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Analisi di un mito: che cos'è lo sviluppo

di Guido Dalla Casa - 30/10/2005

Fonte: estovest.net

Premesse
 Vediamo che significato si dà di solito al termine sviluppo, soprattutto nel linguaggio corrente e nei mezzi di comunicazione di massa.
 Il concetto espresso con questa parola è di norma l’aumento del fluire dei beni materiali attraverso il processo produrre-vendere-consumare. È evidente che, con questo significato, lo sviluppo richiede l’aumento dei consumi. In altre parole, il termine sviluppo significa oggi la crescita economica, come dimostra anche la traduzione inglese più frequente (growth). Gli abituali indicatori dello sviluppo sono sostanzialmente quantitativi.
 In genere si pensa che questa crescita aumenti il benessere dell’umanità, indipendentemente dai valori e dalla cultura che li esprime. Inoltre, fino ad oggi non si è mai presa in considerazione la possibilità che l’aumento dei consumi sia incompatibile con il funzionamento della Biosfera, anche perché è mancata la percezione che l’uomo fa parte integrante della Biosfera stessa.
 Le discussioni sulla differenza fra crescita e sviluppo hanno senz’altro un significato profondo, ma di fatto i due termini sono impiegati come sinonimi dal mondo ufficiale e dalle componenti economiche, politiche, industriali e sindacali.

La Biosfera
Per usare il linguaggio della teoria dei sistemi, un essere vivente è un sistema che si mantiene in situazione stazionaria lontana dall’equilibrio termodinamico. In altre parole, vive finché un flusso di energia lo attraversa continuamente senza che si alterino le sue condizioni generali, se si trascurano le piccole oscillazioni:  la Biosfera nel suo complesso si comporta come un unico organismo vivente, anche se in generale su tempi molto lunghi. Se si considerano tempi dell’ordine di decenni, o secoli, e non geologici, la Terra è stazionaria: il problema sta nel fatto che le modifiche causate dallo sviluppo economico nei cicli naturali hanno velocità dieci-centomila volte più grandi di quelle normali, che consentono alla vita di adattarsi gradualmente alle nuove situazioni.
La crescita economica continua è un processo che impedisce il funzionamento della Biosfera perché ne disarticola i cicli: è quindi un fenomeno impossibile. Un’economia complessivamente in crescita può soltanto essere un transitorio, un fenomeno patologico che -se non arrestato rapidamente- porta necessariamente verso un punto “di catastrofe”.
 Anche l’idea che lo sviluppo costituisca sempre un miglioramento non ha validi fondamenti: è probabile che, se si potesse disegnare un diagramma che riporta l’andamento del benessere psicofisico (anche soltanto umano, o di una particolare cultura) in funzione dei consumi materiali o degli oggetti a disposizione, non si avrebbe una funzione sempre-crescente, ma una specie di curva a campana. Ad una certa quantità di beni materiali la funzione raggiunge un massimo: il corrispondente valore di consumi è già stato abbondantemente superato in tutto il mondo occidentale. Un ulteriore aumento peggiora la qualità della vita. Se poi mettiamo in conto anche la bellezza del mondo e il benessere degli altri esseri senzienti, la situazione si aggrava ulteriormente.
 Ci si può rendere conto di questo fatto se si pensa a una qualunque località rivisitata a distanza di qualche decennio: la si troverà inesorabilmente peggiorata, sia sul piano naturale, sia dal punto di vista estetico ed umano. La varietà dei viventi è sempre diminuita.
 È forse superfluo ricordare il totale fallimento sul piano ecologico dello “sviluppo di Stato” un tempo perseguito nell’Est europeo, in cui il materialismo era addirittura portato al rango di metafisica ufficiale.

