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L'etica buddhista come ecologia profonda

di Paolo Vicentini - 20/11/2005

Fonte: filosofiatv.org


Fin da quando, tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, a seguito della sempre maggiore presa di coscienza pubblica degli enormi squilibri ambientali causati da una produzione industriale e da un consumo incontrollati, ebbe inizio la riflessione filosofica contemporanea sui rapporti fra etica e ambiente o "natura", vi fu chi non mancò di sottolineare le notevoli connessioni fra la visione del mondo ricavabile dalla scienza dell'ecologia e quella offerta dagli insegnamenti del Buddha ed i grandi benefici che questi ultimi potevano arrecare per la soluzione dei problemi causati dalla cosiddetta "catastrofe ecologica". Alan Watts, Lynn White Jr., Gary Snyder ed Ernst Schumacher furono tra i primi ad esprimersi in tale senso. Dopo allora, molti sono stati gli ecologisti che hanno tratto ispirazione dal Dharma buddhista, in particolare nell'ambito del movimento dell'ecologia profonda, fondato nei primi anni Settanta dal filosofo norvegese Arne Naess1.
Vari esponenti di primo piano di questo movimento, come Robert Aitken, Fritjof Capra, Bill Devall, Joan Halifax, Jeremy Hayward, Sigmund Kvaløy, Dolores LaChapelle, Joanna Macy, Andrew McLaughlin, John Seed, Gary Snyder e Michael Zimmerman, sono buddhisti o sono stati notevolmente influenzati dalla filosofia buddhista.
Più volte, inoltre, Thich Nhat Hanh ha dichiarato: «L'ecologia nel buddhismo deve essere ecologia profonda»2; e Sulak Sivaraksa, tra i fondatori dell'International Network of Engaged Buddhists (rete internazionale dei buddhisti impegnati), ha recentemente scritto che:
«L'ecologia profonda riconosce l'urgente bisogno di un cambiamento radicale nella percezione del ruolo degli esseri umani nell'ecosistema. La nuova visione della realtà, in Asia, deve essere spirituale ed ecologica. Se baseremo il nostro sviluppo su questa nuova concezione, il nostro avvenire potrà essere radioso»3.
Per comprendere le ragioni della grande vicinanza all'ecologia profonda di così tanti illustri rappresentanti del buddhismo contemporaneo, è utile esaminare le affinità degli insegnamenti del Buddha con la filosofia ecologica, o ecosofia, elaborata dal fondatore e principale rappresentante di questo movimento, Arne Naess, perché a quest'ultima si sono rifatti più o meno tutti gli esponenti di rilievo dell'ecologia profonda4.
L'ecosofia di Naess ha un obiettivo essenzialmente pratico: cercare di porre rimedio agli squilibri ambientali del pianeta, conseguenza di uno scorretto rapporto dell'uomo con la natura. Naess considera questo insoddisfacente modo di relazionarsi dell'uomo con l'ambiente come il frutto di una percezione scorretta della realtà, di una concezione del mondo dualistica prevalsa nettamente in Occidente a partire dall'epoca moderna e poi diffusasi nel mondo intero, che, laddove vi sono relazioni, scorge insanabili opposizioni: fra soggetto ed oggetto, fra valori e fatti, fra essere e dover essere, fra uomo e natura. Tutto ciò non è che il risultato del tentativo di eliminare dalla sfera dell'oggettività quello che non è quantificabile e misurabile e dell'aver confuso le nostre astrazioni con la realtà concreta. Bisogna allora, secondo Naess, modificare la nostra immagine della realtà, reintrodurre le qualità nella natura, tenendo ben distinte quelle che sono le nostre "strutture astratte", ossia tutti quei concetti e quei parametri convenzionali, scientifici e non, che noi utilizziamo per interpretare la realtà ed orientarci in essa, dai "contenuti concreti", la nostra reale esperienza spontanea della natura, che per Naess è fatta di costellazioni o gestalt, cioè totalità organiche di relazioni, di cui lo stesso soggetto conoscente è parte integrante ed inscindibile. Naess propone perciò una forma radicale di relazionalismo e di filosofia del processo, che
«rifiuta l'immagine di una umanità inserita in un ambiente da cui è distinta, a favore dell'immagine del campo totale e relazionale. Gli organismi sono come nodi in una rete di relazioni intrinseche. Una relazione intrinseca tra due oggetti A e B è tale per cui la relazione stessa rientra nella definizione o nella stessa costituzione fondamentale dell'uno e dell'altro, cosicché senza tale relazione A e B non sono più la stessa cosa. Il modello del campo totale dissolve non solo l'idea dell'umanità inserita nella natura, ma qualsiasi idea di oggetto monolitico inserito in un ambiente - a meno che non si stia discutendo ad un livello superficiale o preliminare» [A. Naess, Ecosofia, tr. it. red edizioni, Como 1994, pp. 29-30].
