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Ancora su Benedetto XVI e il caso Williamson: una ulteriore chiave di lettura

di Francesco Lamendola - 25/10/2016

Ancora su Benedetto XVI e il caso Williamson: una ulteriore chiave di lettura

Fonte: Il Corriere delle regioni

 

 Avevamo già trattato questo argomento nell'articolo Il caso Williamson fu un complotto per screditare il pontificato di Benedetto XVI, pubblicato su Il Corriere delle Regioni (in data 26/06/2015; in quella sede, avevamo ipotizzato che la vicenda delle “rivelazioni” a orologeria sul negazionismo del vescovo inglese fosse parte di un complotto per mettere in cattiva luce Benedetto XVI davanti all’opinione pubblica mondiale, e soprattutto per creare una divisione all’interno della Chiesa cattolica, inasprendo il dissenso latente, e talvolta esplicito, fra la sua ala “conservatrice” e quella “progressista”.

Vogliamo ora tornare sull'argomento, alla luce delle riflessioni che il "papa emerito", Joseph Ratzinger, svolge sulla questione, ad alcuni anni distanza, parlandone con un famoso giornalista, Peter Seewald, in un libro da poco uscito nelle librerie, nel quale egli fa il punto su tutta la sua vita di sacerdote, di professore e vescovo, nonché di prefetto per la Congregazione della Fede, poi di papa e infine di papa dimissionario. Il punto di vista di Benedetto XVI sulla vicenda ci sembra, infatti, che si presti ad una ulteriore chiave di lettura dell’intero episodio, gettando una luce inquietante sull’azione che l’allora pontefice veniva svolgendo e che era stata presentata come favorevole ai conservatori, mentre  invece, forse, non era che un gioco delle parti fra lui e il suo successore, Francesco, il quale aveva già sfiorato l’elezione a pontefice nel conclave del 2005, prima che fosse eletto il cardinale Ratzinger.

Se questa ulteriore interpretazione è esatta, o maggiormente aderente alla realtà dei fatti, allora anche l’episodio delle dimissioni di Benedetto XVI, che è stato così traumatico per la coscienza di tanti fedeli e che ha creato un precedente inedito, e non molto rassicurante, quello relativo alla compresenza di due papi, si tinge di colori diversi, o, quanto meno, di sfumature diverse: non più il risultato di un complotto esterno per allontanare il papa conservatore e sostituirlo con un papa ultraprogressista, ma una manovra in qualche modo programmata, se non proprio pianificata, fondata sull’avvicendamento calcolato del secondo al primo, nel quadro di una sostanziale continuità, dietro lo schermo di due figure e di due linee pastorali e dottrinali apparentemente assai diverse, se non addirittura antitetiche.

In altre parole: forse Benedetto XVI non è stato vittima di una congiura, o di un ricatto, che, dopo averne oltremodo indebolita l’immagine pubblica, lo hanno costretto alle dimissioni; forse le dimissioni erano già stata preventivate, come pure il nome del successore; forse Benedetto XVI e Francesco, nella discordanza esteriore degli atteggiamenti e delle strategie, sono, in effetti, molto più compatibili, per non dire complementari, di quel che non sembri: forse, dopotutto, rappresentano la continuità sostanziale con le grandi linee della Chiesa postconciliare, la quale, pur in forme diverse, persegue sempre il medesimo fine: conciliare la dottrina cattolica con la cultura moderna, ossia realizzare precisamente quel che era nei voti e negli sforzi dei modernisti del primo Novecento: Tyrrell, Loisy, Buonaiuti e gli altri. Forse Benedetto XVI e Francesco si sono, per così dire, divisi i ruoli; nel segno di una apparente fedeltà alla Chiesa eterna, essi hanno condiviso l’obiettivo di fondo: portare avanti, con modi e sfumature differenti, i fini del modernismo, e, in particolare, giungere alla relativizzazione della fede, in nome di una teologia che – come fa, del resto, tutta la filosofia moderna, da Kant ed Hegel in poi – privilegia il soggetto rispetto alla realtà, il pensiero rispetto all’essere, l’io rispetto al mondo.