Lo sviluppo sostenibile
 Recentemente è stato formulato il concetto di sviluppo sostenibile, definito dalla Commissione Bruntland dell’ONU come “lo sviluppo che soddisfa le esigenze del presente senza compromettere la possibilità, per le future generazioni, di soddisfare i propri bisogni”.
   Successivamente il concetto di sostenibilità è stato ulteriormente analizzato e suddiviso in due posizioni diverse (K. Turner e D. Pearce - Economia Ambientale):
- Una sostenibilità debole, che si realizza quando, a fronte di un deterioramento ambientale, si ottiene una compensazione uguale o superiore in altre forme di capitale.
 - Una sostenibilità forte, dove si richiede che il capitale naturale non decresca mai, mentre le altre forme di capitale possono crescere o restare costanti.
 Queste definizioni della sostenibilità sono decisamente insufficienti: inoltre danno per scontata un’assoluta centralità della nostra specie, su cui si possono avere fondati dubbi sul piano scientifico-filosofico: già la definizione di “capitale” data al Complesso dei viventi, o alla Biosfera, o alla Terra stessa, denota la posizione di partenza, anche nella sostenibilità “forte”. Mi sembra invece che si possa definire sostenibile solo una forma di sviluppo che consente a tempo indefinito la vita della Biosfera, cioè ne mantiene le condizioni stazionarie complessive.
In sostanza, se non modifichiamo profondamente il significato del termine, la locuzione sviluppo sostenibile è contraddittoria e non ha alcun senso. L’unico “sviluppo” che può durare a tempo indefinito è un processo di tipo stazionario. 
 Se poi facciamo anche considerazioni morali o filosofiche, lo sviluppo è finora sempre partito dall’idea dogmatica che l’unico soggetto di diritti e l’unico essere in grado di provare “benessere” sia l’uomo, relegando gli altri esseri senzienti, gli ecosistemi e tutto il mondo naturale al rango di “materia” a nostra disposizione.
 Oggi invece sappiamo che l’uomo non è nella posizione di “abitante di una casa”, ma è come un gruppo di cellule di un Organismo, cioè l’ecosistema globale, da cui dipende totalmente: questa posizione della nostra specie deve ancora essere recepita da tutte le istituzioni.
Riassumendo, come fenomeno complessivo visto “dall’esterno”, lo sviluppo -nel significato del mondo ufficiale- appare come un processo che:
- sancisce la sopraffazione della nostra specie su tutte le altre specie viventi, sugli ecosistemi e in genere sul mondo naturale: distrugge la diversità biologica;
- impone a tutta l’umanità di vivere secondo il modello occidentale;
- sostituisce materia inerte al posto di sostanza vivente; mette strade, macchine, impianti, dove c’erano foreste, paludi, savane.

L’etica del lavoro e l’etica della Terra
 Di solito nel nostro mondo si è formata l’idea che il lavoro sia sempre qualcosa di positivo, da premiare indipendentemente da ogni altra considerazione.
 Così si pensa che chi lavora di più debba automaticamente guadagnare di più, che in sostanza sia più bravo di chi lavora di meno: il lavoro ha acquistato un valore etico in sé, anche se si tratta di lavoro che danneggia l’intero Organismo terrestre o contribuisce a qualche patologia della Biosfera. Solo recentemente si è cominciato a considerare negativa almeno la produzione di sostanze inquinanti, limitando però l’esame ad ogni singolo processo locale, come se fosse possibile isolarlo.
 Non si è mai tenuto come valore etico il mantenimento in condizioni vitali della Biosfera terrestre, oppure degli ecosistemi di cui il processo fa parte. Non si è neppure considerato il danno, se non in tempi recentissimi e limitatamente a specie “rare”, arrecato ad altre specie viventi o a processi naturali. In sostanza, è mancata la percezione della non-separabilità di ogni processo lavorativo umano dall’ecosistema globale.
 È invece indispensabile avere sempre presente questa percezione, tenere come primo valore l’etica della Terra.