Proprio per questo, a differenza della maggior parte degli eco-filosofi contemporanei, Naess ostenta provocatoriamente il suo disinteresse per l'etica ambientale a favore di quella che egli definisce "ontologia ambientale":
«Non sono molto interessato all'etica o alla morale. Sono interessato a come percepiamo il mondo. [...] L'etica è conseguenza di come noi percepiamo il mondo».5
«La maggior parte delle nostre azioni è conseguenza di come vediamo la realtà. In tal modo, quindi, io sconfino nell'ontologia: la dottrina che concerne il modo in cui le cose sono».6
«Sono favorevole a ciò che definisco un concentrarsi sull'ontologia ambientale, su come facciamo esperienza del mondo, su come lo vediamo, su come possiamo condurre la gente a vedere le cose in modo differente».7
Vedere le cose in maniera differente, condurre le persone a vedere le cose in maniera differente: ecco dunque cosa interessa a Naess. Non tanto indottrinarle, convincerle, ma far sì che esse stesse vedano, con i propri occhi, esse stesse facciano esperienza di una nuovo modo di percepire la realtà.
Esattamente la stesso percorso logico si può trovare nel buddhismo. Anche il buddhismo ha un eminente problema pratico da risolvere: dukkha, parola variamente tradotta come "dolore", "sofferenza", "pena", ma che ha in realtà il significato più ampio di "insoddisfazione". Anche nel buddhismo la causa di tale problema è da ricercare in una fondamentale "ignoranza" (avijja) che produce, dal punto di vista intellettuale, una "falsa visione" (miccha ditti) della realtà di tipo dualistico e, dal punto di vista etico, un comportamento viziato da una insaziabile "sete" (tanha) di possesso di tipo egoistico. Ma, soprattutto, anche nel buddhismo la soluzione del problema non sta tanto nel predicare un nuovo credo, convincere di una nuova fede (saddha), ma nel far sì che il discepolo, personalmente, giunga alla "comprensione delle cose così come sono" (yathabhutananadassanam), a "conoscere e vedere" (janati passati) "la natura delle cose" (dhammata): «La comprensione delle cose così come sono, dovunque esse siano, è la comprensione più elevata» [Anguttara Nikaya, V, 37]8. Proprio per questa enfasi sul "vedere di persona" (samam passati) "le cose così come sono" (yathabhutam) nel Canone Pali l'insegnamento del Buddha è descritto come un invito a "venire e vedere" (ehipassika) [Majjhima Nikaya, I, 37].
Le maggiori convergenze fra il pensiero di Naess e gli insegnamenti del Buddha riguardano però il contenuto di questa nuova visione della realtà, e le conseguenze di essa sul piano pratico. Secondo il racconto del risveglio che si trova nel Mahavagga del Vinaya Pitaka, la visione che il Buddha ebbe del dhamma coincide con la visione del paticcasamuppada, nel suo ordine diretto (anuloma) e inverso (patiloma). Il primo spiega l'origine di dukkha attraverso una serie causalmente connessa di eventi e condizioni, il secondo mostra come rimuovendo ad una ad una le cause che hanno prodotto dukkha si sia inevitabilmente condotti verso panna, ossia verso il nibbana, l'estinzione di dukkha. La dottrina del paticcasamuppada ricorre molte volte nei testi buddhisti, talvolta nella forma che enumera dieci o dodici anelli (nidana) interconnessi, talvolta nella forma più secca che stabilisce una relazione necessaria fra causa ed effetto: «Quando questo è presente, quello appare; dalla nascita di questo, quello sorge. Quando questo è assente, quello non appare; alla cessazione di questo, quello cessa» [Majjhima Nikaya, I, 262; II, 32; III, 63; Samyutta Nikaya, II, 28, 65, 95].
In lingua pali uppada è la forma sostantivata del verbo uppajjati, e significa "venire all'esistenza", "nascere", "sorgere"; sam invece significa "insieme" e paticca, come gerundio del verbo pacceti (pati + i, "ritornare a" o "ripiegare su"), è usato nel senso di "fondato su" o "in conseguenza di", "a causa di". Letteralmente, dunque, paticcasamuppada significa "in conseguenza del sorgere insieme", o, poiché è usato come sostantivo: "l'essere in conseguenza del sorgere insieme". Di solito le traduzioni lo rendono con: "co-produzione condizionata", "co-originazione dipendente", "sorgere condizionato".
