Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Eppure, piaccia o no, si dovrà tornare a parlare delle razze: nel bene come nel male

Eppure, piaccia o no, si dovrà tornare a parlare delle razze: nel bene come nel male

di Francesco Lamendola - 17/10/2016

Eppure, piaccia o no,  si dovrà tornare a parlare delle razze: nel bene come nel male

Fonte: Il Corriere delle regioni

 

 

 

 

Il razzismo, inteso come discriminazione, come sopraffazione e come arroganza di una razza rispetto ad altre, è, fortunatamente, non solo finito, ma sepolto e divenuto moralmente insostenibile. Questa è senza dubbio una conquista civile e culturale del XX secolo, una delle poche. Da un punto di vista cristiano, del resto, l’idea che tutti gli uomini, in quanto figli di Dio, sono fratelli, e dunque meritevoli di uguale dignità, risale ai primordi stessi della Chiesa ed è insita nel messaggio del Vangelo: si pensi alla parabola del buon samaritano, narrata da Gesù per schiaffeggiare a sangue la iattanza giudaica nei confronti di un popolo considerato idolatra e “inferiore”). Dunque, l’idea della fratellanza umana è cristiana, e precede di 1.700 anni la Rivoluzione francese e il trinomio illuminista di liberté, fraternité ed egalité.

Tuttavia, siamo sicuri di non aver gettato via il bambino insieme ai pannolini sporchi? Abbiamo subito tutti, dopo la Seconda guerra mondiale, un terribile e sistematico lavaggio del cervello, che, negli ultimi anni, è stato ulteriormente accelerato: siamo stati vittime di un ricatto morale, di un indottrinamento ideologico e di una insostenibile pressione psicologica, il tutto accompagnato da una sistematica distorsione della verità storica e da una martellante campagna di omologazione culturale – e, da ultimo, anche religiosa. Il risultato è che si sono creati in noi dei riflessi condizionati, degli automatismi mentali, per cui non siamo più capaci di guardare le cose come sono: le vediamo attraverso la nebbia e la distorsione di chi ha programmato tutto questo, e di chi sta giocando con la nostra aspirazione al vero, al giusto e al buono.

Dunque, dicevamo: le razze. Partiamo dal pensiero politically correct, quello delle Nazioni Unite. Nel 1950, a Parigi, vedeva la luce il primo documento in proposito, che avrebbe fatto da modello per tutti i successivi, intitolato Dichiarazione sulla razza e approvato dall’U.N.E.S.C.O., acronimo che sta per Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, dunque l’organo principale dell’O.N.U, che si occupa di cultura ed educazione. Vale la pena di riportare la definizione di “razza” espressa in questo documento, che tanto peso avrebbe avuto e che con tanta forza sarebbe stato imposto ai politici, agli intellettuali, agli operatori scolastici, fino ad imprimersi, con caratteri indelebili, nella coscienza dei popoli e da acquistare il valore di un dogma religioso (vale a dire, il valore che i dogmi religiosi avevano un tempo in Europa, quando la religione era una realtà viva e sentita da centinaia di milioni di persone):

 

Una razza, dal punto di vista biologico, può essere definita come uno dei gruppi di popolazioni che costituiscono la specie Homo sapiens. Questi gruppi sono in grado di ibridarsi l'uno con l'altro, ma, in virtù delle barriere isolanti che in passato li tenevano più o meno separati, manifestano alcune differenze fisiche a causa delle loro diverse storie biologiche.

In breve, il termine "razza" indica un gruppo umano caratterizzato da alcune concentrazioni, relative a frequenza e distribuzione, di particelle ereditarie (geni) o caratteri fisici, che appaiono, oscillano, e spesso scompaiono nel corso del tempo a causa dell'isolamento geografico.

In materia di razze, le uniche caratteristiche che gli antropologi possono efficacemente utilizzare come base per le classificazioni sono quelle fisiche e fisiologiche.

In base alle conoscenze attuali non vi è alcuna prova che i gruppi dell'umanità differiscano nelle loro caratteristiche mentali innate, riguardo all'intelligenza o al comportamento.

 

Si tratta di un documento esemplare, nel suo genere, quanto a vischiosità, ipocrisia e falsificazione ideologica della realtà. Da un lato, infatti, si riconosce che vi sono “alcune differenze fisiche” causate dalle “diverse storie biologiche”; dall’altro, anche se non si nega (per il momento; ma lo si sarebbe fatto più tardi) che le razze esistano, si sottolinea, però, che esiste una sola specie umana, la specie Homo sapiens, e si afferma che non vi è alcuna prova che esistano delle differenze “mentali”, ma si constatano solo delle differenti “caratteristiche fisiche e fisiologiche”. Strano, molto strano. Le differenze ci sono, ma sono solo esteriori; a livello mentale, nessuna. Ciò sarebbe un unicum nel mondo della natura: in ogni altro caso a noi noto, se esistono delle significative differenze fisiche e biologiche, queste si accompagnano a delle differenze di attitudini, di capacità, e - vogliamo dirlo? - d’intelligenza.

