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Gianni Vattimo: la sinistra ripensi Norimberga e la "giustizia" dei vincitori

di Gianni Vattimo - 02/01/2007

 
L’esecuzione della condanna a morte contro Saddam Hussein è stata certamente una violazione dei diritti umani - non la prima né l’ultima perpetrata dalla coalizione dei «volonterosi» che occupano l’Iraq dopo una guerra di conquista iniziata sulla base di informazioni menzognere e per motivi che hanno assai poco da fare con la difesa della democrazia. Quasi nessuno dubita che Saddam meritasse la condanna; e anche la condanna a morte, per i delitti commessi quando governava il suo Paese con la forza di un regime militare spietato - e per altro ben accetto ai suoi carnefici di oggi, che forse anche per evitare di affrontare le proprie responsabilità hanno preferito farlo tacere per sempre.

Ma tra le tante voci che si sono levate a deplorare l’esecuzione del tiranno - quali in nome della sacrosanta opposizione alla pena di morte; quali in nome delle palesi irregolarità procedurali che hanno segnato il processo; quali in nome di una considerazione di opportunità e di realismo politico (abbiamo regalato un martire al terrorismo islamico) - pochi hanno richiamato l’attenzione su quello che è invece secondo noi, il tratto più scandaloso di tutta la vicenda, cioè il fatto che la condanna di Saddam è un tipico esempio di «Giustizia dei vincitori», ossia di pura e semplice sopraffazione del vinto da parte di coloro che lo hanno sconfitto con le armi e che vogliono dare alla propria vittoria l’apparenza di un trionfo del bene sul male. Quelli che hanno salutato come una «pietra miliare» l’esecuzione dell’altro ieri non mancano di buone ragioni. Saddam era stato un tiranno sanguinario, meritava la massima pena: anche se ci sono state tante irregolarità formali nel processo, l’esito è comunque «giusto» - corrisponde cioè a quel senso di equità per cui tutti desideriamo che la violenza arbitraria contro persone inermi e innocenti non rimanga senza una punizione adeguata.

Ma proprio la stessa esigenza di equità che motiva coloro che, almeno in buona fede, non si rattristano troppo della fine di Saddam, dovrebbe spingere a riflettere più a fondo sulle ragioni della «giustizia dei vincitori». Se non si fa attenzione a questo aspetto, alla fine è solo perché non si vuole revocare in dubbio quello che possiamo chiamare lo «spirito di Norimberga». Chi solleva il dubbio sulla legittimità di quelle condanne - pronunciate da un tribunale «alleato» in base a leggi che non erano quelle vigenti in Germania all’epoca dei fatti - viene considerato più o meno un nostalgico fascista con pericolose tendenze al negazionismo. Eppure proprio la sinistra dovrebbe essere sensibile a questi problemi. Non solo la tragica fine di Saddam, ma anzitutto lo stesso diritto alla «guerra preventiva» in difesa delle libertà della democrazia che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno proclamato e praticato negli ultimi anni sono frutto dello spirito di Norimberga: per il quale «noi» siamo i buoni difensori del diritto di tutti - anche degli iracheni, eventualmente anche dei palestinesi moderati che non accettano il governo di Hamas, pure eletto democraticamente - e abbiamo il diritto anzi il dovere di intervenire con ingerenza umanitaria, laddove dove questi diritti ci appaiono violati.

Come è possibile perseguire - a livello privato e a livello internazionale - la giustizia senza pensare che «Dio è con noi»? Forse il tanto vituperato sistema di Westfalia - quello che escludeva ogni diritto di ingerenza negli affari interni di un altro Paese - non era poi così imperfetto. Oggi noi siamo carnefici e vittime insieme in un sistema che afferma l’universalità dei diritti quasi solo per giustificare un rinnovato imperialismo. Vediamo tutti in che stato è ridotta l’Onu. Finché non si riuscirà a costruire un sistema di giustizia internazionale esplicitamente stipulato e regolato, saremo sempre esposti alle pretese di chi, soprattutto quando vince, crede di poter parlare in nome di Dio.