Un'altra parola pali per riferirsi alla concezione della causalità del Buddha è idapaccayata, tradotto variamente come "la relazione di questo a quello", "relatività", "condizionalità", "correlazione", "causalità". I testi classici ne fanno sia un sinonimo di paticcasamuppada che un principio fondamentale del quale paticcasamuppada è una delle manifestazioni. Ad esempio nel Paccayasutta [Samyutta Nikaya, II, 25 e segg.] il Buddha parla di (a) causalità (paticcasamuppada) e (b) fenomeni causalmente condizionati (paticcasamuppanna dhamma). Secondo il Buddha, questi due concetti spiegano l'esistenza di ogni cosa in questo mondo: le cose individuali e le relazioni che esistono fra esse. Il modello causale agisce ad ogni livello: fisico, morale, sociale, psicologico e spirituale. Nel Paccayasutta il Buddha menziona quattro caratteristiche della causalità:
1. oggettività (tathata),
2. necessità (avitathata),
3. invariabilità (anannathata) e
4. condizionalità o correlazione (idapaccayata).
Queste sono le quattro caratteristiche che egli dice si possono reperire nelle relazioni causali che si stabiliscono fra i fenomeni.
La prima caratteristica evidenzia che per il Buddha la causalità non è solo una costruzione mentale, ma è eminentemente reale. L'oggettività della causalità è sottolineata quando la sua scoperta da parte del Buddha è comparata al ritrovamento di un antico regno (puranamrajadhanim) [Samyutta Nikaya, II, 105-106]. La seconda e la terza caratteristica, necessità e invariabilità, sottolineano la sua regolarità, il fatto che certe condizioni diano origine a certi effetti e non ad altri e che certi effetti siano determinati da certe condizioni e non da altre. La quarta caratteristica, la condizionalità (idapaccayata), è di gran lunga la più significativa poiché è egualmente distante dai due estremi del determinismo (incondizionata necessità) e dell'accidentalismo (incondizionata arbitrarietà). Per questo essa è stata usata come sinonimo di causalità.
È importante sottolineare come la derivazione sia di paticca che di paccaya dal verbo pacceti indichi che la natura di questa relazione causale non è la linearità, ma la reciprocità e mutualità, cioè il fatto che, nella relazione fra A e B, A dipenda da B allo stesso modo in cui B dipende da A. Secondo Joanna Macy in quest'idea della retroattività della causalità è presente in nuce il concetto di feedback della causalità cibernetica e sistemica, e quindi ecologica9. Sicuramente, comunque, è presente la nozione di processualità della relazione causale, ossia il fatto che essa non presupponga un universo statico, bensì dinamico, in divenire. Altra caratteristica di questa relazione, inoltre, è di essere costitutiva dell'identità di entrambi gli elementi relazionati, nel senso che l'identità di A non può sorgere o non può essere la stessa senza B, così come l'identità di B non può sorgere o non può essere la stessa senza A. Le identità di tutte le cose si producono dunque in una relazione di mutua causalità processuale ed intrinseca, proprio come nell'ecosofia di Naess.
L'universale applicabilità della legge di causalità reciproca è riconosciuta nel primo buddhismo allorché essa è usata per spiegare ogni tipo di fenomeno. Tra gli eventi che ricevono una spiegazione causale vi sono l'evoluzione e il dissolvimento del mondo, eventi naturali come la siccità ed il terremoto, ed anche la vita delle piante. Una particolare applicazione del principio di causalità è quella che si riferisce alla personalità umana, ma anche il processo psicologico è esplicato in termini di principio causale, così come il comportamento morale e sociale. Nei commenti al Canone Pali [Sumangalavilasini, Digha Nikaya Atthakatha, II, 432; Atthasalini, Dhammasangani Atthakatha, 272], tale onnicomprensività di azione della causalità è riassunta descrivendola come operante su cinque piani della realtà:
· fisico inorganico (utu-niyama),
· fisico organico (bija-niyama),
· psicologico (citta-niyama),
· morale (kamma-niyama) e
· spirituale (dhamma-niyama).
Poiché, invero, questi cinque ordini di esistenza esauriscono la totalità della realtà, è chiaro che per il pensiero buddhista nulla di ciò che esiste si può sottrarre al dominio della causalità.
Il Buddha dichiarò che la sua ricerca sulla natura delle cose lo aveva portato a scoprire la continuità del processo di mutua causalità (dhamatthitata, dhammaniyamata, o semplicemente dhammata). Fu proprio la conoscenza del modello della mutua causalità a permettere che egli ponesse fine a tutte le tendenze contaminanti della mente e quindi ottenesse la liberazione (vimutti) [Udana, I, 1]. Quando invece noi vediamo sostanze (atta) laddove vi sono solo relazioni (paccaya), e scambiamo gli aggregati (khandha) che formano il nostro essere per delle entità stabili e separate, e ci aggrappiamo a loro cosicché essi diventano i "cinque aggregati dell'attaccamento" (panc' upadanakkhandha), allora sorge in noi l'insoddisfazione (dukkha). Dukkha però è eliminabile tornando a guardare "le cose così come sono" (yathabhutam), e cioè nella loro reciproca, intriseca, ed universale relazionalità in continuo divenire. Nel buddhismo, dunque, paticcasamuppada, la mutua causalità, la reciproca relazionalità, è "la natura delle cose" (dhammata), [Samyutta Nikaya, II, 25; Anguttara Nikaya, V, 2-3; Majjhima Nikaya, I, 324].
