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Richard Strauss: la grande arte europea

di Luca Leonello Rimbotti - 17/07/2017

Richard Strauss: la grande arte europea

Fonte: Italicum

 

 

Aveva poco più di vent’anni – si era attorno al 1885 – quando Richard Strauss si accinse alla ciclopica operazione di riprendere la grande orchestra di impianto wagneriano, sino ad allora nelle mani di direttori per lo più mediocri, per farne di nuovo una macchina di produzione di superbo splendore sonoro. Definito post-wagneriano, quello che oggi è considerato il maggiore musicista europeo del XX secolo ci appare come il geniale epigono di Wagner, nella sua storica funzione di ultimo musicista romantico. E dire che, in gioventù, fu considerato un innovatore, quasi un sovversivo della tradizione musicale tedesca. Come suole accadere ai grandi, se da una parte aveva uno stuolo di fanatici ammiratori, dall’altra aveva anche un esercito di detrattori, che gli rimproveravano le novità armoniche e gli inauditi effetti orchestrali. E soprattutto nuova fu la gestione del poema sinfonico, il Tondichtung, o “poema sonoro”, genere di derivazione lisztiana in cui eccelse come pochi, e di cui divenne alla fine la massima espressione. Oggi, ormai, Strauss è considerato un tradizionalista, quanto meno colui che ha chiuso la stagione romantica segnandone anche l’apogeo. Dopo di lui, infatti, sarà la volta dei grandi sperimentatori, da Strawinski a Schönberg.

I poemi sinfonici di Strauss furono tutti famosi, dal Macbeth al Don Giovanni, da Morte e trasfigurazione a Till Eulenspiegel fino a Don Chisciotte e Così parlò Zarathustra. E si nota subito che gli argomenti non sono divagazioni naturalistiche, d’ambiente o coloristiche, ma precisi richiami a opere letterarie. Ci si è chiesti in passato come sia possibile per un musicista rendere l’attinenza fra un’opera letteraria e la musica senza usufruire del cantato, della parola. In effetti, la risposta è forse tutta nella capacità di resa sonora, di intraprendere, attraverso l’espressività musicale, la voluta immedesimazione del suono con il soggetto di riferimento. Si tratta di pagine investite da una particolarissima vis orchestrale, in parte dovuta anche al dispiegarsi di orchestre imponenti, con un effetto di travolgimento che permette di surrogare il canto attraverso l’esasperazione della forza e del descrittivismo strumentale.

Si tratta di un tipo di musica che, per così dire, presenta dei connotati che vanno oltre la mera musicalità, investendo il campo della meditazione: la capacità di guidare lo spirito all’ascolto verso i temi dell’interiorità la si rintraccia anche in quei casi, come il Don Giovanni o il Till Eulenspiegel, che, dal punto di vista letterario, sembrerebbero riguardare figure tutto sommato superficiali: il grande seduttore universalmente conosciuto e il briccone vagabondo dei racconti popolari d’area tedesca. Al contrario, l’ascolto di questi pezzi non si limita a seguirne le seduzioni descrittive, ma imprime una tale forza armonica, da farne altrettanti esempi di arte totale, per l’appunto di matrice wagneriana. Il canto, in altre parole, viene sostituito dalle profondità introspettive, verso cui l’ascoltatore viene trasportato dall’energia e dall’esuberanza della griglia musicale.

Stiamo infatti parlando di uno dei vertici – meglio: uno degli ultimi vertici – raggiunti dal genio europeo nel XX secolo.

Strauss infatti, abbandonato il terreno del poema sinfonico, al quale si era dedicato per lo più in gioventù, alla svolta del secolo ed entro il primo quindicennio del Novecento inanellò una fortunatissima serie di composizioni liriche, che ne hanno fatto, anche qui, l’artefice di un’eccellenza artistica insuperata. Tra la Salomè del 1905 e Il cavaliere della rosa del 1911 si situa l’Elettra, opera in cui la collaborazione di Hugo von Hofmannsthal al libretto fu particolarmente felice, realizzando un grande classico musicale, che si sposa alla perfezione con l’antica tragedia di Sofocle e con il senso di delirante frenesia incubato dalla protagonista.

