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I Giovani, le Donne, gli Omosessuali e i New Global nella società di mercato

di Paolo Borgognone - 16/07/2017

Fonte: geopolitica

L’antifascismo militante e terrorismo.

Come il regime del politically correct strumentalizza le minoranze globaliste

L’Unione europea, con le sue politiche improntate alla socializzazione conformistica di massa, tende a rimuovere le culture tradizionali dei popoli (considerate un ostacolo alla costruzione del mercato unico delle identità mercificate) e, contestualmente, a promuovere l’omogeneizzazione di moltitudini astratte, volutamente deterritorializzate (guai a parlare di patria originaria e di legami comunitari nell’Europa di banchieri e affaristi transnazionali), senza confini e standardizzate all’insegna di stili di vita, gusti musicali, abbigliamento e modi di comunicazione ormai identici a prescindere dalla nazionalità e dalla cultura di appartenenza dei singoli. La società del capitale asseconda mode create ad hoc sui canali mediatici postmoderni da parte delle classi professional del globalismo, della mercantilizzazione e della frammentazione di tutto ciò che può essere collocato all’interno di una nicchia di mercato. È il mercimonio delle identità, pensabile esclusivamente in un mondo che, ormai, ha messo tutto in saldo, in svendita. In particolare, quando, nei miei libri, effettuo rimandi alle classi professional del capitalismo cognitario contemporaneo che creano, ipso facto, i gusti e il tono di vita cui “Oi Polloi” (i molti, le nuove moltitudini alienate e spersonalizzate, ma va bene, in questo caso, anche la “traduzione” con “i polli”, ossia i poveri di spirito, senza offesa agli amici pennuti...) vanno adeguandosi, mi riferisco anche a quanto più sopra affermato. L’industria ultramilionaria del porno, ad esempio, crea i gusti sessuali dei suoi utenti, li manipola, ci costruisce sopra un trend, li adatta a diventare un marchio di consumo “pop” cui “Oi Polloi” possono affidarsi per dar libero sfogo a tutta una serie di repressioni della sfera erotica individuale suscitate ad hoc, nell’utenza, dalla fabbrica pubblicitaria della centrifugazione volontaria delle identità collettive. L’industria multinazionale del porno è oggi una sorta di vero e proprio oppio per le moltitudini frustrate, represse e spaesate, facente funzione di narcotico di massa per inibire ogni pulsione giovanile, virile, alla ribellione nei confronti del mondo così com’è. Naturalmente, quelle donne che, in maniera più o meno riflessiva, accettano, rinunciando alla propria sovranità di genere, l’assunto secondo cui «milf è diventato settore di consumo, fetta di mercato, pubblico di riferimento cui dedicare libri, film, canzoni, serie TV»[i], pensando magari che a ciò corrisponda un processo di emancipazione in quanto la milf postmoderna è finalmente “libera” di “fare sesso come gli uomini”, rappresentano i peggiori nemici (in questo caso, le peggiori nemiche) di chi, uomo o donna che sia, si batte per la concreta emancipazione di genere. L’emancipazione di genere è infatti presa di coscienza, individuale e collettiva, della necessità di combattere e rifiutare ciò che l’industria pubblicitaria e il mercato dei desideri costruiti ad hoc per “vendere, vendere, vendere”, propongono e impongono alla stregua di dispositivi volti a stabilire l’equazione, falsa e interessata, “progresso uguale modernizzazione dei costumi sessuali borghesi”. Il femminismo ha fallito, ed è ormai uno dei tanti dispositivi capitalistici di controllo e dominio sociale, nel frangente in cui ha delimitato nel momento dello shopping e del consumo sessuale più o meno bulimici gli spazi, pubblici e privati, di liberazione della donna da precedenti “vicoli patriarcali” di sorta. Il femminismo ha fallito nel frangente in cui è divenuto religione civile di integrazione di donne sedicenti “liberate” da presunti vincoli patriarcali e incatenatesi, ipso facto, a ceppi ben più difficili da sciogliere di quelli costituiti dalla civiltà borghese “vecchio stampo”, ovvero i ferri imposti dalla società liquido-moderna, di sradicamento, deprivazione e svilimento di ogni identità precostituita. Le donne sono, oggi, “liberate” nella stessa misura in cui si trovano a esserlo i Paesi sottoposti al protettorato amerikano seguito alle guerre coloniali spacciateci, dai corifei politico-giornalistici della società di mercato, come interventi “umanitari” per emendare quei Paesi, e quei popoli, dai presunti “dittatori antioccidentali” di turno... I frutti del femminismo come vettore di integrazione individuale nei dispositivi di comando e di controllo della free market democracy sono i seguenti: tu, giovane donna precaria, insicura e privata della tua sovranità politica, economica, culturale, alimentare e di genere, sei costretta, per tirare a campare, a lustrare le scarpe al padroncino di turno (indipendentemente dal genere sessuale di appartenenza di costui) ma, se lo desideri, puoi sposare la tua collega, ugualmente povera, precaria, umiliata e frustrata e, inoltre, se te lo puoi permettere, puoi vagabondare liberamente per ogni angolo del globo poiché la pseudo-cultura della mobilità ha sostituito, previo ed entusiastico consenso degli attori politici nominalmente deputati a difendere i diritti sociali collettivi, benefit e garanzie previsti, per i consociati, dallo Stato sociale moderno. Nel 1994, l’attore Paolo Villaggio ebbe a dire, commentando la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi e della sua coalizione: «Ormai è la fine della cultura di sinistra: per i tossici, le donne e gli omosessuali si può tornare indietro di vent’anni». Tossicodipendenti, femministe glamour e gay: ecco la triade sociologica cui la sinistra postmoderna aveva ormai indirizzato il proprio discorso pubblico... La fine della cultura di sinistra non fu dovuta alla vittoria elettorale di Berlusconi bensì alla metamorfosi della sinistra da partito dei diritti sociali collettivi dei lavoratori a movimento d’opinione dei ceti in qualche modo più affini ai nuovi stili di vita, di consumo e di desiderio dettati dalle logiche del globalismo e dalla catechesi dei cosiddetti diritti di libertà individuali. Insomma, il femminismo ha avuto la pretesa, e in larga parte vi è riuscito, di omologare e incorporare le donne nel perimetro della società neoliberista di mercato, dei consumi e dei desideri liberalizzati. L’industria multinazionale dei desideri e dei “gusti” sessuali liberalizzati strumentalizza gli esseri umani, uomini o donne che siano, per fini meramente economici, affaristici. All’ombra dei meccanismi di controllo sociale e di conquista delle coscienze individuali imposti dall’industria multinazionale dei desideri e dei gusti sessuali “liberalizzati” si consumano giganteschi processi di de-emancipazione e repressione di massa di un approccio sano, gioioso e, mi si permetta, epicureo nei confronti della sfera intima e affettiva. Anche gli omosessuali, così come le donne e le altre minoranze globaliste (studenti, lavoratori precari e nomadi, migranti, ecc.), venivano scientemente manipolati e strumentalizzati, a