È un modello, questo, del tutto analogo a quello che vediamo all'opera nell'ecosofia di Naess, là dove egli invita ad abbandonare tutti i punti fissi, le idee di sostanzialità, e vedere solamente relazioni impermanenti:
«Dobbiamo sforzarci di acquistare maggiore familiarità con la concezione del mondo di Eraclito: tutto scorre. Dobbiamo abbandonare i punti fissi, stabili, e conservare solo le relazioni di interdipendenza che sono piuttosto dirette e persistenti» [Ecosofia, cit., p. 58].
Come in Naess, inoltre, anche nel buddhismo la relazionalità oltre che totale, cioè avvolgente e coinvolgente ogni fenomeno esistente, è anche orizzontale, ossia, per usare il termine "colloquiale" proposto da Naess, "egualitaria" (Naess parla di "egualitarismo biosferico"), non gerarchica, paritaria. La reciproca compenetrazione universale non produce scarti, non vi sono entità, eventi o fenomeni esclusi, privilegiati o svantaggiati dal dominio incontrastato delle relazioni. Ogni fenomeno è il risultato dell'infinita complessità delle relazioni con tutti gli altri fenomeni ed al contempo condiziona, in maniera maggiore o minore, l'esistenza di tutti gli altri fenomeni. Come scrive Garma Chang, sintetizzando il pensiero della scuola cinese huayan:
«Niente in questo universo è un evento isolato. L'esistenza dell'evento A dipende dagli eventi B, C, D e viceversa. Non soltanto essi dipendono l'uno dall'altro, ma sussistono e si 'contengono' l'un l'altro nel senso che c'è inter-immanenza tra tutte le cose. Ogni cosa è di volta in volta un'immagine e anche un riflettore di tutte le altre cose».10
Tale "inter-immanenza" fra tutti i fenomeni è talmente vasta e profonda che la completa espressione delle potenzialità di un essere --nelle parole di Naess: la sua completa autorealizzazione (self-realization); nelle parole del buddhismo: la sua completa illuminazione (samma sambodhi)-- implica che tutti i rimanenti esseri, tutto l'universo, l'esprimano insieme a lui, poiché ogni processo di auto-realizzazione è in realtà un processo di co-realizzazione. Nel buddhismo l'idea della simultaneità universale dell'illuminazione è stata particolarmente sottolineata dalla tradizione mahayana:
«Se uno dice: "Ho ottenuto l'illuminazione, ma gli altri ancora non ce l'hanno", la sua illuminazione non può essere autentica. Se siete nell'illusione, tutto è nell'illusione. Se siete illuminati, tutto è illuminato. I sutra del mahayana dicono: "Le erbe, gli alberi e la terra senza eccezione ottengono la buddhità: le montagne, i fiumi e la grande Terra tutta mostrano il corpo del Dharma". Se si considerano queste parole solo come un'affermazione oggettiva che si riferisce alle montagne, agli alberi e così via oggettivamente staccati dall'illuminazione di qualcuno, queste parole possono suonare un po' ridicole. In realtà, le frasi del buddhismo mahayana menzionate poc'anzi esprimono la verità buddhista per cui è essenziale il simultaneo risveglio di sé e degli altri».11
Giustamente, dunque, Naess nota anche in questo caso l'assonanza del pensiero buddhista con il suo:
«Il livello in assoluto più elevato di autorealizzazione non può essere raggiunto da qualcuno senza che anche tutti gli altri raggiungano quel livello. (In modo abbastanza simile alle dottrine mahayana sui più elevati livelli di liberazione)».12
Ciò nonostante, in Naess come nel buddhismo, la totale relazionalità di tutti i fenomeni non elimina la loro diversità, la loro identità. La relazione intrinseca è tale precisamente perché, paradossalmente, pur nell'unità mantiene le diverse identità; o meglio: poiché fa essere, costituisce, le diverse identità proprio perché unite. Questo aspetto paradossale della relazione è ben espresso dall'esclamazione di Naess: «Nell'unità la diversità!» [Ecosofia, cit., pp. 221].
