti, naturalmente, ma di bell’aspetto: ebbene, il colore della pelle e i tratti somatici erano del tutto sconosciuti in Europa e avevano destato non poco stupore in quelli che li avevano rinvenuti. Pare che lo stesso Colombo abbia avuto la possibilità di vedere quei due cadaveri, come riferisce la Mahn-Lot nel brano sopra riportato; o forse ne sentì solo parlare, come scrive Granzotto, a qualche tempo di distanza dal fatto, e come afferma anche lo Steiner, che parla di qualche mese prima. Ad ogni modo, quella era la prova tanto desiderata (e poi, tornato in Portogallo, seppe di un fatto analogo relativo all’isola di Flores, nelle Azzorre, dove erano stati trovati due cadaveri umani “dal viso largo”): non solo rami d’albero e pezzi di legno, forse lavorati dall’uomo, ma proprio degli esseri umani in carne e ossa, degli esseri umani che non erano originari di nessuna terra conosciuta, giunti sulla costa della più occidentale terra d’Europa: da dove potevano venire, quale poteva essere la loro patria, se non l’Asia orientale, le cui estreme propaggini dovevano trovarsi proprio in quella direzione, verso occidente, al di là dell’Oceano sino ad allora navigato? Evidentemente, una tempesta doveva aver afferrato la loro imbarcazione e averla trascinata con sé, per giorni e giorni, finché erano morti di fame e di sete, e li aveva gettati sulla spiaggia di Galway, facendo traversare loro tutta estensione dell’Oceano. E infatti, subito Cristoforo Colombo suppose che quei due poveretti fossero un uomo e una donna originari del Catai. Il fatto che fossero giunti in condizioni tali da poter essere ancora riconosciuti e giudicati nella loro sana e gradevole costituzione fisica, non significava se non che la distanza che separava l’Asia dalle coste occidentali dell’Europa non era così grande che una nave, o meglio, una flotta, appositamente attrezzata e con sufficienti scorte d’acqua e di viveri, non la potesse percorrere, in capo a qualche settimana di navigazione al massimo, col favore dei venti e delle correnti marine.

A partire da quel momento, Colombo cominciò ad essere certo del fatto suo: cioè di poter giungere al Catai, navigando per l’Occidente, in un tempo assai più breve di quel che nessun altro potesse immaginare. Parlava di quelle terre come se le tenesse sotto chiave nella sua stanza, osserva Las Casas nella sua celebre Historia de las Indias, al trentunesimo capitolo. Era quella sicurezza che stupiva tutti, e che suscitava, a seconda dei casi, incredulità o una specie di fascino magnetico: perché Colombo parlava come uno che avesse visto le coste dell’Asia, o come uno che avesse notizie certissime della loro posizione; mentre tutti gli altri che parlavano di quell’argomento, su cosa ci fosse di là dall’Oceano, vagolavano nel buio. Ebbene, le sue giovanili navigazioni nella parte più settentrionale dell’Atlantico possono aiutarci a spiegare quella sicurezza, che a tanti parve assurda sicumera. Perché Colombo sapeva che c’era  una grande terra al di là del mare, per il semplice fatto che c’era già arrivato