fini politici di consolidamento dello stato di cose presenti, da parte del regime del capitale transnazionale e degli intellettuali promotori dell’ideologia unica del politically correct. La consapevolezza sociale e di classe, infatti, regredisce all’avanzare del capitalismo e delle logiche tese alla mercificazione di tutto, sessualità compresa. Vorrei essere preciso a riguardo: omosessuale e gay non sono necessariamente sinonimi. Il gay, o meglio, global gay, è un adattamento dell’omosessualità ai codici postmoderni della società di mercato e l’atteggiarsi a global gay non è ipso facto connesso a una tendenza “omoaffettiva”… Non pochi omosessuali rifiutano, per se stessi, l’appellativo “gay” e non prendono parte, reputandole liturgie spettacolistiche di adattamento ai conformismi tipici di una società integralmente mediatica, a manifestazioni, come il gay pride, tese a celebrare lo sciovinismo dell’esistenza commerciale di chi, omosessuale o meno, interpreta la vita come una sorta di passerella ininterrotta sugli schermi televisivi o le bacheche di qualche social network. Secondo la mia opinione, i peggiori nemici degli omosessuali, oggi, non sono certo le normative russe che sanzionano, tra l’altro con pene pecuniarie, la “propaganda gay in presenza di minori” bensì i promotori, occidentali, delle politiche gender mainstreaming volte a favorire l’inserimento, l’integrazione, degli omosessuali nel perimetro, ormai sempre più tragicamente allargato, della società di mercato. In tale contesto, la nozione di “giudizio sociale” assume un valore fondante. In Russia, il giudizio sociale concernente la vulgata gay-friendly è negativo, mentre in Occidente è perlopiù positivo. Il giudizio positivo caratterizzante il metaracconto gay-friendly in Occidente si fonda su motivazioni riconducibili a lucrose prospettive di business per quel che concerne gli strati upper class, cognitari, knowlegde workers di fascia alta del comparto creativo della produzione materiale e immateriale del capitalismo di consumo e di desiderio e per ragioni aderenti agli esiti dei processi pubblicitari di conquista delle coscienze alle ragioni della vulgata open mindfunzionale a costituire la giustificazione colta nei confronti delle dinamiche proprie di un capitalismo brutale e sfruttatore per ciò che riguarda gli strati middle class-proletariatteledipendenti e privi di coscienza infelice. Perché, oso domandarmi, un omosessuale, per avvertire se stesso come “emancipato”, deve avvalersi di politiche indirizzate a incanalare il suo modo di essere e di pensare nell’ambito del mainstream? Negli anni Settanta, gli omosessuali erano orgogliosi di non essere come gli altri, oggi invece fanno a gara per essere come gli altri, per raggiungere la soglia massima di adattamento ai ritmi imposti dalla società di mercato, ovvero per cercare di avvicinarsi, il più possibile, allo stereotipo commerciale dell’homo globalis, cioè l’idealtipo antropologico veicolato dalle fiction televisive americane di apologia dello stato di cose presenti e dei suoi quadri ideologici (danarosi, sfruttatori e cosmopoliti). Celebrities della società dello spettacolo “made in Usa”, aziende multinazionali dei servizi, dell’e-commerce e dell’entertainment e associazioni LGBT più o meno equivoche si sono autopromosse a sindacato internazionale per la promozione delle politiche gender mainstreaming e ciò dovrebbe indurre gli omosessuali a una profonda riflessione sugli interessi economici che muovono il businessgigantesco celatosi al cospetto della vulgata politically correct riguardante la cosiddetta modernizzazione democratica dei costumi sessuali… Piuttosto che intonare il canto lamentoso riguardante la retorica del “matrimonio per tutti”, gli omosessuali dovrebbero, se veramente intendono portare avanti battaglie rivoluzionarie e di principio, condivisibili o meno ma indiscutibilmente oppositive rispetto a ciò che l’esistente propone e concerne, battersi per rivendicare la propria alterità rispetto ai gusti e alle abitudini stereotipate appannaggio del resto dei “consumatori” e contro l’istituto “borghese” del matrimonio… Gli omosessuali dovrebbero essere, a guisa, i più incazzati e i meno libertari di tutti, e invece si prestano, in larga parte, volontariamente e manifestando persino un certo qual entusiasmo esibizionistico in tal senso, alla serie di strumentalizzazioni a carattere prettamente neoliberale e sistemico cui sono creativi, soggetti e oggetti al contempo. Non è infatti lo Stato a dover legiferare per porre il veto allo svolgimento del gay pride. Sono gli omosessuali stessi che dovrebbero emanciparsi, denunciando la funzione squisitamente sciovinistica, spettacolistica e di adeguamento del gay pride, dall’egemonia esercitata, sul loro modo di essere e di venir percepiti nell’ambito dell’opinione pubblica generalista, dalla moda omologante costituita da questa sorta di americanata, di showesibizionistico a uso e consumo di TV, social network e business dell’entertainment. Gli stessi “valori europei” (european way of life) tanto cari alle élite del liberalismo transnazionale, nel cui seno il gay pride trova un posto di assoluto rilievo, non sono che una serie di prodotti pubblicitari di fruizione immediata, un volano per rilanciare ulteriormente i lauti guadagni scaturiti, per le corporations internazionali del consumo di mode e immagini a esse correlate, dalla produzione immateriale del capitalismo postmoderno. In altri termini, mi chiedo perché un omosessuale non possa conquistare il proprio diritto alla sovranità di genere fuori e non all’interno dei dispositivi di controllo sociale capitalistici (Gestell) predisposti ad hoc dai quadri ideologici del liberalismo totalitario contemporaneo per frammentare la società centrifugando, sistematicamente, ogni identità collettiva predeterminata. Il regime liberal-capitalista non vuole individui emancipati bensì atomi indistinti, anche a livello di consapevolezza di genere, dediti unicamente all’ideologia del denaro e al modo di essere centrato attorno ai diktat dell’esistenza commerciale. Comunque, per certi versi, le considerazioni di cui sopra saranno presto superate, di slancio, dall’avvento della fase suprema del globalismo, ossia il transumanesimo, che tenderà a sopprimere un’umanità ormai “di troppo” nel novero di una post-società integralmente annichilita dal dominio delle nuove tecnologie. Il transumanesimo sostituirà gli esseri umani con robot androgini e, infine, algoritmi e “intelligenze” artificiali… Dunque, addio forme, curve e sinuosità corporee, addio sessualità, sesso, piacere fisico e affettività… Tutto superato dall’avvento delle informazioni digitali (algoritmi, big data, ecc.) come surrogato degli esseri umani. Il transumanesimo è, oggi, come spiega il filosofo russo Aleksandr Dugin, propugnato da quelle forze, politiche e intellettuali, della Nuova Sinistra Globalista e Postmoderna, che interpretano l’abbattimento dei costi della comunicazione e i processi di modernizzazione tecnologica in atto come una sorta di apripista a scenari di palingenesi rivoluzionaria comunistica su scala mondiale:

[…] le tesi della Nuova Sinistra chiamano il sistema capitalistico globale “Impero” e lo identificano con il globalismo e il dominio mondiale americano. Secondo loro, il globalismo crea le condizioni per una rivoluzione universale, planetaria delle masse, che, sfruttando il carattere, appunto, “globale” del globalismo e le sue chance di comunicazione di ampia diffusione della conoscenza, creano un network per un sabotaggio mondiale, per una transizione dall’umanità (che spicca come soggetto e oggetto di oppressione, relazioni gerarchiche, sfruttamento e strategie impositive) alla post-umanità (mutanti, cyborg, cloni e virtualità) e la libera scelta del genere, dell’aspetto e del raziocinio individuale, a seconda della decisione arbitraria di ciascuno e per un periodo di tempo indeterminato. Negri e Hardt ritengono che ciò condurrà alla liberazione del potenziale creativo delle masse e allo stesso tempo alla distruzione del potere globale dell’“Impero” […]. L’intero movimento anti-globalizzazione ha proprio un simile disegno per il futuro […]. Molte azioni concrete – gay pride, proteste anti-globalizzazione, Occupy Wall Street, le dimostrazioni “di disturbo” degli immigrati nelle periferie delle città europee, i moti di ribellione degli “autonomisti” in difesa dei diritti degli occupatori abusivi, le diffuse proteste sociali dei nuovi sindacati (che ricordano un carnevale), il movimento per la legalizzazione delle droghe, i blitzecologisti e le proteste e così via – fanno parte di questo orientamento. Inoltre, il postmodernismo è uno stile artistico, che è diventato mainstream nell’arte occidentale contemporanea ed esprime proprio questa filosofia politica della Nuova Sinistra, entrando nella nostra vita attraverso le fotografie, il design o i film di Tarantino e Rodriguez, senza una preliminare analisi politico-filosofica, bypassando la nostra scelta consapevole e facendo breccia nelle nostre menti senza il nostro apporto di conoscenza o di volontà. Questo obiettivo è raggiunto mediante un generale ampliamento delle tecnologie di comunicazione virtuale, che per loro stessa natura implicano un invito implicito alla postmodernità, e la dispersione in frammenti edonistici, post-umani. SMS e MMS, blog e video, flash mob e altri passatempi abituali della gioventù contemporanea rappresentano la realizzazione “rovesciata” del disegno della Nuova Sinistra […][ii].

Il transumanesimo era il programma politico che il nuovo governo serbo, guidato da una gay dichiarata, Ana Brnabić, si prefiggeva per condurre la Serbia a divenir pare del tanto vezzeggiato «mondo globale»[iii] a egemonia culturale liberal. Il programma politico ventilato da Ana Brnabić verteva infatti su «digitalizzazione, start-up, nuove tecnologie. Priorità: apertura al mondo, digitalizzazione, Europa»[iv] intesa come adesione della Serbia alla Ue. Il programma neoliberista del nuovo governo serbo guidato da una premier lesbica e, guarda caso, graditissimo all’establishment di Bruxelles (non tanto perché esecutivo presieduto da una lesbica bensì in quanto esecutivo presieduto da un esponente politico risolutamente liberal-globalista), era chiaramente improntato ad acuire le diseguaglianze di classe interne al Paese, poiché tutto incentrato sull’apologia del capitalismo digitale che, si sa, produce perlopiù frammentazione, precarietà, lavoro sottopagato e costituisce l’esatto opposto rispetto a politiche industriali serie e tese al raggiungimento della piena occupazione. In Francia, fu Emmanuel Macron, un politico apertamente neoliberista e promotore di leggi tese a precarizzare ulteriormente la forza lavoro (mercificando ancor di più l’esistenza dei propri consociati ridotti al rango di sudditi deprivati), a farsi paladino, nella cultura, dei diritti cosmetici per le fasce sociali urbane, abbienti, gaie e open mind… Macron difendeva i capricci della upper class parigina che pretendeva di poter vantare un surplus di godimento ancor più cinico e illimitato dei cespiti prodotti dall’industria internazionale hi tech dei desideri liberalizzati e, contemporaneamente, colpiva duro contro i deplorablesappartenenti ai ceti operai tradizionali, periferici e autoctoni. Start-up e capitalismo digitale saranno anche termini, in parte neologismi anglofili, capaci di attirare, come un’esca fa col pesce, abboccamento da parte di fase sociali middle class attratte dalla retorica liberal concernente il nuovismo a ogni costo ma, sia chiaro, non generano occupazione di massa e condizioni salariali e di lavoro decenti per tutti. I lavoratori omosessuali, così come quelli eterosessuali, avrebbero subito, col programma neoliberista varato dal governo di Ana Brnabić, nuove e più traumatiche compressioni dei propri diritti sociali collettivi. Eppure, la comunità LGBT, sciovinistica com’era e per nulla interessata agli effettivi rapporti di forza interni alla struttura dio classe del capitalismo contemporaneo, esultò per la nomina, in Serbia, di un premier gay! La comunità LGBT è sciovinista e punta all’istituzione di un suprematismo postidentitario globale a carattere prettamente gay-friendly, e non ripone alcun interesse nei riguardi delle questioni inerenti la giustizia economica in un mondo egemonizzato dal neoliberismo. Di più: è lecito pensare che la comunità internazionale LGBT si configuri come liberal-globalista nella cultura e come neoliberista in economia poiché in grado di ravvisare, in una società frammentata da macroscopiche sperequazioni quantitative per censo, i prodromi di una più facile penetrazione di strategie mediatiche, pubblicitarie, tese a inverare quel caos morale di cui i sostenitori del suprematismo postidentitario gay-friendly sono profeti incalliti. Pertanto, gli omosessuali che hanno a cuore le sorti delle classi lavoratrici in quanto tali, dovrebbero assumere le distanze dalle associazioni della “nuova sinistra LGBT”, perlopiù soggetti politici sciovinisti, settari e promotori del globalismo imperialista, neoliberista e sradicante. La “nuova sinistra LGBT” è l’internazionale del liberalismo culturale, del globalismo, dello sciovinismo femminista e gay-friendly e del post-umano. I suoi interpreti principali sono i promoters, a vario titolo, dell’ideologia del nomadismo, della digitalizzazione del lavoro e della delocalizzazione permanente di tutto ciò che, in qualche modo, può essere allocato sul mercato come bene fruibile e passibile di un valore di scambio e d’uso. I quadri ideologici della “nuova sinistra LGBT” spaziano dalle leadership attuali dei partiti liberaldemocratici, socialdemocratici e della sinistra radicale di Usa e Paesi della Ue in politica, ai VIP dell’entertainment e dell’infotainment nella cultura (dai pagliacci colti sedicenti “intellettuali di sinistra” con cattedra universitaria incorporata, fino all’ultima starlette e socialite del circuito transnazionale di MTV) fino ai colossi del web e dell’e-commerce in economia. Il giornalista Fabio Torriero ha illustrato in maniera ineccepibile, con le parole che seguono, la connection ultracapitalistica realmente esistente tra liberalismo culturale all’origine del varo di politiche gender mainstreaming nei Paesi occidentali e major americane della new economy globalizzata, sfruttatrice e de territorializzata:

Il liberalismo, nel momento in cui si definisce tramite dell’esigenza della deregulation e della de-istituzionalizzazione di ogni attività umana, è il progetto politico di smantellamento dell’ordine e della legge e in questo uno dei più potenti motori del nichilismo. Il gender pertanto è figlio del capitalismo liberale […]. Dulcis in fundo, un’ultima annotazione: quando il business economico coincide col progetto ideologico globalista-libertario (non-luogo, non-popoli, non-uomini). Chi sono i principali finanziatori, sponsor del gender e della lobby LGBT? Quelle centrali, quelle oligarchie che, decenni fa, hanno contribuito finanziariamente alla diffusione del femminismo e alla liberazione sessuale sessantottina. Eccoli, sono sempre gli stessi: Goldman Sachs, JP Morgan, George Soros, Kodak, Apple, Merril Lynch, Motorola, Pepsi, Toyota, Fondazione Playboy, Amazon, Bill Gates, etc. Come volevasi dimostrare[v].

Gli omosessuali dotati di un minimo di autostima e senso critico possono veramente pensare che una banca d’affari privata internazione come Goldman Sachs, uno speculatore senza scrupoli come George Soros e una multinazionale dell’e-commerce esclusivamente devota all’ideologia del massimo profitto da ottenersi estorcendo il più elevato surplus di pluslavoro in termini relativi e assoluti dai suoi dipendenti come Amazon possano davvero battersi, disinteressatamente, per la causa concernente l’emancipazione di genere? Le centrali oligarchiche globali del denaro hanno come obiettivo principale lo sfruttamento fino all’estinzione del genere umano e finanziano unicamente quei comportamenti individuali connessi con, e strumentali alla, «società radicale di massa, totalmente ateizzata, secolarizzata e laicizzata. E disumana»[vi]. Le centrali oligarchiche internazionali del denaro non vogliono “più diritti per tutti” bensì più capacità performativa per i potenziali acquirenti dei loro prodotti (materiali e digitali). La rivoluzione “globalista” propugnata dalla setta messianica internazionale rispondente al nome di Nuova Sinistra non è altro, alla prova dei fatti, che una controrivoluzione di moltitudini cosmopolite, gadgettizzate e “colorate”, avente per obiettivo quello di radicalizzare, fornendo al contempo a siffatte dinamiche una copertura ideologica intellettualoide e pseudo-democratica, i processi di transizione al postumanesimo propri delle élite cognitarie, transnazionali e transgender, che creano e determinano il modo di produzione, speculativo, del capitalismo contemporaneo. Per cui, stante lo scenario ivi descritto, credo che ogni persona di buona volontà, a prescindere dai propri gusti in fatto sessuale, dovrebbe combattere una battaglia di resistenza culturale ed esistenziale contro il mondo così com’è e così come sarà, sfidando apertamente la società di mercato, il dominio delle nuove tecnologie di comunicazione digitale di massa sulle coscienze dei singoli e il politically correct. Il regime liberaldemocratico globalista contribuisce a veicolare presso le nuove generazioni, attraverso i dispositivi di costruzione del consenso propri della società dello spettacolo, stili di vita e modi di pensare e consumare perfettamente funzionali a rammollire e a narcotizzare, nel vuoto a perdere del nichilismo più spinto, ogni pulsione giovanile alla (giusta peraltro) rabbia ribellistica contro il sistema. Oggi come negli anni Settanta del XX secolo, è l’antifascismo, quarant’anni fa declinato nella sua variante “militante” e oggi coniugato in un’accezione più propriamente commerciale, ossia adeguata alle esigenze di comunicazione tipiche della società liquido-moderna, a costituire uno tra i principali dispositivi ideologici creati e utilizzati dalle classi dominanti per costruire la gabbia di acciaio in cui imprigionare le velleità antisistemiche a vario titolo ancora presenti in determinate fasce sociali pauperizzate e in alcuni frammenti di elettorato giovanile. Negli anni Settanta del XX secolo l’antifascismo fu il principale viatico politico-culturale di legittimazione del regime democristiano e della strategia di “caccia al fascista” posta in essere dai servizi d’ordine e di sicurezza dei gruppi della sinistra pseudo-rivoluzionaria cui la narrativa DC di interessata denuncia del cosiddetto “estremismo nero” aveva offerto, sul piatto d’argento, una importante sponda e copertura politica tesa a sedimentare e consentire l’agire indisturbato delle logiche di guerra civile interna alle giovani generazioni dell’epoca. La DC prese a denunciare il cosiddetto “estremismo nero” nel momento in cui il MSI, rafforzando le proprie posizioni sulla scorta del varo del progetto almirantiano della Destra nazionale riformista, perbenista, atlantista e in doppiopetto, si apprestò a ricoprire il ruolo di potenziale competitor, da destra, dell’egemonia politico-elettorale democristiana nei confronti delle classi borghesi sostenitrici di politiche law and order funzionali alla perpetuazione dei propri privilegi economici e di status. La DC tacciò il Movimento Sociale Italiano di rappresentare una sorta di fucina di “squadristi” proprio nel momento in cui questo partito, inaugurando una fase politico-programmatica cosiddetta di “inserimento nel sistema” democratico-borghese, rischiava di insidiare l’egemonia politico-affaristica esercitata dal ceto dominante democristiano sulla società politica italiana. In questo senso, la teoria degli opposti estremismi come fattore di potenziale destabilizzazione, da destra e da sinistra contemporaneamente, degli equilibri di sistema e dei rapporti di forza gestiti dalla Democrazia Cristiana e dai suoli alleati filoamericani di centrosinistra (PLI, PRI, PSDI e, sebbene in posizione ogni tanto più defilata, PSI) fu elaborata dall’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, ossia dal servizio segreto civile, allo scopo di puntellare, manipolando e strumentalizzando le rivendicazioni ribellistiche dei giovani di destra e di sinistra, il regime capitalistico-assistenziale e atlantista incarnato da DC e vassalli “laici”. Negli anni Settanta, la DC e i servizi segreti italiani, di provata fedeltà atlantica, alimentarono, attraverso il varo della teoria degli opposti estremismi, la guerra civile tra giovani di sinistra e di destra, al preciso scopo di scongiurare possibili convergenze antisistemiche, passibili di minare alla radice il potere costituente del regime, tra militanti ribelli appartenenti a schieramenti ideologicamente eterogenei (e per molti aspetti finanche inconciliabili) ma inclini alla critica sociale dei rapporti di forza e della struttura di classe esistenti. La DC e i servizi segreti, negli anni Settanta, strumentalizzarono i giovani per i propri fini politico-affaristici, mandandoli al macello in una serie di sanguinari e raccapriccianti episodi di guerra civile intergenerazionale, esattamente come, oggi, le classi dominanti del globalismo imperialista strumentalizzano i nuovi ceti affluenti della mondializzazione liberale (teenager, studenti internazionali, migranti permanenti, precariato cognitario, donne sedicenti disinibite e in carriera, omosessuali, ecc.) per promuovere ulteriormente l’espansione del capitalismo speculativo e della società di mercato. Lo storico Massimiliano Capra Casadio riassunse, avvalendosi tra l’altro dell’importante testimonianza del professor Giorgio Galli, il percorso di costituzione della teoria degli opposti estremismi e dell’avvento, conseguente, della stagione dell’antifascismo militante:

Si era cristallizzata, in sostanza, la teoria degli opposti estremismi, «ossia del pericolo che per le istituzioni democratiche veniva indistintamente da destra, come da sinistra», che era stata «elaborata in seno all’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno» […]. Per usare le parole di Giorgio Galli, la teoria degli opposti estremismi esaltava la «centralità equilibrata della DC», ma rispondeva anche a una necessità speculare sia del governo di centro che dell’opposizione di sinistra, entrambi interessati a «riprendere la denuncia del “neofascismo” come fonte del disordine: il primo per indebolire il MSI e ottenere il consenso dei settori moderati […]; la seconda per imputare soprattutto alla DC e ai “servizi” la tolleranza verso l’estremismo di destra da Piazza Fontana in poi», con la conseguenza che questo modello di interpretazione del conflitto politico avvallò «la convinzione che vi [fosse] un pericolo autoritario potenzialmente fascista da fronteggiare e che quindi “l’antifascismo militante dei servizi d’ordine della nuova sinistra [avesse] una funzione positiva» […]. Nacque in questo modo la stagione dell’antifascismo militante, percorsa da un’ideologia alimentata da una campagna condotta dal 1974 dalle formazioni extraparlamentari e da alcune organizzazioni sindacali per raccogliere le firme a sostegno del procuratore Luigi Bianchi d’Espinosa nel suo impegno per ottenere lo scioglimento immediato del MSI, e interprete di un sentimento diffuso destinato ad acuire in maniera sempre più profonda la sensazione di isolamento dei missini rinchiusi nel proprio ghetto, che si riassumeva negli slogan violenti e provocatori urlati nei cortei: «uccidere un fascista non è un reato»; «le sedi missine si chiudono con il fuoco, con i fascisti dentro se no è troppo poco»; «il MSI fuorilegge ce lo mettiamo noi e non chi lo protegge». Per usare le parole di Luca Telese, per «una intera generazione di militanti l’idea che i fascisti» dovessero venire «combattuti e schiacciati con ogni mezzo» era divenuta «gradualmente una verità indiscutibile e acclarata»[vii].

L’antifascismo militante fu in un certo qual senso propedeutico a legittimare e a conferire agibilità alla teoria, di matrice centrista e governativa, degli opposti estremismi e, contemporaneamente, contribuì, ennesimo caso di eterogenesi dei fini intrinseco alla prassi del frammentato movimento internazionale dei lavoratori, a gettare discredito sull’intera area politica della sinistra che l’opinione pubblica moderata tendeva ormai semplicisticamente a equiparare alle frange staliniste interne ai servizi d’ordine dei gruppi extraparlamentari. Il movimento della “maggioranza silenziosa”, odioso agli occhi dei ceti intellettuali della sinistra che si pretende custode unico dei valori democratici fondanti la repubblica cosiddetta antifascista, sorse in risposta al clima di terrore scaturito dall’agire indisturbato dei gruppi animanti la stagione criminale e per molti aspetti “eterodiretta” dell’antifascismo militante. La sinistra uscì politicamente a pezzi dagli anni cosiddetti di piombo e fu responsabile della propria sconfitta in quanto cercò, ostinatamente, il dialogo e l’accordo politico, in stile CLN, con le forze (cattoliche e laico-socialdemocratiche) che erano maggiormente interessate all’estinzione di una prospettiva politica di alternativa avente, come suo fulcro programmatico, la fuoriuscita dell’Italia dagli equilibri di potere internazionali stabiliti dal Patto Atlantico. I reiterati tentativi delle forze di sinistra di contaminarsi con i soggetti politici espressione, a vario titolo, del liberalismo e del riformismo-assistenzialistico italiota hanno accelerato i processi di crisi di identità ideologica dei partiti socialisti e comunisti europei, tant’è vero che, nella fase attuale, come scrive il filosofo russo Aleksandr Dugin, il marxismo «è divenuto, in pratica, l’“ideologia di riserva” dell’Europa occidentale»[viii] e l’antifascismo si risolve a ricoprire il ruolo di giustificazione per semi-colti (knowledge class) dei prodotti di consumo mediatico posti in circolazione dalla fabbrica mainstream della delegittimazione dei nemici della mondializzazione capitalistica. L’adesione degli intellettuali, dei quadri e dei militanti della sinistra alla catechesi antifascista di integrazione democratica di massa impedì ai soggetti politici più marcatamente interessati a un profondo rinnovamento della tradizione del socialismo italiano (mentre i giovani dell’epoca si scannavano e il regime capitalistico-assistenzialista si rafforzava talmente fino a ristrutturarsi nel novero di un cambio di paradigma che lo svincolò da ogni limite compromissorio di sorta) di farsi interpreti di un confronto serio, articolato e di lungo periodo, con quelle forze della destra (Nuova Destra) emancipatesi dall’abbraccio mortale con il perbenismo, l’atlantismo e il conformismo del MSI almirantiano e dalla galassia organizzativa dei gruppi «fascisti antisistema a difesa del sistema»[ix]. D’altronde, la categoria politica di “destra” non può essere in alcun modo interpretata in senso univoco e la lezione impartita, in merito, sin dalla seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, da Alain de Benoist e dal nucleo di intellettuali anticonformisti gravitanti attorno all’orbita del GRECE (Groupement de Recherche et d'Études pour la Civilisation Européenne), è preziosa e inequivocabile[x]. L’antifascismo è invece, oggi, una vera e propria religione identitaria neoliberale, conformista e a convenienza, costituita, nella propria variante più interessatamente volta alla mobilitazione politica di residui gruppi militanti appartenenti alla frastagliata e polverizzata famiglia politica della sinistra pseudo-rivoluzionaria, da una serie di riti e liturgie di giustificazione dell’esistenza di micropartiti supercomunisti e a vario titolo corrosi da un’insopprimibile vena di settarismo, come “baluardo democratico” contro ogni possibile “scivolamento a destra” della società. Il sociologo francese Christophe Guilluy ha, da parte sua, sottolineato l’aspetto della retorica antifascista (peraltro in totale assenza di fascismo) più marcatamente teso a legittimare lo status quo neoliberale e ultracapitalistico. Guilluy definisce infatti l’antifascismo odierno, di matrice liberal-progressista, un’arma di classe brandita dai ceti dominanti, agiati, cosmopoliti e glamour, per delegittimare gli avversari della globalizzazione unipolare e per consolidare lo stato di cose presenti attraverso la sistematica colpevolizzazione, attraverso l’uso politico e selettivo della memoria storica, di ogni forma di organizzazione improntata alla resistenza e alla ribellione nei confronti del mondo così com’è. La «retorica dell’antifascismo in stile Anpi, che viene diffusa in funzione meramente propagandistica e in assenza di ogni analisi rigorosa […] viene usata in chiave strumentale per assicurarsi una copertura a sinistra in assenza di fascismo stesso, sfruttando una sorta di riflesso pavloviano che scatta nelle menti di quasi tutti i simpatizzanti di questa parte politica»[xi]. Quella concernente l’antifascismo in assenza di fascismo è infatti una narrativa strumentale a effettuare, da parte dei ceti politico-intellettuali che la veicolano, «un’apologia del liberalismo»[xii] avente il preciso scopo di legittimare, come processo di «rinnovamento»[xiii], lo «spostamento a destra»[xiv], in materia economica, di una sinistra cosiddetta di governo impegnata, più che altro, sul fronte della «prassi politicista della cooptazione e del riciclaggio più spudorato»[xv]. Il filosofo Stefano G. Azzarà ha scritto parole molto interessanti riguardo l’estinzione di una parte politica, la sinistra, antifascista a convenienza ma ultratlantista, conquistata alla retorica liberale concernente il primato della società civile e della cittadinanza globale nei confronti di ogni precedente riferimento ai diritti sociali dei lavoratori delimitati all’interno delle strutture e delle istituzioni democratiche caratteristiche dello Stato nazionale moderno e divenuta, nei fatti, interlocutore privilegiato dei ceti sfruttatori riconducibili all’alveo della destra finanziaria internazionale:

[…] la sinistra italiana non muore affatto oggi con la vittoria di Matteo Renzi e la calata dei suoi barbari deculturati e opportunisti […]. La sinistra italiana ha cominciato a morire molti anni fa. Quando, in seguito a un cambio di fase del modo di produzione capitalistico e a una sconfitta strategica di proporzioni rivelatesi bibliche, invece di fermarsi a ripensare le proprie ragioni e le nuove forme possibili del conflitto politico-sociale in Occidente ha preteso di governare processi molto più forti di lei, confidando nelle virtù salvifiche di una cittadinanza che però nulla è e nulla può senza la forza del lavoro. Processi che erano causa e conseguenza a un tempo della tragedia dei propri ceti sociali di riferimento e di nuovi terribili rapporti di forza tra le classi. E che mai il mito anglosassone della società civile e delle pari opportunità, né tanto meno quello di un’inutile governabilità fine a se stessa, avrebbero potuto domare[xvi].

L’antifascismo codificato e veicolato dalle celebrities intellettuali occidentali si colloca interamente all’interno di quel «mito anglosassone della società civile» perfettamente aderente ai, e funzionale coi, piani imperialistici neocon tesi a suscitare insurrezioni “colorate” in quelle aree del globo i cui popoli si rivelano restii a farsi domare dall’idra neocapitalistica a stelle e strisce. Gli studenti che, nei Paesi della Ue, manifestano contro il “fascismo” di Trump, Putin e Marine Le Pen, inneggiando al contempo ai miti mediatici giovanilistici scaturiti dalla fiction occidentale relativa alla costruzione, ad hoc, di attori politici e sociali (dalle ONG ai singoli agenti “sorosiani” camuffati da giornalisti, dottorandi, professorini e mecenati smaniosi di favorire l’abbraccio tra i popoli coloniali e l’Occidente “democratico”) meglio noti come freedom pushers all’estero, non fanno altro che immolarsi politicamente sull’altare dei signori, multimilionari, del capitalismo liberale e della società sciovinistica di mercato. Riassumendo, l’antifascismo, nella sua accezione “militante” (supercomunista) così come nella propria declinazione più segnatamente liberale di sinistra è, oggi, il fattore ideologico alla radice della narrativa clintoniana sui deplorables e i gruppuscoli sedicenti rivoluzionari che se ne fanno interpreti e latori prestano sostanzialmente il fianco ai propositi, neoliberali, di tale metaracconto di apologia dell’esistente posto in essere dai ceti organizzatori e gestori della società nichilistica di mercato. Personalmente, se mi si permette questa chiosa, sono convinto, sulla scorta di quanto scrive il sociologo Roberto Pecchioli, che, oggi, come alternativa alla società radicale di massa, occorra «un’idea nuova per il Terzo Millennio»[xvii], lontana dai nostalgismi nei confronti del fascismo storico novecentesco così come nei riguardi di ogni forma di messianismo, sia esso liberale o comunistico. Credo che la Quarta Teoria Politica, o 4TP, (né liberale, né fascista, né comunista, ma tradizionalista e fautrice della democrazia organica) concepita dal filosofo russo Aleksandr Dugin possa rappresentare, al meglio, l’Idea Nuova di cui sopra[xviii], un’idea che si colloca, inevitabilmente, al di là dell’obsoleta dicotomia eurocentrica sinistra/destra (un’antitesi, quest’ultima, funzionale esclusivamente a perpetuare i rapporti di forza e di classe imposti dalla società liberale tecno-mercantile). E penso anche, con Dugin, che la Quarta Teoria Politica sia caratterizzata dal «rifiuto di qualsiasi tipo di nazionalismo, sciovinismo, eurocentrismo, universalismo, razzismo o atteggiamento xenofobo»[xix]. La Quarta Teoria Politica, infatti, respinge il nazionalismo borghese proprio della “vecchia destra” e si rifà, nella cultura, alla lezione, feconda e intramontabile, della Nuova Destra (Nouvelle Droite) metapolitica sorta in Francia[xx], attorno agli intellettuali radunati nel GRECE a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta del XX secolo[xxi]. La Quarta Teoria Politica, scrive Dugin,

è contro qualsiasi tipo di universalismo, e respinge ogni tipo di eurocentrismo, sia liberale che nazionalista […].La storia europea è stata sempre basata sulla pluralità delle sue culture e sull'unità delle sue autorità spirituali. Questo è stato distrutto, prima dalla riforma protestante e poi dalla modernità. La liquidazione dell'unità spirituale europea è stata parte dell'origine del nazionalismo europeo. Pertanto la 4TP sostiene l'idea di un nuovo impero europeo come impero tradizionale con un fondamento spirituale, e con la coesistenza dialettica di diversi gruppi etici. Invece degli Stati nazionali in Europa, un impero sacro: indoeuropeo, romano e greco […]. La 4TP afferma che la geopolitica è lo strumento principale che può essere utilizzato per comprendere il mondo contemporaneo. Quindi l'Europa dovrebbe essere ricostruita come una potenza geopolitica indipendente. Tutti questi punti coincidono con i principi fondamentali della Nuova Destra francese e con il manifesto del GRECE di Alain de Benoist. Pertanto dobbiamo considerare la Nuova Destra Europea come una manifestazione della 4TP[xxii].

