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Se il paesaggio ha una storia

di Marco Unia - 23/03/2007

Parla lo studioso Carlo Tosco: «Con la pittura romana nasce il concetto di paesaggio: lo testimoniano gli affreschi delle ville di Pompei. Nel Medioevo abbiamo Simone Martini e Ambrogio Lorenzetti»

 

«Nel Rinascimento le pitture di città e di territori si impongono» «La cartografia diventa essenziale con Gregorio XIII e Von Humboldt»

 

La pineta di Ravenna minacciata dalle bonifiche di inizio Novecento, la vegetazione e i popoli dell'Orinoco nell'Ottocento, l'immagine del monte Ventoux nel Trecento: luoghi tra loro distanti nel tempo e nello spazio che l'intelletto umano ha ravvicinato, cogliendone la comune essenza nel concetto di paesaggio. Un'idea che conosce un crescente interesse in ambito culturale e politico, sia italiano che europeo, testimoniato dalla ratifica nel 2001 della Convenzione europea del paesaggio, e dalla promulgazione nel 2004 del nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio. Con Il paesaggio come storia (Il Mulino, pagine 135) lo studioso Carlo Tosco ricostruisce l'evoluzione di questo concetto, offrendo una sintesi che riempie un vuoto bibliografico percepito sia dagli appassionati che dagli specialisti del settore.
Professor Tosco, quando e dove nasce il concetto di paesaggio?
«La migliore risposta alla domanda si ottiene andando a visitare il museo archeologico di Napoli e le ville di Pompei: già nel I sec. d.C. i romani amano riprodurre negli affreschi spazi aperti, colline, boschi, laghi. La pittura romana, e in parte la letteratura coeva, è la culla dell'idea di paesaggio».
Dopo l'età imperiale l'interesse per il paesaggio si inabissa, per poi ricomparire con forza nel rinascimento italiano. Come si spiega questo andamento irregolare?
«Nel Medioevo si seguono altri codici iconografici e la natura assume valori simbolici. La riscoperta del paesaggio è dapprima una fiammata improvvisa e isolata nella Siena del Trecento: pensiamo alla rappresentazione della gesta di Guidoriccio da Fogliano eseguita da Simone Martini nel 1328 e agli affreschi coevi di Ambrogio Lorenzetti presso il Palazzo Pubblico. L'incendio però si espande in età umanistica e prosegue nel rinascimento: verso la metà del Cinquecento le pitture di città e territori divengono un tema alla moda nelle dimore di principi e signori».
Pinturicchio, Paolo Uccel lo, Carpaccio, Bellini e i primi vedutisti veneziani, tutti propongono scorci naturali: cosa si nasconde dietro l'esplosione di questo fenomeno?
«Un rapporto forte tra l'immagine raffigurata e il suo dominio. Per un principe possedere dipinti che illustrano i suoi territori significa conoscerli e governarli: così i Gonzaga nella Masseria del Comune commissionano un grande affresco (in parte conservato) che riproduce i castelli e i villaggi del contado nel loro ambiente rurale. E papa Gregorio XIII fa eseguire la galleria delle carte geografiche: i lavori in Vaticano durano dal 1580 al 1583 e il risultato sono quaranta mappe affrescate che mostrano la topografia delle regioni italiane. In questo caso l'accento non cade sul potere temporale ma sulla vocazione spirituale della chiesa, dimostrando l' ecumenismo cattolico».
Verso la fine del Settecento e l'inizio del 1800 dalla descrizione di territori antropizzati si passa decisamente a quella di luoghi naturali: ad esempio le Alpi diventano un soggetto immancabile nel repertorio romantico.
«Vero. Il romantico ama il paesaggio senza l'uomo. Rousseau nel romanzo epistolare Nouvelle Eloise descrive, con entusiasmo, il suo smarrirsi nel folto della foresta disabitata durante una passeggiata in montagna: è la società che corrompe l'uomo, il ritorno alla natura è segno di purificazione.»
Nei primi dell'Ottocento iniziano anche le pubblicazioni delle ricerche di Von Humboldt, il pioniere della cartografia moderna: in che modo questi scritti trasformano l'idea di paesaggio?
«È una trasformazione radicale: da concetto estetico e soggettivo diventa una realtà oggettiva e scientifica. Humboldt ricerca il carattere di un luogo e considera il paesaggio come un documento da studiare utilizzando le conoscenze botaniche, zoologiche, geologiche».
Più ci avviciniamo al presente, più i modelli interpretativi per la lettura del paesaggio si moltiplicano: sociologi, storici, economisti, b iologi, ecologi, cartografi, antropologi si interessano al tema. Non c'è il rischio che l'argomento diventi un calderone vuoto, un grande recipiente di cui è possibile asserire tutto e il suo contrario?
«Non penso, anche se è chiaro che la chiave di lettura deve ormai essere un rapporto interdisciplinare. E per parte mia ritengo che il concetto di paesaggio culturale, in cui è contenuta l'indicazione di un approccio storico-culturale, sia il modo migliore per interpretare la realtà in cui viviamo: il territorio è il luogo d'elezione della microstoria».
E così il paesaggio diventa un museo all'aria aperta, immutabile e noioso: un destino beffardo per una realtà nata dal lavoro e dalla creatività degli uomini.
«È vero, la tutela passiva è stata per lungo tempo lo strumento adoperato per salvare le bellezze ambientali, ma ora si può passare ad una fase di valorizzazione. Basandoci sempre sulle conoscenze acquisite grazie ad un metodo storico».
Quando si tratta di mettere in pratica le norme emergono però le difficoltà ad agire. Ad esempio, se dovessi usare il criterio della biodiversità, non potrei mai salvaguardare il paesaggio delle colline senesi o quello delle Langhe, che sono dei controsensi dal punto di vista naturale…
«I cipressi isolati sulle cime delle colline e i filari ininterrotti delle vigne stridono con l'idea di armonia naturale, ma sono bellezze che vanno tutelate. La storia infatti le ha salvaguardate e rese celebri: il criterio storiografico è salvo».
Ma se la storia dovesse preservare per qualche decennio o secolo un "ecomostro", l'approccio storico ci obbligherebbe in futuro a tutelarlo?
«Sì. Ciò che passa il vaglio della storia ha ragione di esistere. Come la torre Eiffel».