Questo, però, attualmente, è un discorso impossibile da fare: il condizionamento mentale cui siamo stati sottoposti lo rende semplicemente irricevibile. L’ombra di Auschwitz pesa come un macigno; del resto, perché stupirsene? C‘è stato qualcuno - un filosofo,  addirittura – che si è chiesto se si possa ancora fare poesia, dopo Auschwitz; un altro ha domandato se si possa ancora parlare di Dio. L’orrore, la vergogna, il senso di colpa della nostra cultura per quello che è accaduto, hanno reso impossibile parlare serenamente delle razze; e quei sentimenti, il senso di colpa specialmente, sono stati sapientemente rinfocolati, sfruttati, manipolati, in modo che la piaga rimanga sempre aperta, e che il disprezzo di sé degli Europei si mantenga perennemente vivo. In tali condizioni, cioè paralizzati e ipnotizzati da piaghe morali e psicologiche che non possono, che non devono cicatrizzarsi, siamo giunti all’appuntamento con la globalizzazione.

Da alcuni decenni il nostro continente è oggetto di una sistematica, capillare, inarrestabile invasione; per meglio dire, di una metodica sostituzione di popolazione. Al male della denatalità si è sommato l’impatto con l’ingresso di milioni d’immigrati, sempre più spesso accompagnati o raggiunti dalle loro famiglie, che hanno, al contrario, un tasso d’incremento demografico molto alto. Nel giro di un paio di generazione, gli Europei saranno diventati minoranza in casa propria. Ma tutto questo non è percepito nelle sue reali dimensioni; la cultura dominante e l’informazione pubblica, al contrario, si prodigano per minimizzare l’evento, per nasconderne le implicazioni e le conseguenze a breve e a lungo termine. Si parla di “profughi”, anche se pochissimi di loro riceveranno il riconoscimento giuridico in quanto tali; si parla di “migranti”, quando sono invasori; si parla di “disperati”, quando si vedono legioni di giovanotti in buona salute, dai venti ai trent’anni, quasi tutti maschi, ben decisi a pretendere di essere accolti in Europa, e di stabilirsi nel Paese di loro preferenza. Soprattutto, ci si guarda bene dal domandare ai cittadini europei che cosa pensino di tutto ciò; i governanti non lo domandano, però esigono che i cittadini siano accoglienti, ospitali e tolleranti; e la Chiesa cattolica esige dai fedeli che siano misericordiosi e solidali, come il buon samaritano nella parabola evangelica.

Si finge di non sapere da dove vengono i finanziamenti, cioè da quegli stessi sceicchi del Golfo Persico e da quella stessa casa reale saudita che finanziano, più o meno scopertamente, anche il terrorismo anti-occidentale; e si finge di non capire che questi migranti/invasori, essendo al 90% di religione islamica, nel giro di pochi anni islamizzeranno l’Europa. Si finge di non vedere che essi non vogliono affatto integrarsi; che molti di loro nutrono un profondo disprezzo nei confronti della nostra civiltà, dei nostri valori, delle nostre regole di convivenza; che aspettano solo di essere più numerosi per cominciare a pretendere l’instaurazione dei loro usi e costumi, della loro idea dello stato e della religione, delle loro regole di convivenza civile. Soprattutto, si dà per scontato che i cittadini europei resteranno buoni e zitti, o, al massimo, sfogheranno il loro malumore con qualche chiacchiera da bar, con qualche gesto di stizza in ambito privato; ma ci si guarda bene dall’indire un referendum, dal proporre la questione degli immigrati come un tema di pubblico dibattito. Chi non è d’accordo con l’invasione e l’islamizzazione dell’Europa viene escluso a propri da qualunque dibattito, da qualsiasi discussione: è solo un individuo razzista, xenofobo, violento, ignorante,  populista e reazionario, meritevole del massimo disprezzo.