E Thich Nhat Hanh, quasi parafrasandolo:
«Se comprendiamo veramente la natura interdipendente della polvere, del fiore e dell'essere umano, riusciamo a scoprire che non può esserci unità senza diversità. Unità e diversità si penetrano l'un l'altra senza ostacoli. L'unità è la diversità e la diversità è l'unità. E' questo il principio dell'interessere».13
È proprio in virtù di questa contemporanea doppia funzione della relazione, di unione e differenziazione, che Naess può dire: «Noi cerchiamo il meglio per noi stessi, ma attraverso l'espansione del sé ciò che è meglio per noi è anche meglio per gli altri» [Ecosofia, cit., p. 223]. E il Satipatthana Samyutta, facendogli eco: «Proteggendo se stessi si proteggono gli altri, proteggendo gli altri si protegge se stessi». Oppure, nelle parole ancora una volta più esplicite di Thich Nhat Hanh: «I fiumi, gli oceani, le foreste, le montagne, la terra e le rocce: tutto è il nostro corpo. Proteggere l'ambiente vivente vuol dire proteggere noi stessi. Questa è la natura organica, non-dualistica, del modo buddhista di considerare i conflitti, i problemi dell'ambiente e l'amore»14. Questo atteggiamento non può più essere definito né egoismo né altruismo poiché, come affermano tanto gli scritti di Naess che quelli buddhisti:
«Attraverso un "sé" sufficientemente ampio e profondo l'ego e l'alter in quanto opposti sono, gradatamente, eliminati. La distinzione fra ego e alter è, in certo qual modo, trascesa».15
«Per chi ha acquietato il proprio intimo non c'è più un io; e come potrebbe esservi un non io?» [Sutta Nipata, 919].
Infine, come in Naess, anche nel buddhismo la completa interdipendenza di tutte le entità fa saltare tutte le dualità, compresa quella fra fatti e valori. Questo è particolarmente evidente nell'Agannasutta del Digha Nikaya, in cui è descritto mitologicamente il graduale declino della società da una lontana età di perfezione ad un'età oscura e di decadenza: la nostra. Ebbene, ogni lento peggioramento delle condizioni dell'umanità viene attribuito ad un incremento di tanha nelle sue varie forme: avversione (dosa), brama (raga o lobha) e illusione (moha). Ed ogni peggioramento delle condizioni interne, della mente, ha un corrispettivo nel peggioramento delle condizioni esterne, dell'ambiente. Ciò del resto è in perfetta sintonia con quanto suggerisce lo schema, ricordato in precedenza, dei cinque piani della realtà in cui opera la causalità: fisico inorganico, fisico organico, psicologico, morale e spirituale. Secondo la legge dell'interdipendenza, questi cinque tipi di causalità non sono mai separati gli uni dagli altri, ma agiscono anche compenetrandosi a vicenda; ossia la causalità agisce contemporaneamente nei cinque piani di realtà e fra i cinque piani di realtà.
Ci si potrebbe chiedere, giunti a questo punto, se le nozioni di "campo relazionale totale", di "gestalt", di "autorealizzazione", così come quelle buddhiste di "co-originazione dipendente" o di "illuminazione" siano ancora solo dei concetti astratti o se siano veramente il contenuto concreto dell'esperienza diretta della realtà così com'è. Anche in questo caso si rivelano le forti affinità fra il pensiero di Naess e quello esposto negli insegnamenti buddhisti. L'atteggiamento che infatti Naess manifesta è di tipo pedagogico, il suo scopo rimane sempre eminentemente pratico: condurre le persone a vedere le cose in modo differente, all'esperienza spontanea della realtà, ai contenuti concreti al di là delle strutture astratte, delle interpretazioni, e tuttavia servendosene qualora aiutino nel percorso:
«Il campo relazionale, come la materia nella fisica matematica, si colloca a questo livello di esistenza concettuale. Il relazionismo ha un valore ecosofico, perché aiuta a scalzare la tendenza a vedere gli organismi o le persone come qualcosa che può essere isolato dal proprio ambiente» [Ecosofia, cit., p. 65].
Perciò le stesse nozioni fondamentali dell'ecosofia di Naess, in quanto concetti, vanno alla fine trascese. L'esperienza della gestalt, il contenuto della gestalt, non è la sua formulazione teorica, così come, in ambito buddhista, le nozioni di buddhità, o di interdipendenza, o di vacuità, pur indispensabili nel corso del sentiero, vanno alla fine trascese per conseguire la vera liberazione, la comprensione diretta della realtà così com'è.
