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Il senato nella costituente

di Francesco Mario Agnoli - 14/11/2016

Il senato nella costituente

Fonte: Francesco Mario Agnoli

                                     IL SENATO NELLA COSTITUENTE

   Fra i critici  della riforma costituzionale  molti  concordano però sulla eliminazione del  cosiddetto bicamerismo perfetto, che attribuisce in piena parità  alle due Camere,  oltre che il potere di accordare  e revocare la fiducia al governo, l'esercizio della funzione legislativa.

    Tuttavia siamo sicuri che sia così? Più in generale, prima di cambiarla, siamo sicuri di conoscere la Costituzione  e le ragioni dei costituenti nel scegliere  una strada piuttosto che un'altra? Potrebbe essere che queste ragioni siano più  valide dell'argomento che soltanto in Italia la funzione legislativa è esercitata su un piano di parità dalle due Camere.

 Un'argomentazione, che  andrebbe quanto meno  approfondita perché nei vari paesi europei la posizione costituzionale del  Senato (dove esiste) è molto variegata,  ma che, stranamente,  incontra scarse obiezioni anche da parte di chi non condivide la riforma. Eppure basta  ripescare  l'intenso dibattito  che settant'anni fa impegnò l'Assemblea Costituente  per  comprendere  che si trattò di una scelta   fondata su ragioni che attengono  ai meccanismi stessi della democrazia  sicché hanno oggi  lo stesso peso e valore del 1948. Le Costituzioni,  difatti,  valgono  non solo  per i principi che proclamano (spesso i più nobili  sono proclamati dalle dittature), ma per gli strumenti messi  in campo per realizzarli.

  Nella Costituente vi furono  prese di posizione a favore del monocameralismo, giustificate anche dalla contrarietà  alla  tesi di altri  costituenti favorevoli sì all'istituzione del Senato, ma per farne l'organo di rappresentanza delle Regioni. Alla fine prevalse l'idea   che un Senato collocato istituzionalmente sullo stesso piano della Camera dei deputati avrebbe assicurato  una migliore qualità della legislazione e si sarebbe posto quale organo di garanzia democratica contro  prevaricazioni parlamentari o di governo, facilitate dall'esistenza di un'unica Camera troppo soggetta al dominio della maggioranza.

   Questa visione delle funzioni del Senato contribuì  ad avviare a soluzione anche il problema della  composizione e della nomina dei senatori.  Proprio la natura e l'importanza dei compiti affidatigli  fecero pendere la bilancia a favore  dell'elezione a suffragio universale e diretto come per la Camera, superando le proposte di chi  propendeva per un'elezione di secondo grado,  da affidare, in tutto o in parte, ai consiglieri regionali o  a rappresentanti appositamente nominati. Al tempo stesso si volle evitare che il Senato risultasse, quanto a composizione, fotocopia della Camera. Per questo anche allora le problematiche costituzionali si mischiarono  a quelle  della scelta dei sistemi elettorali.

  All'epoca per entrambe le Camere si inserì in   Costituzione il principio fondante della sovranità popolare: l'elezione a suffragio universale e diretto, ma per la Camera dei deputati si preferì lasciare alla legge ordinaria la scelta del sistema elettorale.  Tuttavia tutti sapevano che nel 1948 l'elezione dei deputati sarebbe avvenuta con il sistema appena utilizzato per la Costituente, il  a base circoscrizionale e con collegio unico nazionale. Quanto al Senato, per rispondere all'esigenza  di differenziazione  ci si orientò  per  l'elezione a base regionale, ma non venne costituzionalizzata, lasciandola alla legge ordinaria,  la scelta a favore di un sistema uninominale da molti auspicata.  Per differenziare   la composizione del Senato  si attribuì l'elettorato attivo  agli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età (contro i 21 - allora limite della maggiore età - previsti per la Camera) e quello passivo agli elettori che hanno compiuto  i quaranta (venticinque per la Camera).  Inoltre  l'art. 60  fissava in cinque anni la durata della Camera e in sei quella del Senato.

   In seguito le differenze  fra Camera e Senato sono state via via attenuate, quasi sempre in base a motivazioni di comodità e di spesa (in particolare la diversa durata delle  Camere  aumentava le occasioni di ricorso  alle urne, già numerose  per la frequenza delle crisi di governo  e delle conseguenti, costose campagne elettorali). Tuttavia  la differenza di sistema elettorale,  in parte conservata anche quando negli anni '90 del secolo scorso iniziò la ridda dei mutamenti, continuò a garantire  una certa differenza di composizione fra  Camera e Senato comunemente avvertita quale  riparo contro le possibili prevaricazioni  della maggioranza di governo. Va anzi detto che  l'identità di compiti fra Camera e Senato ha consentito ad entrambe le Camere un'utile collaborazione  nell'attività legislativa ed  una reciproca assistenza nel controllo di democrazia.

    Ci si può chiedere allora se prima di cambiare  si sia tenuto conto che la scelta  a favore del bicameralismo paritario fu, come è stato scritto, il frutto di un dibattito così appassionato, completo e consapevole della importanza delle implicazioni sullo stesso principio di democrazia che sarebbero discese dall’una o dall’altra scelta come per nessuna altra parte della Costituzione. E se le ragioni che prevalsero sono state adeguatamente valutate.

    In realtà  gli stessi  autori della riforma  non hanno potuto negare totalmente  il contributo del bicameralismo al buon funzionamento del sistema  e  non si sono sentiti  di abolire il Senato, come  da molti proposto. Non potendo tuttavia rinunciare alla  fortissima riduzione del suo ruolo indispensabile per realizzare  il progetto centralista che  mette il governo al centro del sistema, hanno lasciato  al Senato, con la residua partecipazione alla funzione legislativa, una parvenza del  tradizionale  compito di migliorare la qualità della normazione e di controllare la fondatezza delle scelte politiche che ne stanno alla base.  Al tempo stesso però ne hanno  reso  difficilissimo, in molti casi al limite dell'impossibile, l'adempimento attraverso la modificazione dell'elettorato passivo, limitandolo a soggetti, consiglieri regionali e sindaci, per i quali  l'attività  senatoriale sarà necessariamente   marginale rispetto al loro primo lavoro.