A livello squisitamente politico, come sostenitore della 4TP, non mi reputo in alcun modo un simpatizzante di regimi o partiti contigui alla prospettiva etnonazionalista di “vecchia destra”. Dico di più: contrariamente ai deputati del PD, in gran parte fieri sostenitori del regime nazi-atlantista di Kiev (e dunque antifascisti prettamente a convenienza), mi schierai, apertamente e sin dal 2013, contro il golpe neonazista postmoderno che, nel volgere di pochi mesi, consegnò l’Ucraina mani e piedi alla Nato e all’Ue felici di accogliere, nel proprio seno, un Paese in cui i “nazi” incendiavano sedi del Partito comunista, picchiavano a sangue e massacravano i militanti cosiddetti filo-russi (strage di Odessa, Casa dei Sindacati, 2 maggio 2014) e inauguravano spedizioni militari punitive nel Donbass per reprimere, con le armi, la ribellione della popolazione russofona e antifascista della regione... In Ucraina la giunta di Kiev ha messo fuorilegge, per decreto, il Partito comunista ucraino (KPU) ma la Ue non ha avuto alcunché da ridire in merito. Alla Ue, e ai suoi vertici politico-affaristici, interessa soltanto che nei Paesi del blocco ex sovietico si celebrino, in perfetto “ordine”, le parate conformistiche e giovanilistiche del gay pride per la piena integrazione degli omosessuali nella società di mercato. Per la Ue democrazia è ormai sinonimo di gay-friendly. Fatta questa precisazione, esprimo un giudizio nettamente negativo sulla recente proposta di legge piddina volta, nelle intenzioni, a “proibire l’apologia di fascismo” in Italia. Si tratta infatti di una proposta di legge più fascista delle idee fasciste che vorrebbe reprimere, sostenuta unicamente da quel ceto intellettuale “de sinistra”, mainstream, sostanzialmente ignorante e cooptato che, all’ombra dell’antifascismo conformistico e a convenienza di cui sopra (l’antifascismo che strilla contro il “fascista” Putin ma plaude ai nazi-atlantisti di Kiev, definendo sfacciatamente costoro “giovani rivoluzionari” e “democratici europei”), ha costruito carriere universitarie lautamente retribuite e moderatamente prestigiose. In altri termini, il mio giudizio storico, negativo, sull’operato (soprattutto in termini di politica estera, coloniale, e di politica interna, ispirata a un nazionalismo borghese, savojardo e sostanzialmente liberale) del regime fascista mussoliniano (1922-1943) è direttamente proporzionale alla mia valutazione, altrettanto negativa, nei confronti di una legge, quella in questione, strumentale al compimento di due obiettivi politici ben precisi quanto contingenti: 1) consentire al PD di rifarsi una “reputazione” mediatica democratica e “antifascista” dopo le dichiarazioni para-populiste di Renzi in tema di immigrazione nel luglio 2017; 2) costituire il nefasto prologo di successivi provvedimenti repressivi nei confronti di qualsivoglia manifestazione di pensiero critico e in contraddizione rispetto ai rapporti di forza neoliberali esistenti. Ergo, al PD importa nulla di proibire i simboli “fascisti” altrimenti, è utile ripeterlo, questo partito non si sarebbe schierato a favore delle forze ultranazionaliste e di estrema destra (ma, guarda caso, filo-Nato) nel contesto della crisi ucraina. Al PD interessa “far politica” badando bene di sanzionare, a tappe successive, per via legislativa, tutte quelle forme di pensiero incompatibili con la catechesi postmoderna, veicolata dagli intellettuali “de sinistra” mainstream, centrata attorno all’ideologia dei “diritti di libertà” di un individuo astratto e fondamentalmente americanocentrico. Anzi, il PD aveva tutto l’interesse a che i critici delle politiche neoliberali della Ue esponessero, nel contesto dei loro raduni e convegni, simboli fascisti e nazisti poiché, in tal modo, i “democratici” potevano liberamente tacciare, dinnanzi all’opinione pubblica di ceto medio, gli oppositori della globalizzazione unipolare alla stregua di branchi di disadattati e di estremisti egemonizzati da simpatizzanti per i regimi accusati, dalle classi proprietarie anglosassoni, attraverso un ormai documentato eccesso di colpevolizzazione[xxiii], di aver scatenato il secondo conflitto mondiale. Insomma, nel momento in cui gli oppositori della globalizzazione liberale si ponevano nelle condizioni di venir accusati di neonazismo, il PD non poteva che trarre, da un simile scenario, determinati vantaggi politici poiché legittimato a veicolare la narrativa secondo cui al dominio del capitalismo di libero mercato non sarebbero concepibili alternative in quanto la rimozione di codesto sistema di potere e dominio avrebbe aperto, inevitabilmente, le porte a un (invero del tutto improbabile) ritorno del fascismo storico novecentesco. La legge piddina sul “divieto di apologia di fascismo” è pertanto il risultato dell’uso politico, da parte dei ceti dominanti, globalisti, dell’antifascismo come «arma di classe» per reprimere le rivendicazioni sociali delle fasce penalizzate dalla mondializzazione. La legge piddina sul “divieto di apologia di fascismo” è inoltre l’apripista legislativo di nuovi provvedimenti volti a istituire reati di opinione puniti con il carcere per mettere ulteriormente a tacere la voce dei deplorables invisi alle nuove classi medie cosmopolite (con, il più delle volte frustrate, velleità intellettualoidi pseudo-progressiste). Il prossimo “colpo”, c’è da scommetterci, sarà quello di vietare, pena la galera e multe salatissime per i trasgressori, ogni manifestazione di pensiero contrastante con quello che il ceto politico-affaristico transnazionale della Ue definisce “sistema di valori liberali europei” (european way of life). L’ideologia di riferimento della Ue transatlantica e neoliberale è infatti il cosmopolitismo e la sottocultura della mobilità illimitata di capitali ed esseri umani. L’ideologia di riferimento della Ue transatlantica è l’idea di progresso intesa come fine capitalistica della Storia. In questo senso, il liberalismo postmoderno è fatalistico almeno quanto il comunismo messianico dei secoli XIX e XX. Per i bolscevichi, infatti, il progresso consisteva nell’«avvento, in ogni popolo, di marxismo e comunismo»[xxiv]. Per i liberali, invece, il progresso coincide con l’avvento della mondializzazione capitalistica e la fine di ogni specificità connessa al carattere originario di ciascun popolo. Il liberalismo, inteso come totalitarismo soft, tende all’omogeneizzazione iperborghese così come il comunismo propendeva per la proletarizzazione forzata della società. Per i liberali, un nuovo tipo di borghesia, postmoderna, integralmente adattata e conquistata ai dispositivi di comando e controllo di massa tipici della civiltà hi tech, deve rappresentare il ruolo di classe egemone nell’ambito del modo di produzione, materiale e