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Perché continuare a scrivere?

di Enrico Galoppini - 21/08/2017

Perché continuare a scrivere?

Fonte: Per Giustizia

Quest’articolo, potenzialmente, potrebbe essere il primo e l’ultimo che scrivo per questa nuova testata informativa alla quale m’è stato chiesto di collaborare. E, perché no, l’ultimo mio articolo in senso assoluto, dopo più di quindici anni di febbrile produzione nella quale ho affrontato vari temi, dalla politica internazionale alla storia, dalla religione alla critica del costume.

Le ragioni di quest’affermazione un po’ spiazzante sono evidenti già nel titolo. Accingendomi a metter giù delle considerazioni meritevoli d’esser lette da altri, mi sono infatti posto un amletico quesito: possibile che con tutto quel che s’è letto, visto e sentito, ma soprattutto provato sulla propria pelle, ci sia ancora bisogno di scrivere articoli per spiegare ed interpretare il tal fatto o il talaltro fenomeno di questo mondo sempre più “impazzito”?

Possibile che i miei abituali lettori non abbiano sviluppato la capacità di vedere per conto proprio un po’ più in là, di annusare la fregatura, di non farsi abbindolare dalle versioni ufficiali? Possibile che ci sia ancora bisogno che il sottoscritto (o altri, ben più letti di me) metta giù altre considerazioni su questo o quell’argomento? Tempo fa, Maurizio Blondet, in preda a medesime sensazioni angosciose ma comprensibilissime, scrisse un pezzo divertente ed amaro intitolato pressappoco “fatevi il vostro  articolo”, nel quale metteva a disposizione dei suoi lettori una serie di “notiziole” significative, che dopo un pluriennale allenamento coi suoi scritti essi avrebbero dovuto decriptare ed interpretare senza alcun aiuto del loro “punto di riferimento”, cioè lo stesso Blondet.

  Stefano Anelli (ovvero lo scomparso John Kleeves), mi confidò, poco prima di uscire dalle scene, d’essere stufo di scrivere per gente che legge tanto per passare il tempo. Gente che leggeva i suoi formidabili articoli sull’America strabuzzando gli occhi per le “rivelazioni” contenutevi, per poi fare, dopo averli letti, come nulla fosse. Continuando a fare la vita di prima, cercando di sgomitare e farsi una “posizione” (con tutti i compromessi che ciò comporta) in questa Colonia Italia made in Usa. Una cosa da restare allibiti ma molto istruttiva, effettivamente, tanto che l’autore di testi fondamentali come Vecchi trucchi e Un paese pericoloso si sarebbe di lì a poco ridotto al silenzio, tenendo per sé un libro sugli italiani che – diceva – aveva finito ma che gli italiani stessi non meritavano di leggere perché non l’avrebbero capito (e, forse, gradito).

C’è poi un altro motivo ancora più grave per il quale avrei sinceramente voglia di smettere di scrivere e di partecipare a conferenze di qualsiasi sorta. Se dopo che spiriti illuminati del calibro di Guénon, Evola, Schuon, Burckhardt, Coomaraswamy e tutti gli altri “tradizionalisti” hanno pubblicato le loro opere; se dopo che i classici del pensiero “controrivoluzionario” sono stati diffusi da un Cattolicesimo che non aveva ancora alzato bandiera bianca; se tra le due guerre mondiali si è verificato il tentativo d’imprimere, a livello politico e filosofico, finanche nel tipo umano e nel carattere, una brusca sterzata alle peggiori deviazioni del “mondo moderno” che solo una sconfitta militare ha ricondotto nell’alveo del più spaventoso nichilismo; ebbene, se dopo tutto ciò siamo ancora al punto di prima, e cioè alla constatazione che i nostri contemporanei, in massa, sono felici di partecipare al gran galà organizzato su questo Titanic che è la civiltà moderna, significa che non c’è santo che tenga e che evidentemente lo sviluppo di determinate “possibilità” deve compiersi, con buona pace di chi, come il sottoscritto, auspicherebbe una condizione generale improntata ad altri principi e valori.

A che pro, allora, continuare a scrivere? Una bella domanda, effettivamente.