Le conseguenze pratiche dell'ecosofia di Naess fanno sì che per essa l'etica sia legata indissolubilmente non tanto all'azione morale, ma all'azione bella, com'egli la definisce, ossia all'azione che trae origine non tanto dal seguire delle norme, delle regole, una precettistica --che pure possono essere dei mezzi utili--, ma dal comprendere la natura relazionale e processuale del nostro sé e della realtà. Etica e conoscenza sono dunque strettamente legate, come due facce della stessa medaglia:
«Più riusciamo a comprendere il legame che ci unisce agli altri esseri, più ci identifichiamo con loro, e più ci muoveremo con attenzione. In questo modo diventeremo anche capaci di godere del benessere degli altri e di soffrire quando una disgrazia li colpisce. Noi cerchiamo il meglio per noi stessi, ma attraverso l'espansione del sé ciò che è meglio per noi è anche meglio per gli altri. La distinzione tra ciò che è nostro e ciò che non lo è sopravvive solo nella grammatica, non nei sentimenti» [Ecosofia, cit., p. 223].
"Identificazione" è, per Naess, il processo autorealizzativo attraverso cui comprendiamo parti sempre maggiori di quel nodo di relazioni intrinseche che noi siamo entro il campo relazionale totale del mondo, e attraverso cui il nostro piccolo sé ego-centrico si espande verso un sé realmente eco-centrico o ecologico (ecological self).
Da questo punto di vista, l'etica in Naess non è rigettata, come vorrebbe una sua lettura superficiale, ma portata alla sua massima realizzazione, tale per cui non ha più bisogno di norme e di imperativi per essere rispettata. Lungi dall'essere respinta, l'etica normativa può svolgere una funzione preliminare importante, ma al termine del percorso conoscitivo diviene semplicemente superflua:
«Non è necessaria alcuna opera di moralizzazione, proprio come noi non abbiamo bisogno della morale per respirare. [...] La necessaria attenzione fluisce naturalmente se il 'sé' è ampliato e approfondito, cosicché il proteggere la natura è sentito e percepito come un proteggere se stessi. [...] Se la realtà è quella percepita dal sé ecologico, il nostro comportamento segue in modo naturale e bello rigorose norme di etica ambientale».16
Questo stesso rapporto fra etica e conoscenza è reperibile anche negli insegnamenti del Buddha. Tradizionalmente il sentiero buddhista inizia con la pratica di sila, la moralità, e termina con la realizzazione di panna, la saggezza. Sila consiste nel seguire un certo numero di precetti suddivisi in vari insiemi principali. Il fatto che l'ottuplice sentiero inizi con sila non significa però che la moralità sia solo uno stadio preliminare. L'intero sentiero (magga) buddhista è, dal principio alla fine, l'insieme di sila e panna, etica e conoscenza. Non vi è una linea diretta che porta da sila a panna, esse possono crescere solo insieme, perché sono le due facce, emotiva e intellettuale, di uno stesso conseguimento: il nibbana.
Da questo punto di vista è corretto dunque affermare che vi è una continuità fra magga e nibbana e che quest'ultimo rappresenta non tanto il trascendimento, bensì il perfezionamento dell'etica. Damien Keown ha dedicato un intero libro alla dimostrazione di questo assunto: The Nature of Buddhist Ethics, Macmillan, London 1992. Tuttavia, Keown cade nell'opposto estremismo di credere che la differenza fra il risvegliato e chi sta ancora seguendo il sentiero sia, in ultima analisi, una differenza solo quantitativa e non invece anche qualitativa. Il Buddha, colui che ha conseguito il nibbana, agisce in modo perfettamente etico non perché obbedisca ad un qualche codice morale, ma perché gli risulta impossibile fare altrimenti, perché la sua comprensione della realtà lo porta inevitabilmente ad agire in un certo modo: «Tre cose dalle quali un Tathagata non deve guardarsi: un Tathagata, amici, è puro nella condotta, riguardi essa l'azione, la parola o il pensiero. Non vi è misfatto di alcun tipo riguardo il quale egli debba fare attenzione affinché qualcun altro non ne venga a conoscenza» [Digha Nikaya, III, 217].