immateriale, del capitalismo contemporaneo, così come, per i bolscevichi, il proletariato avrebbe dovuto costituire il ceto rivoluzionario per eccellenza. In realtà, mentre il proletariato novecentesco era assai meno rivoluzionario del proprio omologo egizio ai tempi del Faraone Ramesse II, il talento e la propensione controrivoluzionari dei nuovi ceti medi privi di coscienza infelice erano fuori discussione. I bolscevichi presero un grande abbaglio nel riporre cieco fideismo nelle presunte virtù rivoluzionarie del proletariato urbano di fabbrica, mentre i liberali ebbero ragione, paradossalmente, a contare sul ruolo giocato dalle classi medie, proprietarie, agiate, nei processi di affermazione del capitalismo e del “libero commercio” sulle macerie delle precedenti organizzazioni sociali e istituzionali tradizionali. Borghesia non è ipso facto sinonimo di capitalismo. Sinonimo di capitalismo sono invece i processi di liberalizzazione dei costumi borghesi, ossia tutte quelle dinamiche tendenti a sciogliere i vincoli di fedeltà interni ai ceti borghesi “liberando” codesto ceto sociale dalla precedente condizione limitante impressagli dalla coscienza infelice tipica dei tempi di Joyce, di Proust, di Beethoven. In questo senso, il Sessantotto, controrivoluzione giovanilistica postborghese e momento culminante della transizione, in ambito culturale, a un capitalismo non più gestito in maniera consociativa da Stato, partiti, corporazioni e sindacati, bensì integralmente liberalizzato e proiettato in un orizzonte antropologico nuovo, desiderante, centrato sulla categoria di produzione immateriale accelerata e senza futuro[xxv], fu in realtà un passaggio storico apertamente reazionario e non la palingenesi comunistica di emancipazione universale attraverso i miti della “creatività al potere” e della “rivoluzione sessuale” quale grimaldello per abbattere l’idea stessa di autorità statale costituita dai poteri pubblici, immaginata dai giovani contestatori pseudo-rivoluzionari dell’epoca. Il movimento del Sessantotto, infatti, era indirizzato «soprattutto contro i valori borghesi ormai imperanti nei Paesi occidentali»[xxvi] ma si fece interprete al contempo di una critica artistica e libertaria dei tabù propri della borghesia dell’epoca, invocando «una maggiore libertà dei costumi»[xxvii] per superare le ipocrisie in ambito sessuale dei ceti borghesi del periodo. In questo senso, il Sessantotto fu una stagione di rivolta esistenziale certamente antiborghese ma ultracapitalistica, poiché la richiesta dei giovani protestatari di una liberalizzazione integrale dei costumi borghesi (soprattutto per quel che concerneva la sfera affettiva e sessuale) sarebbe inevitabilmente coincisa con una radicalizzazione dei processi di produzione immateriale di un capitalismo in procinto di transizione a una fase prettamente speculativa e, con buona pace degli studenti sessantottini, infatuati di aspettative volte alla democratizzazione radicale della società da attuarsi tramite la modernizzazione dei costumi borghesi, totalitaria. Il Sessantotto fu il mito generazionale di fondazione di un capitalismo assoluto, postborghese e postproletario, culturalmente senza classi sociali e di liberalizzazione politica, economica e a livello di mode e stili di vita, integrale. I giovani contestatari e i notabili in doppiopetto della destra conservatrice, attribuendo entrambi, sebbene con valutazioni di merito diametralmente opposte, una valenza marxista e potenzialmente rivoluzionaria al Sessantotto, commisero un macroscopico errore di travisamento. Il Sessantotto infatti incorporò Marx nell’ambito dei processi di transizione al capitalismo assoluto, introducendo la metafora del filosofo di Treviri come profeta della globalizzazione, estremista di sinistra, sindacalista incazzato, artefice della delegittimazione della categoria di famiglia, avversario della nozione di Stato e consigliere neokeynesiano. Oggi Marx è accettato dall’élite intellettuale mainstream soltanto in quanto interpretato come profeta della globalizzazione e, al limite, come un vecchio estremista di sinistra fautore di una critica serrata nei confronti dell’organizzazione patriarcale interna all’ambito della famiglia tradizionale. Oggi Marx è accettato dai ceti intellettuali della sinistra liberale in quanto la sua figura di profeta della globalizzazione e di avversario delle categorie di Stato e di famiglia tradizionali è stata in un certo qual senso manipolata, in sede di pubblicistica accademica mainstream, al fine di farla coincidere pericolosamente, per via mediatica, con quella di George Soros[xxviii]. I nemici comuni di liberali e radicali di sinistra sono lo Stato e la società organicamente costituiti[xxix]. Liberali e radicali di sinistra sono pronti, in ogni momento, a stringere alleanze e patti di mutua collaborazione per fronteggiare coloro i quali si prefiggono l’obiettivo politico di mantenere e, se del caso, rafforzare il ruolo dello Stato nell’organizzazione sociale ed economica della nazione. Per i liberali lo Stato deve degradarsi fino a risolversi a recitare il ruolo di una sorta di CDA di un’azienda privata. Per i liberali lo Stato deve intervenire nell’economia soltanto al fine di rimuovere gli ostacoli che in qualche modo limitano gli investimenti privati stranieri. Ergo, lo Stato deve, in questo senso, farsi carico degli oneri fiscali di norma gravanti sull’investitore privato e, al contempo, non deve pretendere alcunché da codesto investitore, neppure che rispetti le leggi vigenti, in materia di costo del lavoro e condizioni di vita e sicurezza dei lavoratori, nel Paese in questione. Per i radicali di sinistra, invece, lo Stato non è che un residuo autoritario, borghese e patriarcale da estirpare sulla via del progresso inteso come liberalizzazione dei costumi sessuali borghesi. Scriveva infatti, a riguardo e più in generale, sin dal 1968, Julius Evola, il filosofo della Tradizione:

Il marxismo porta alle ultime conseguenze la concezione societaria moderna, il risalto dato alla “società” con la democrazia, di cui l’ultima conseguenza è in fondo la negazione dello Stato in quanto tale. Già nel sistema democratico lo Stato viene concepito in termini di una gestione e di un’amministrazione (in America si evita perfino di parlare di un “governo”, si parla appunto soltanto di “amministrazione”, quasi che si trattasse di una grossa azienda economica). Secondo il comunismo utopico lo Stato un giorno dovrebbe cessare di esistere, dopo il periodo transitorio della dittatura del proletariato e del governo interinale dei soviet. Comunque, che lo Stato abbia e debba avere una realtà propria e indeducibile, un carattere sopraelevato e “trascendente”, che esso costituisca e debba costituire un punto super