I consumi
 Oggi si assiste in modo macroscopico, anche senza più giri di parole, ad un fenomeno che rende  evidente la natura di quello che viene chiamato sviluppo: tutto il mondo economico-industriale-sindacale fa il possibile per fare aumentare i consumi. Si è arrivati a distribuire, anche se indirettamente, denaro ai potenziali consumatori per invitarli a “comprare”. Se per caso questa continua pressione non dovesse avere  esito, sarebbe proprio l’unico segnale positivo: se i consumi non aumentano, può essere che cominciamo ad averne abbastanza di oggetti materiali che in realtà non portano alcun miglioramento. Forse siamo stanchi di consumi, malgrado un intollerabile bombardamento pubblicitario che investe tutti i momenti della vita. Il mondo ufficiale è arrivato a propagandare gli acquisti, anche senza dire che cosa si debba acquistare! Si invita a “rottamare”, cioè a buttare in montagne di rifiuti apparecchi perfettamente funzionanti! 
Pochi giorni dopo un evento terroristico della gravità del crollo delle Torri Gemelle, il presidente USA ha pubblicamente invitato i cittadini americani a riprendere i consumi, ad aumentare gli acquisti il più possibile!
 Nelle città non si gira più, la mobilità diminuisce all’aumentare del numero di macchine, l’aria è irrespirabile, e il mondo ufficiale non sa escogitare altro che “il rilancio dell’auto”. Inoltre, gli inviti alla sicurezza stradale difficilmente avranno gli esiti sperati quando tutti i mezzi di informazione sono una continua esaltazione -anche inconscia- della velocità come valore. Nel mondo occidentale le prime cause di morte fra i giovani sono gli incidenti stradali e i suicidi, ma la massima preoccupazione  dei responsabili è il Prodotto Interno Lordo.
Forse è davvero venuto il momento di diminuire i consumi materiali e di pervenire ad un’economia stazionaria. Naturalmente si deve svincolare l’occupazione dalla crescita, ma questo è un problema che riguarda solo il sistema economico e non le leggi naturali del Pianeta: dovrebbe quindi essere risolvibile.
Qualcuno obietterà che lo sviluppo porta miglioramenti “a chi non ha”, ma basta fare la considerazione che la forbice fra “ricchi” e “poveri” si è sempre allargata: con la crescita economica, il solco aumenta e non diminuisce. Per inciso, i concetti di ricchezza e povertà sono spesso solo un’esportazione dell’Occidente.
È inoltre abbastanza chiaro che il discorso vale in termini complessivi: in linea teorica potrebbero aumentare i consumi pro-capite a condizione che diminuisca in proporzione il numero di consumatori.

Qualche citazione
Dal libro La Terra scoppia di G. Sartori e G. Mazzoleni (Ed. Rizzoli, 2003):
Per le persone di normale buonsenso il problema è che la Terra è malata di sovraconsumo: noi stiamo consumando molto più di quanto la natura può dare. Pertanto a livello globale il dilemma è questo: o riduciamo drasticamente i consumi, oppure riduciamo altrettanto drasticamente i consumatori.
 Si noti che Sartori e Mazzoleni partono da posizioni completamente antropocentriche e non si pongono il problema della liceità morale della distruzione di ecosistemi e dei danni agli altri esseri senzienti. Infatti usano i termini uomo e natura come se fossero distinti o in contrapposizione, fatto abituale nella nostra cultura. Anche così i due Autori non hanno alcun dubbio sul fatto che è assolutamente necessario ridurre i consumi.

   Nel libro Assalto al pianeta di S. Pignatti e B. Trezza (Ed. Bollati Boringhieri, 2000) viene evidenziato il sorpasso, avvenuto a cavallo del 1970, dell’energia di origine tecnologica rispetto a quella della fotosintesi, ma “Non si tratta soltanto di una questione di quantità: infatti l’output del processo fotosintetico è costituito da ossigeno e molecole biologiche, completamente compatibili con i processi dei viventi e riciclabili. L’output derivante dall’uso dell’energia industriale, invece, è formato da scorie e da inquinanti atmosferici. La produzione di energia tecnologica continua ad aumentare secondo il modello esponenziale. 
       Un capitolo dello stesso libro è dedicato ai rischi che comporta l’accettazione del mito dello sviluppo sostenibile. A pag. 267 si legge: “Trattare la sostenibilità come un problema di risorse scarse è dunque un’impostazione fuorviante che, potendo venire facilmente confutata, può addirittura venire utilizzata come alibi da chi vuole negare il problema”. Il libro contiene un’accurata analisi dell’impossibilità della continuazione del processo di sviluppo, in quanto disarticola i cicli vitali della Terra.

 Da un articolo di Guido Ceronetti, pubblicato su La Stampa del 9 marzo 1993:
... La sola voce concorde, universale, in alto e in basso, grida che nessuna industria si fermi o chiuda, qualsiasi cosa produca, sia pure inutilissima o micidialissima, sia pure destinata a restare invenduta; la sola voce concorde invoca che si aprano cantieri su cantieri e che si investano finanze in nuovi progetti industriali: a costo di qualsiasi inquinamento e imbruttimento, a costo anche di fare accorrere, per l’immediata ritorsione morale che colpisce chi accolga progetti simili, le furie di una intensificata violenza. E se deve, sul mare delle voci tutte uguali, planare una promessa rassicurante, è sempre la stessa: ci sarà la “ripresa”, ne avrete il triplo di questa roba...
      