Infatti, come giustamente afferma a questo proposito Stephen Batchelor: «L'intuizione che tutte le cose sono legate tra loro da un rapporto di interpenetrazione trasforma le nostre relazioni con quelli che ci sono vicini, rendendo semplicemente impossibile un atteggiamento di indifferenza, mentre il mondo sta andando in fiamme. In un certo senso, rendersi conto della interdipendenza della vita è una esperienza dolorosa. Non si può rimanere isolati, cullandosi nella comoda illusione del nostro io separato da tutto il resto. Giunti a questo punto, la compassione cessa di essere una buona azione deliberata, ma diventa un bisogno istintivo. 'Benché si agisca in tal modo per il bene degli altri', nota Santideva, 'non c'è nessun senso di meraviglia o di vanità. È come quando si nutre se stessi; non si spera nulla in cambio'».17
E' proprio questa spontaneità della condotta etica, questo essere morali senza essere moralisti, senza cioè che ciò sia il frutto di un calcolo o di una sottomissione deliberata a qualche tavola di norme e principi ritenuti veri ed indiscutibili, che fa parlare per l'illuminato buddhista di un trascendimento dell'etica, di un suo essere "al di là del bene e del male". In termini buddhisti, egli è detto aver oltrepassato il merito (punna) e il demerito (papa), il bene (kusala) e il male (akusala), il giusto (dhamma) e l'ingiusto (adhamma) [cfr. Digha Nikaya, III, 217; Samyutta Nikaya, II, 82; Majjhima Nikaya, I, 135; Sutta Nipata, 520, 790, 803; Dhammapada, III, 39 e XIX, 267]. La pratica dei precetti, il credere nell'accumulo di meriti e di virtù, cioè di buon kamma, è certamente utile, salutare, per le persone non illuminate che, avendo ancora ben radicata la falsa credenza in un ego, senza questo abile mezzo rischierebbero di accrescere sempre più la propria sofferenza ed il proprio egoismo, arrecando danno a sé ed agli altri. Ma una persona completamente risvegliata alla propria vera natura può comprendere, come afferma Sheng-yen, che: «in realtà non c'è alcun merito o virtù di cui parlare. Merito e virtù esistono solo in relazione a un sé percepito. [...] Le persone illuminate potrebbero anche dire che non c'è nessuna cosa come la sapienza o l'ottenimento; l'illuminazione non è ottenuta attraverso sapienza o merito perché la virtù, la sapienza ed il merito sono concetti relativi. Pertanto dalla prospettiva illuminata è corretto dire che non c'è merito o virtù».18
Ciò non significa, ovviamente, che le persone illuminate siano immorali, o che ignorino il mondo delle cause e delle conseguenze, cioè la prospettiva ordinaria dell'uomo auto-centrato. Piuttosto, esse sono talmente "morali", hanno a tal punto dissolto l'idea di ego, che non hanno più bisogno nemmeno del concetto di moralità, cioè di un criterio astratto cui riferire di volta in volta un merito o un demerito, una virtù o un vizio, per poi sperare in premi o temere punizioni. Per questo Sheng-yen può affermare che: «Sakyamuni Buddha visse nel mondo e interagì con le persone e l'ambiente. Gli esseri senzienti lo videro nel loro modo, e dissero che il Buddha compì buone azioni, insegnò il Buddhadharma e aiutò a salvare degli esseri senzienti. Ma il Buddha non vedeva in questo modo. Egli solamente agì spontaneamente».19
Il fatale fraintendimento di D. Keown al riguardo consiste nel credere che essere "al di là" del bene e del male, nel senso che si è appena specificato, significhi in realtà essere "al di sotto" del bene e del male, ossia essere semplicemente amorali. Egli vede cioè l'oltrepassamento dell'etica non come un di più, che conserva l'agire morale rendendolo però perfettamente spontaneo, ossia purgandolo da ogni elemento egoico, ma come un di meno, che elimina qualsiasi possibilità di poter distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male, tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, tra ciò che è virtù e ciò che è vizio.
In definitiva, quindi, il Buddha, come l'ecosofia di Naess, non predica l'amoralità, ma una via che conduce al definitivo superamento di una certa etica, di una certa morale, ossia quelle basate sull'obbedienza volontaristica a determinate norme, determinati valori, determinati precetti, determinati principi. Al contrario il risvegliato, avendo compreso la natura della realtà, sradica ogni possibilità di agire in preda agli offuscamenti mentali ed agisce in modo compassionevole spontaneamente, non forzatamente. E' da questo punto di vista, e solo da questo, che i precetti dell'etica buddhista debbono considerarsi trascesi, superati, dall'illuminato. Egli non li trascende perché li rigetta, li considera errati, o perché agisce contro di essi, ma semplicemente perché non ne ha più bisogno. La parabola della zattera, pronunciata dal Buddha nell'Alagaddupamasutta del Majjhima Nikaya, sta proprio ad indicare questo distacco e questo superamento che chi ha portato a compimento il sentiero di perfezionamento buddhista inevitabilmente opera non solo nei confronti di sila, ma anche di samadhi e panna, ossia dell'intero sentiero buddhista.