È la linea di Hans Küng e di quelli come lui: per cui tutta la vicenda della contrapposizione, senza esclusione di colpi, di Küng a Ratzinger, assai enfatizzata nel libro intervista di Seewlad, perde, a guardarla da vicino, gran parte della sua carica ideologica, e si sposta più che altro su di un piano personale. Küng vuole relativizzare il cristianesimo, ponendo l’accento non su Cristo, ma sul credente (sulla scia della “svolta antropologica” tanto strombazzata dai “nuovi” teologi del Vaticano II); Benedetto XVI denuncerà la “dittatura del relativismo”, ma, in ultima analisi, senza mettere sotto accusa le premesse ideologiche del relativismo stesso, che risalgono ad Hegel e, più da vicino, a Heidegger, nonché alla “teologia negativa” protestante, specialmente di Bonhoeffer, e, perciò, restando sempre all’interno dell’orizzonte intellettuale e spirituale delineato dalla “svolta antropologica”, dunque senza recuperare la salda certezza della fede attraverso l’abbandono fiducioso alla Rivelazione di Gesù Cristo. Ecco per quale ragione, dalle opere teologiche, e anche dalle interviste rilasciate dal ”papa emerito”, emerge, sì, la critica al relativismo, però in maniera poco incisiva e poco convincente, perché sempre subalterna al punto di vista fondamentale del relativismo: lo spostamento del soggetto da Dio all’uomo, e quindi, in definitiva, la proposta di una religione “umana”, che fa riferimento all’Assoluto solo in termini estrinseci e un po’ retorici, e che resta, perciò, prigioniera di dubbi insolubili e di perplessità strutturali.

Siamo debitori di questa ulteriore chiave di lettura, almeno in parte, a don Curzio Nitoglia, le cui riflessioni in proposito sono reperibili in rete (senza che ciò equivalga, è perfino superfluo ricordarlo, ad una adesione totale alle sue tesi complessive sulla crisi attuale della Chiesa cattolica); e lo siamo, a maggior ragione, dopo aver constatato che egli individua il punctum dolens dell’intera questione neomodernista nel progressivo avvicinamento dei vertici della Chiesa, e dello stesso Magistero ecclesiastico, alle posizioni sostenute dal Giudaismo nella fase attuale: quasi che solo passando per una riconciliazione ad ogni costo, e a qualsiasi prezzo, con il Giudaismo, fosse possibile portare avanti un autentico rinnovamento della Chiesa cattolica, in uno spirito ecumenico ed inter-religioso. Oppure è vero il contrario: e cioè che il riavvicinamento al Giudaismo, voluto e pensato dall’alto,  in contrasto sia con le Scritture che con la Tradizione (le quali raccomandano entrambe l’apostolato cristiano presso i Giudei, così come presso tutti i popoli e gli ambiti culturali) è il fattore che rende necessario accentuare sempre di più la svolta post-conciliare in senso ecumenico ed inter-religioso, oltre che accentuare sempre di più le tendenze e le implicazioni relativiste e immanentiste presenti nella teologia neomodernista.

In entrambi i casi, se le premesse sono giuste, o almeno verosimili, si giungerebbe alla conclusione che la svolta impressa alla vita della Chiesa dalle correnti progressiste - ma che bisognerebbe chiamare col loro vero nome, e cioè moderniste, senza mai scordare che il modernismo non è una “variante” del cattolicesimo, ma una sua gravissima eresia, anzi, la matrice di tutte le eresie, e che fu condannato, come tale, da san Pio X con l’enciclica Pascendi – non sarebbe scaturita da una esigenza, magari erronea, maturata, comunque, all’interno della Chiesa stessa, attraverso un fenomeno spontaneo di ripensamento critico della eredità teologica precedente, e, in modo particolare, della filosofia scolastica e del tomismo; ma sarebbe il risultato di una volontà “politica”, o, comunque, “strategica”, di giungere ad un accomodamento con il Giudaismo, per ragioni di Realpolitik. Il che spiegherebbe tutta una serie di fatti altrimenti quasi inesplicabili, dall’abbandono della figura di Pio XII al sospetto infamante di un suo colpevole “silenzio” sul genocidio degli Ebrei, al diktat che ha bloccato il processo di beatificazione di padre Dehon, sospetto di “antisemitismo”, alle recenti azioni persecutorie contro i Francescani dell’Immacolata, rei di rifarsi un po’ troppo, forse, a quel Massimiliano Kolbe che è stato proclamato, sì, santo, ma che forse non lo sarebbe stato se fossero subito emersi alcuni suoi scritti che, come quelli di padre Dehon, sono stati accusati di “antisemitismo”, solo perché denunciavano il ruolo non sempre positivo svolto da certe lobby ebraiche nell’economia e nella finanza mondiale. Inutile dire che la vera posta in gioco, al di là delle pie intenzioni dei sostenitori del “dialogo” a oltranza, non è tanto la rinuncia alla preghiera di conversione dei Giudei, e il riconoscimento del loro ruolo di “fratelli maggiori” (e non già, come sarebbe teologicamente giusto, di “fratelli maggiori che hanno sbagliato”), bensì l’avallo alla progressiva instaurazione della nuova religione mondiale dell’Olocausto.