Probabilmente è in questa capacità di Strauss di sapersi rapportare alla grande letteratura, creando affreschi sonori di straordinaria suggestione, che risiede il valore vero e più duraturo della sua musica, che dunque oltrepassa i suoi limiti facendosi strumento di compenetrazione nelle più profonde tematiche della cultura europea di ogni tempo.

La sensibilità di Strauss per l’epopea culturale occidentale è l’aspetto che, più di ogni altro, ne fa il giusto e conclusivo erede di quel passato così impegnativo, il depositario di una tradizione che già nel primo Novecento, sotto la spinta di sperimentalismi distruttivi e nichilistici, stava conducendo la cultura europea verso un lento ma inesorabile processo di involuzione, deformazione e, infine, di autentica necrosi. La Grecia antica costituì per Strauss una fonte inesausta di valori identitari; essa riassunse ai suoi occhi l’intera tradizione europea e, come accadeva a quell’epoca in Germania, veniva vista trasfondersi anche nelle epoche culturali successive, così che da Dante, Michelangelo, Raffaello si continuava a Grünewald, Shakespeare, Schiller, fino a Goethe e Wagner, colui che, come scrisse Strauss stesso nelle sue memorie, in qualità di “poeta drammatico e filosofo in musica”, si è posto come un apice, e da qui «ha finalmente concluso uno sviluppo trimillenario della cultura facendo rivivere in forme drammatico-musicali perfette il mito germanico e quello cristiano».

Il mito greco, in ogni caso, fu in Strauss di straordinaria importanza, tra l’altro dedicando a quel mondo numerose opere d’arte come Arianna a Nasso, L’amore di Danae, Dafne ed altre ancora, tra cui quella che molti giudicano il suo capolavoro, la già ricordata Elettra, composta nel 1909, in un periodo in cui Strauss, sebbene ancora giovane, era praticamente già diventato il portabandiera culturale del II Reich guglielmino. Quello di Elettra fu un mondo particolare per Strauss, che ne amava gli aspetti per così dire dionisiaci, connotati da una violenza di impressioni che, presente nella tragedia, si riverbera sullo spartito dell’autore moderno. Strauss andava in cerca di qualcosa di arcaico e primitivo, così da «contrapporre questa grecità demonica, estatica del VI secolo alle copie romane di Winckelmann e all’umanesimo di Goethe».

Per dare un’idea, il compositore, cui fu riconosciuto un carattere “olimpico”, non privo però di ironia, si definiva orgogliosamente un «uomo greco-germanico del XX secolo», identificandosi in una lunga tradizione tedesca che, da Winckelmann a Hölderlin a Nietzsche, ma anche dopo, vedeva nella Germania moderna la reincarnazione storica, culturale, linguistica ed anche etnica, dell’antica Grecia, costruendo su tale presupposto tutta un’ideologia di moderno tradizionalismo.

In questo senso, Strauss non ebbe problemi all’avvento del nazionalsocialismo, quando venne nominato capo della Camera musicale, la corporazione culturale appena costituita dal nuovo regime. Né ebbe problemi a donare a Göring nel 1933 una copia della sua opera Arabella, o a ricevere dalle mani di Goebbels un premio per i suoi ottant’anni, o a comporre l’inno per le Olimpiadi del 1936. E trovò del tutto normale continuare a scrivere musica e dirigere in pubblico, cosa che fece fino al 1944, nonostante avesse dato le dimissioni dal suo incarico istituzionale, pare per divergenze col Ministro. In ogni caso, non sono questi dettagli che denotano il personaggio. L’adesione di Richard Strauss a quel regime non può destare alcuna meraviglia, visti i convincimenti che egli, pur non essendo uno spirito politico, aveva sempre manifestato: ci sarebbe stato, casomai, da meravigliarsi del contrario.