Si potrebbe dire (ma ci sta che mi sbagli) che essenzialmente non si scrive per un pubblico, ma per se stessi, per “sfogarsi” e perciò non “impazzire”, ma più che altro per chiarirsi, mettendo  nero su bianco, le idee che elaboriamo e le intuizioni che ci arrivano. Ad un altro livello meno ‘egoistico’ si potrebbe aggiungere che, senza peccare di superbia, chiunque abbia “capito” qualche cosa è tenuto a metterla a disposizione degli altri, affinché si sveglino dal torpore. Ma è poi così importante (e possibile) che tutti, fino all’ultima “capra” irredimibile, si diano una salutare svegliata? Sì e no. La storia non la fa certamente la folla, che al limite serve come onda d’urto e massa di manovra, anche a fin di bene, s’intende. La storia è sempre fatta da delle élite consapevoli. Ebbene, siccome ciascuno è dotato in varia misura di differenti talenti, ci sta che la “missione” di chi è chiamato a scrivere sia anche quella di aiutare altri ad intraprendere un cammino di consapevolezza al riguardo della realtà in cui viviamo. Una realtà nella quale, oggigiorno più che mai, niente è come appare.

Intendiamoci, a questo mondo tutti ci diamo una mano reciprocamente. Chi in un modo e chi in un altro. C’è chi lo fa scrivendo, rendendo una sorta di “servizio” a chi è intento a fare altro d’importante con competenza e dedizione. C’è chi non ha l’attitudine alla scrittura nelle sue corde. E chi potrebbe scrivere ma non ha tempo o voglia, e tuttavia gradisce che altri lo facciano. C’è, poi, un problema di “reputazione”. Molti che potrebbero mettere per iscritto cose senz’altro più degne ed interessanti di quelle che scrivo io non lo fanno perché hanno paura di metterci la faccia. La questione è vecchia come il cucco: il coraggio non se lo può dare chi non ce l’ha.

Sì, perché di questi tempi – se proprio non vogliamo parlare di coraggio – ci vuole una buona dose di “incoscienza” per continuare a mettersi contro quella che ha tutte le sembianze d’una “invincibile armata”. Ma come ha recentemente scritto Francesco Lamendola in un suo memorabile articolo che suona come un colpo di frusta, questi non sono più tempi nei quali si può far finta di nulla, che tutto in qualche modo si accomoderà. Tempi nei quali è pensabile farla franca nascondendosi come il classico struzzo.

Ma c’è, sentita sempre più distintamente, anche la sensazione che non basti più scrivere. Perché quello che si doveva sapere si è saputo. Nel senso che da qualche parte – anche se non lo sappiamo – qualcuno ha già scoperto questo o quell’altarino, ha denunciato la radice di questo o quel problema, ha chiamato per nome e cognome i responsabili, palesi ed occulti, dei vari disastri del mondo moderno. Sappiamo (cioè, è possibile sapere) oramai tutto su tutto con la mole mai vista prima di libri ed articoli pubblicati su carta o in rete. Forse c’è l’esigenza di selezionare, di fare il punto della situazione, di riassumere o meglio sintetizzare le informazioni che, a ritmo sempre più serrato, circolano tra chi ha fame di sapere.

Per questo il potere, ultimamente, ha messo in circolazione le parole d’ordine delle “fake news” e della “post-verità”. Occhio ai “bufalari”! Occhio ai “cattivi maestri”! Guai a chi si fida di informazioni che non provengono da “fonte certificata”, “autorevole” ed “affidabile”!

Ma il fatto è che sempre più gente non si fida più di questo potere e delle sue espressioni ed articolazioni. È un processo irreversibile che se nella sua parte distruttiva è in massima parte chiaro perché in corso, non si sa ancora dove potrà condurre una volta che si potrà affermare di aver voltato “pagina”.

Al peggio non c’è mai fine, dice un noto adagio. Per questo, se proprio serve ancora scrivere, una buona ragione per farlo può stare nell’esigenza sì di mostrare gli inganni e le macchinazioni dei cosiddetti “poteri forti” che ci dominano, ma anche d’indicare una via che conduca ad un approdo sicuro, fuori dalle tempeste di questo mondo moderno che rischia di ridurre l’essere umano ad una controfigura di se stesso o ad un automa disanimato.