Ed ecco, ora, il passaggio relativo al caso Williamson nel libro-intervista di cui sopra (da: Benedetto XVI, Ultime conversazioni, a cura di Peter Seeewald, Milano, Garzanti, 20016, pp. 210-211):

 

Domanda: Anche del caso Williamson abbiamo parlato esaurientemente in "Luce del mondo". Un'ultima domanda al riguardo: quando fu informato di questi problemi?

Risposta: In ogni caso solo dopo che era successo. Non capisco, se erano fatti così noti, è incomprensibile, inconcepibile che nessuno di noi se ne sia accorto.

D. Il suo segretario di Stato, il cardinale Bertone, avrebbe potuto pregarla di annullare il decreto.

R. Sì, chiaro.

D. Non sarebbe stato un problema.

R.: Naturalmente. Credo tuttavia che lui non lo sapesse; non riesco a immaginarlo.

D.: Il caso Williamson si può considerare una svolta nel suo pontificato? è d'accordo anche lei su questa lettura?

R.: Ci fu naturalmente un'enorme propaganda denigratoria nei miei confronti. La gene che era contro di me ebbe finalmente il pretesto per dire che ereo inadatto, che ero al posto sbagliato. Quindi, sì, fu un momento cupo e un periodo molto pesante. Ma la gente poi ha capito che io, semplicemente, non ero stato informato.

D.: è vero che non ci furono conseguenze personali?

R.: No. Ce n'è stata una nella misura in cui, dopo, sono stato io a riorganizzare la Commissione Ecclesia Dei, che era competente in materia, perché quel caso mi portò a concludere che non funzionava correttamente.

D.: In quell'occasione fu troppo debole?

R.: Credo che ad avere colpa sia stata solo quella Commissione. E l'ho modificata radicalmente.

 

Come si vede, la riflessione di Benedetto XVI – scopertamente “imbeccato” dall’intervistatore, che va molto oltre il ruolo di semplice giornalista e si pone come suggeritore delle risposte stesse – si è spostata, rispetto al libro precedente, dalla persona di monsignor Williamson, e quindi dal rapporto con la Fraternità Sacerdotale San Pio X (ovvero con la Chiesa lefebvriana), alle opinioni “antisemite”, o, comunque, “negazioniste” di Williamson, le quali, fino a prova contraria, non dovrebbero entrare affatto, o solo marginalmente, in una discussione interna alla Chiesa cattolica. A meno di riconoscere che la linea della Chiesa è dettata, o suggerita, da forze esterne, in questo caso dagli esponenti di spicco del Giudaismo, non si comprende perché le idee, probabilmente sbagliate, di monsignor Williamson sull’Olocausto, dovrebbero costituire il problema (per la cronaca, Wiliamson, per le sue idee “negazioniste”, nel 2012 è stato espulso anche dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X, per cui attualmente è un lebbroso sia per la Chiesa cattolica, sia per i seguaci di monsignor Lefebvre). In particolare, non si comprende perché, se le idee di Williamson sull’Olocausto fossero state note al papa prima della remissione della scomunica a lui e agli altri tre vescovi lefebvriani, nel gennaio 2009, tutta la questione avrebbe cambiato aspetto e il provvedimento di riconciliazione, consistente nella remissione della scomunica, avrebbe potuto non essere preso. Da come si esprime il “papa emerito”, sembra che il vero problema sia stato Williamson, anzi, le idee di Williamson su una questione storica tuttora controversa – almeno quanto alle modalità del genocidio e alle cifre relative alle vittime della persecuzione nazista -, ancora più di quanti avevano architettato il rilascio della famosa intervista di Williamson alla televisione svedese, in modo tale da irritare l’opinione pubblica internazionale contro il provvedimento di remissione della scomunica. Strano modo di ragionare.

Ed è appunto questa stranezza, che, peraltro, né Ratzinger, né Seewald si preoccupano minimamente di velare,  a far nascere il sospetto di cui sopra, o a lo rafforzarlo: che, cioè, il “papa emerito” si rammarichi non di essere stato clemente con i lefebvriani, ma di essere stato ingenuo nel rimettere quella scomunica, prestando il fianco – un fianco sensibilissimo, evidentemente – all’accusa di latente e perdurante antisemitismo. Chi non ricorda le perfide, velenose parole sibilate allora dalla signora Angela Merkel? Tanto per restare in tema di oscuri e inconfessabili complotti…