Il motivo di più forte presa nell’immaginario straussiano, fu appunto sempre una grande fede nel valore meta-temporale della civiltà cui apparteneva, e di cui intese diventare a sua volta degno continuatore. Questa concezione universale del lungo e nobilissimo percorso effettuato dalla civiltà europea serviva al compositore da fondamento intellettuale, da base filosofica e umanistica sulla quale edificare ogni volta il frutto della propria concentrazione.

Genio intuitivo, certo, Strauss lo fu, ma non di dimensione visionaria, bensì di caratura più riflessiva. In proposito, è interessante notare quanto lui stesso ha lasciato scritto circa il formarsi in lui dell’ispirazione, che costituiva un misto di iniziale apparizione dell’idea melodica e di susseguente applicazione razionale, facendo “stagionare” l’idea e perfezionandola dopo un lungo lavoro di cesello, che conduceva alla forma finale in grado di resistere «anche alla più rigorosa e fredda autocritica». Fra questo succedersi di momenti e la conclusione del lavoro, in ogni vaso, c’era per Strauss la fase della fantasia, il cui fuoco andava attizzato assecondandone le bizzarrìe e sapendo aspettare il momento propizio al suo manifestarsi.

Nelle polemiche che nel suo tempo, e specialmente nell’epoca di Weimar, sorsero circa l’avvento di nuove forme d’arte, considerando “reazionario” tutto ciò che ancora si legava al passato e invece “progressista” tutto quanto sapeva di innovazione, buono o pessimo che fosse, Strauss manifestò sempre grande misura e capacità di rimanere al suo posto, senza subire gli sbandamenti occasionali delle varie epoche da lui attraversate (visse sotto quattro differenti regimi: II Reich, Repubblica di Weimar, III Reich e Repubblica Federale), ma attenendosi sempre al valore e alla qualità, unici discrimini per un giudizio complessivo.

Già agli inizi del Novecento, sulla spinta delle novità musicali che avrebbero condotto agli sperimentalismi atonali e dodecafonici, Strauss si espresse chiaramente in merito a ciò che doveva essere salvaguardato e cosa no: «Non posso certo definire reazionario chi anteponga l’Eroica di Beethoven a un fiacco poema sinfonico moderno, o dichiari di preferir vedere dodici volte di fila Il franco cacciatore piuttosto che una brutta opera moderna». E, da uomo di buonsenso, alieno dagli intellettualismi faziosi, fu vicino al popolo e al suo immediato e naturale modo di apprezzare un’opera d’arte, così che, al di sopra delle mode, egli riconobbe che esiste come un istinto, che guida infallibilmente chi è portatore di una certa cultura verso un giudizio spontaneamente corretto, quando libero da forzature: «Il pubblico è restìo ad accettare e ad amare un’arte che non sia comprensibile di primo acchito e non abbia la forza necessaria per imporsi […]  di regola sentirà rettamente, per istinto, il valore di ciò che le viene offerto; a meno che una critica premurosa o una concorrenza interessata non le instillino pregiudizi tali da influenzarne l’imparzialità».

Il romanticismo di Strauss è infine divenuto un nuovo classicismo. Un protagonista di un’interminabile stagione culturale, che era stato in rapporti con numerosi intellettuali di punta dell’epoca, da Hofmannsthal a Max Reinhardt a Hermann Bahr. Quello di Strauss fu un dialogo con la perfezione estetica che è una vera filosofia esistenziale, un’etica superiore. La testimonianza che Strauss ci ha lasciato sulla sua carnale immedesimazione con l’opera wagneriana è il manifesto conclusivo di un modo di fare cultura, anzi di essere quella cultura, che è uscito da molto tempo dai canoni declassati e ormai definitivamente sfaldati della società contemporanea: «Dopo essermi immerso nell’orchestra di Wagner riemergo rigenerato a nuova vita, come Anteo dal contatto con la terra».