La grande affinità fra gli insegnamenti buddhisti ed il pensiero sistemico ed ecologico, e la sostanziale identità, a livello teorico, fra il pensiero ecosofico di Naess e quello buddhista, rende ragione del fatto che sempre più buddhisti si avvicinino, anche attivamente, al movimento dell'ecologia profonda ed al bioregionalismo, che ne costituisce una delle principali applicazioni a livello ambientale e sociale e di cui Gary Snyder è l'esponente più noto a livello internazionale insieme a Peter Berg e Kirkpatrick Sale20. Il contributo veramente rilevante che il buddhismo può dare al movimento ecologico profondo, però, si situa non tanto o non solo a livello teorico, sul cui piano anche in Occidente si sono date molteplici dottrine richiamantesi a modelli di realtà di tipo organicistico, ma in ambito pratico, potendo esso mettere a disposizione dell'ambientalismo tutta una serie di millenarie pratiche meditative di attenzione e consapevolezza profonde nei confronti dell'interdipendenza di tutti gli esseri che consentono di sviluppare potentemente proprio quei processi che Naess chiama di indentificazione con parti del nostro sé ecologico sempre più ampie. L'ecologia profonda si presenta dunque come lo sbocco naturale del buddhismo sul piano ambientale e sociale e come una delle forme più caratteristiche ed interessanti che il Dharma sta attualmente assumendo in Occidente.
 
 
Note
1- B. Devall e G. Sessions, Ecologia profonda, tr. it. Edizioni Gruppo Abele, Torino 1989; F. Capra, Ecologia profonda: un nuovo paradigma, in Id., La rete della vita, tr. it. Rizzoli, Milano 1997, pp. 13-24.
2- M. Batchelor e K. Brown, a cura di, Ecologia buddhista, tr. it. Neri Pozza, Vicenza 2000, pp. 152-153. 
3- S. Sivaraksa, Semi di pace. Una visione buddhista per rinnovare la società, tr. it. Ubaldini, Roma 1993, p. 74. 
4- L'unico scritto, per altro breve e poco sistematico, che finora Arne Naess ha dedicato alla comparazione fra la propria ecosofia e le dottrine buddhiste è: Pensiero della gestalt e buddhismo, tr. it. in «Simplegadi. Rivista di filosofia orientale e comparata», 4, 1, 1999, pp. 3-13. 
5- W. Fox, Toward a Transpersonal Ecology, Shambhala, Boston – London 1990, p. 219. Queste parole sono riportate da una conferenza che Naess tenne in Australia nel 1984.
6- D. Rothenberg, Is It Painful to Think? Conversations with Arne Naess, University of Minnesota Press, Minneapolis – London 1993, p. 153. 
7- A. Light, Deep Socialism? An Interview with Arne Naess, in «Capitalism, Nature, Socialism», 8, 1997, p. 84. 
8- Tutti i testi del Canone Pali sono citati secondo l'edizione della Pali Text Society. 
9- J. Macy, Mutual Causality in Buddhism and General Systems Theory. The Dharma of Natural Systems, State University of New York Press, Albany 1991 p. 54. 
10- G.C.C. Chang, La dottrina buddhista della totalità, tr. it. Ubaldini, Roma 1974, p. 148. 
11- M. Abe, Il concetto di "sé" nei maestri zen, tr. it. in «Paramita», n. 45, 12, 1993, pp. 9-10. 
12- A. Naess, Self-realization in Mixed Communities of Humans, Bears, Sheep, and Wolves, in «Inquiry», 22, 1979, p. 236. 
13- Thich Nhat Hanh, Il sole, il mio cuore, in A. Kotler, a cura di, Buddhismo impegnato, tr. it. Neri Pozza, Vicenza 1999, p. 190. 
14- Thich Nhat Hanh, Il diamante che recide l'illusione. Commento al Sutra del Diamante della Prajnaparamita, tr. it. Ubaldini, Roma 1995, p. 106.
15- A. Naess, Self-realization. An Ecological Approach to Being in the World, in G. Sessions, ed., Deep Ecology for the Twenty-First Century, Shambhala, Boston – London 1995, p. 235.
16- A. Naess, Self-realization. An Ecological Approach to Being in the World, in G. Sessions, op. cit., pp. 233 e 236.
17- S. Batchelor, Le sabbie del Gange. Note per una filosofia ecologica buddhista, in M. Batchelor e K. Brown, op. cit., pp. 64-65. Il passo di Santideva cui fa riferimento Batchelor si trova nel Bodhicaryavatara, VIII, 116.
18- C. Marano, ed., Zen Wisdom Knowing and Doing. Thirty-Eight Conversations with Ch'an Master Sheng-yen, Dharma Drum Publications, New York 1993, p. 195.
19- Ivi, p. 173.
20- Cfr. K. Sale, Le regioni della Natura: la proposta bioregionalista, tr. it. Elèuthera, Milano 1991; G. Snyder, La grana delle cose, tr. it. Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987; Id., Nel mondo selvaggio, tr. it. red edizioni, Como 1992; Id., Ri-abitare nel grande flusso, tr. it. Arianna Editrice, Casalecchio (BO) 2001. Si veda anche M. Valli, Il Buddha verde. Meditazione, politica, ecologia, Promolibri, Torino 1997, e B. Devall, Sangha ecocentrico, in A. Kotler, op. cit., pp. 210-219.