 Dal libro di Edward Goldsmith Processo alla globalizzazione (Ed. Arianna, 2003):
Lo sviluppo economico, nonostante i suoi devastanti effetti sulle società e l’ambiente, resta il principale obiettivo delle agenzie internazionali, dei governi nazionali e delle corporazioni transnazionali che sono naturalmente i suoi principali sostenitori e beneficiari. Ciò viene giustificato col fatto che solo lo sviluppo, e ovviamente il libero commercio globale che alimenta, può sradicare la povertà. Oggi quasi nessuno di coloro che occupano posizioni di comando sembra disposto a mettere in discussione questa tesi, sebbene non sia sostenuta da prove teoriche né empiriche, né serie.
 Tanto per cominciare, si consideri che poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il commercio mondiale e lo sviluppo economico erano davvero in atto, quello è aumentato di diciannove volte e questo non meno di sei volte – una performance senza precedenti. Appare evidente che se questi processi fornissero veramente la risposta alla povertà mondiale, allora questa dovrebbe ormai essere stata ridotta a poco più di un vago ricordo del nostro barbarico e sottosviluppato passato. Invece, è vero il contrario.
    Seguono numerosi dati quantitativi a sostegno di queste affermazioni.
Si noti che anche questo libro non esce da posizioni antropocentriche.

 Dal Giornale di Fisica n. 2, 1979 (Energia e stabilità di Luigi  Sertorio):
I pregi di un’economia stazionaria sono stati illustrati con parole che oggi appaiono molto affascinanti forse per il linguaggio un po’ arcaico (1858) sereno e profondo, da John Stuart Mill. Tale bellezza naturalmente ha colpito rari spiriti isolati, mentre il resto dell’umanità, se è stato in grado di farlo, proprio a partire dall’epoca del positivismo, è partito sulla strada della growth economy.

Conclusioni
Lo sviluppo economico continuo è un fenomeno impossibile sulla Terra, perché incompatibile con il suo funzionamento. L’unico “sviluppo” che consente la vita della Biosfera è un processo completamente non-materiale, qualcosa che significhi l’evolversi di cultura, arte, spiritualità, pensiero, informazione, e così via. Ma in tal caso, visto che il significato attuale del termine è consolidato ormai da un paio di secoli, sarebbe meglio cambiarlo.
 Sintetizzando al massimo, due sono le cause dei guai del mondo: l’eccesso di popolazione umana e l’eccesso dei consumi. Entrambi i fattori non possono restare in crescita ancora per molto tempo.
 Ma cosa può succedere? Proviamo a formulare qualche ipotesi:
- Lo sviluppo economico prosegue ad oltranza: in tal caso si arriva ad un mondo    terribilmente degradato, con gli ecosistemi naturali scomparsi, migliaia di specie estinte o degenerate, le foreste distrutte, l’atmosfera irrespirabile, fino a manifestazioni macroscopiche di impossibilità di vita;
-  Lo sviluppo economico prosegue fino a un punto “di collasso”, dopo il quale si ha la rinascita di culture umane con valori diversi da quelli attuali;
-  Lo sviluppo economico si arresta gradualmente per la progressiva quasi-scomparsa della filosofia che ne costituisce il fondamento (il materialismo).
L’ipotesi più pessimista sembra la prima, quella più probabile la seconda; resta la speranza che si verifichi la terza.

Nel mondo moderno lo sviluppo è visto come un tabù intoccabile, una divinità, ma proprio per questo è opportuna qualche considerazione in controtendenza.
 Dopotutto, nella seconda metà dell’Ottocento, i “sacerdoti” dello sviluppo erano convinti che la crescita economica avrebbe fatto terminare la fame e le guerre, che un'era di prosperità senza fine si stava aprendo all’umanità e che la criminalità sarebbe presto diventata un ricordo del passato. Quindi mi sembra che non ci siano dubbi perlomeno sul fatto che c’è qualcosa che non va in questo “sviluppo”.

        (pubblicato sul numero di ottobre 2004 di DirigentiIndustria)