La cultura dominante, i mass media, gli intellettuali che godono di visibilità pubblica, dicono e ripetono che le migrazioni ci sono sempre state; che esse sono un bene per i popoli e le civiltà, poiché, mescolando il sangue e gli stili di vita, creano un arricchimento spirituale e un rinnovamento delle abitudini; insomma, che stimolano il progresso e fanno andare avanti la storia dell’umanità. Nello stesso tempo, siccome è assolutamente vietato parlare di razze, nessuno può permettersi di osservare che, per esempio, l’Impero Romano fu, effettivamente, invaso da masse di popoli “barbari”, però quei barbari – gli antichi Germani – erano rappresentati da una razza giovane, sana fisicamente e spiritualmente, che portava energie fresche, e che fu questo a rinnovare la vita dell’Europa, insieme alla diffusione del cristianesimo. Sostenere che qualunque apporto di popolazione è positivo in se stesso, indipendentemente dal genere specifico di apporto, è pura follia: ma non lo si può dire. Quando il cardinale Giacomo Biffi dichiarò che l’Italia avrebbe dovuto selezionare e scremare un poco la massa degli immigrati, e accordare la preferenza a quelli di religione cattolica, molti si stracciarono le vesti e sostennero, sia con argomenti laici che religiosi, che fare discriminazioni sarebbe sbagliato, incivile e immorale; che bisogna accogliere tutti, ma proprio tutti, e, anzi, che bisogna sentirsi in colpa per quelli che muoiono nel naufragio dei barconi, durante la traversata del Mediterraneo. E questo nonostante che la Marina italiana, invece di servire quale strumento della difesa delle nostre coste e dei nostri mari, e insomma del nostro interesse nazionale, sia stata declassata a svolgere un servizio di trasporto gratuito degl’immigrati clandestini, alcuni dei quali certamente terroristi, e molti dei quali sicuramente portatori di malattie (di questo non si parla mai; eppure ci avevano raccontato, per anni, che quasi metà della popolazione africana era sieropositiva all’HIV!). I nostri marinai sono diventati infermieri, barellieri, vivandieri e baby-sitter a servizio dei migranti/invasori, che giungono anche con donne incinte e bambini, per aumentare la pressione psicologica e tener sempre vivo il ricatto morale.

Ma si tratta, almeno, di una buona razza, che viene a rinnovare le stanche energie dell’Europa, a rivitalizzare una civiltà indebolita dal benessere e dal disamore di sé? Si tratta di individui appartenenti a popolazioni attive, laboriose, disciplinate, moralmente sane, e capaci di nutrire rispetto e deferenza per la civiltà che le accoglie? I Germani che migrarono nel tardo Impero romano, pur se disprezzavano la mollezza dei Romani della decadenza, ammiravano, però, e rispettavano, la loro civiltà: il re ostrogoto Teodorico soleva dire che un Goto non può che desiderare di assomigliare ad un Romano, mentre un Romano che volesse somigliare a un Goto, sarebbe un degenerato. Fu Teodorico a far restaurare le strade, gli edifici, i monumenti, le statue, le opere della civiltà di Roma, quando ormai i Romani se ne disinteressavano, e lasciavano cadere a pezzi i simboli gloriosi del loro passato. Ora, la domanda che dobbiamo farci al presente è questa: la massa degli immigrati africani e mediorientali, e, in minor misura, indiani e latino-americani, che si sta riversando incessantemente sull’Europa, senza mai scemare, senza mai rallentare, prova questo rispetto, questo amore per la civiltà europea? È disposta a rialzare la bandiera della nostra civiltà languente, ed è capace di farlo? Possiede la necessarie doti di laboriosità, spirito di sacrificio, umiltà, pazienza, tenacia e rispetto per le consuetudini, per i valori, per le cose belle che la nostra civiltà ha prodotto in un migliaio di anni, religione cristiana compresa?

Le cronache quotidiane non ci incoraggiano a nutrire molte speranze in questo senso. La percentuale di delinquenza, fra i nuovi arrivato, è altissima. Le strade sono piene di spacciatori di droga, di piccoli criminali pronti al furto e allo scasso, nonché allo stupro, e ad atti di vandalismo e di grave inciviltà. Giovanotti che sono appena giunti come clandestini, che sono ospitati a nostre spese nei centri di accoglienza, dopo pochi giorni che sono arrivati, e mentre la loro domanda per ottenere lo status di rifugiati è stata appena inoltrata, già si abbandonano a comportamenti di illegalità e criminalità, dallo spaccio, al furto, alla prostituzione. Sorpresi in flagrante, se ne infischiano di una legge che si mostra impotente a punirli, e, con l’aiuto di magistrati buonisti e irresponsabili, reiterano i reati, quasi alla luce del sole, come se nulla fosse. In questi giorni è scoppiato uno scandalo perché, in Gran Bretagna, un questionario chiedeva di esplicitare se gli alunni erano di lingua italiana, napoletana o siciliana. Ciò significa che le differenze di provenienza vengono percepite, eccome, anche all’intermo della stessa civiltà e dello stesso continente. Nei confronti di questi africani islamici, però, dei quali nulla sappiamo, né se sono terroristi o portatori di malattie, non abbiamo il diritto di far domande, né di chiederci se siano di buona razza o meno…