Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’uomo moderno è in preda a mille demoni perché ha spezzato la sua unità interiore

L’uomo moderno è in preda a mille demoni perché ha spezzato la sua unità interiore

di Francesco Lamendola - 10/01/2017

L’uomo moderno è in preda a mille demoni perché ha spezzato la sua unità interiore

Fonte: Il Corriere delle regioni

Non sono ancora passati tre anni da quando quella volontà malvagia e perversa che tutto mi possedeva e che regnava incontrastata nel mio spirito cominciò a provarne un’altra, ribelle e contraria; e tra l’una e l’altra da un pezzo, nel campo dei miei pensieri, s’intreccia una battaglia ancor oggi durissima e incerta per il possesso di quel doppio uomo che è in me.

Così Francesco Petrarca, nella famosa epistola in cui descrive, a Dionigi da Borgo San Sepolcro, l’ascensione al Monte Ventoso, in Provenza, descrive la sua intima natura: quel doppio uomo che è in me. E quel che Petrarca coglie in se stesso e dice di sé, vale anche per l’uomo moderno in generale, di cui egli è il primo, consapevole rappresentante, come iniziatore dell’Umanesimo. L’uomo moderno è “doppio”, duplice, o anche molteplice, perché qualcosa ha spezzato la sua unità interiore; ma prima non era così. E Machiavelli, che è il primo filosofo moderno, ha ben presente questa natura spezzata e costruisce la sua filosofia della politica partendo appunto da questo dato: per lui non ci sono più il bene e il male, ma l’utile e il dannoso, sempre relativamente alle situazioni, mai secondo una norma fissa, una morale assoluta.

L’uomo medievale, al contrario, era coeso e ben saldo in se stesso: basti pensare a Dante. Ma quel che vale per Dante, vale anche per l’ultimo contadino o pastore o fabbro ferraio: con o senza cultura, con o senza una particolar intelligenza, l’uomo medievale è coeso e sente di appartenere a un tutto unico; di esser cucito, per così dire, in un solo pezzo di stoffa. In questo, egli è assai più simile all’uomo antico, all’uomo greco e romano, di quanto non lo sia all’uomo moderno: la continuità della coscienza si spezza al sorgere della modernità, e non all’apparire del cristianesimo. Il cristianesimo ha spiritualizzato la natura, ma senza disprezzarla, e, soprattutto, senza staccarla dall’anima; la persona, infatti, è un’anima incarnata, e il suo destino soprannaturale si decide quaggiù, nelle scelte che essa fa nel corso della vita terrena, dentro un corpo di sangue e carne, agitato da passioni, ma guidato dalla ragione e illuminato dalla fede. Il fatto che il Verbo si sia incarnato e che sia risorto corporalmente, e corporalmente asceso al cielo; e il fatto che il Giudizio finale verrà preceduto dalla resurrezione dei corpi, dicono fino a che punto nell’uomo medievale fosse chiara la consapevolezza della dignità della natura e della sua bontà originaria, poi lacerata dal Peccato originale, ma destinata a ricomporsi per merito del sacrificio di Cristo e per l’effusione di grazia dello Spirito Santo.

Scriveva acutamente, come sempre, Marcel De Corte nella sua Fenomenologia dell’autodistruttore. Saggio sull’uomo occidentale contemporaneo (titolo originale: L’homme contre lui-même, Paris, Nouvelles Editions Latines, 19622; traduzione dal francese di Roberto Antonetto, Torino, Borla, 1967, pp. 163-165):

 

Il medioevo è dominato dalla concezione aristotelica dell’uomo, integrata nel cristianesimo dal genio di san Tommaso. Dell’uomo medievale, si può dire, all’ingrosso,  che è tutto d’un pezzo, senza rotture e crepe fra le componenti del suo essere, come un  contadino la cui semplicità ignora i conflitti psicologici propri del cittadino, sollecitato in direzioni diverse dalle seduzioni  della civiltà urbana e portato così speso a spingere  all’estremo la sua visione cerebrale del mondo. Il suo atteggiamento di fronte al reale è sintetico, non analitico, ed egli riconosce se stesso come un tutto, proprio alla maniera degli esseri e delle cose della natura che osserva intorno a sé e alla cui vita si mescola. Un albero non è per lui delle radici più un tronco più delle fronde, perché le parti ricevono la vita da un principio unico. Un animale non è un’addizione di organi e di membra giustapposte come gli ingranaggi di una macchina, ma un essere vivente che trae la sua vita da un’entità misteriosa serpeggiante, senza distinzione, in tutte le sue parti: quella che i sapienti chiamano anima. L’universo appare all’uomo medievale come una vasta rete di corrispondenze che concordano fra di loro in maniera organica. La sua concezione dell’uomo del mondo è essenzialmente vitalistica. Nulla di strano quindi che l’uomo del medioevo, formato dal contatto con la natura, abbia adottato nel suo comportamento, in modo conscio per i colti, inconscio per gli incolti, la dottrina aristotelica, che gli si adatta come un guanto. Per Aristotele infatti l’anima non è separata dal corpo, né lo spirito dalla carne: le due entità, incomplete, esistono l’una per l’altra. È stato l’aristotelismo cristiano a orchestrare questa concezione UNITARIA dell’uomo, secondo cui lo spirito è carnale, per riprendere la formula di Péguy, uomo del medioevo capitato per sbaglio nel secolo XIX. Senza dubbio, la grazia è distinta dalla natura, ma, lungi dall’abolirla, la porta a compimento, incarnandovisi, Non è affatto una mano di pittura, o un compensato deposto sull’uomo, ma è invece intimamente mescolata alla sua vita, come il nutrimento al sangue, e costituisce il principio di tutte le sue azioni soprannaturali e l’origine delle sue virtù teologali. L’aristotelismo cristiano è governato dalla legge dell’incarnazione radicale della grazia e dell’anima nel corpo, con il quale fanno un TUTT’UNO.

Non ci sono dunque per l’uomo medievale l’anima da una parte e il corpo dall’altra, come un pilota in un vascello, ma un solo essere tutto d’un pezzo. Non c’è da una parte il soprannaturale e dall’altra il naturale, ma un essere umano completo: l’uomo battezzato, completamente naturale e completamente soprannaturale, nella misura in cui realizza in sé le esigenze della natura e della grazia. L’essere umano è dunque per il medioevo un individuo nel senso più forte della parola, vale a dire un essere indiviso. Soltanto la morte viene a rompere questa fondamentale unità: ma la morte, nella prospettiva cristiana, non è altro che la porta aperta verso la risurrezione, nella quale anima e corpo si ricongiungono, e si ricostituisce l’unità concreta dell’essere umano. Le scene della risurrezione che si vedono sui portali delle cattedrali romaniche o gotiche del medioevo non sono soltanto la traduzione in immagini del giudizio  finale, ma anche il simbolo della ricostituzione dell’essere umano integrale, dotato di un’anima, provvisto di carne ed ossa, destinato ad una gioia eterna, o ad una sofferenza eterna, a seconda del modo in cui ha vissuto. Il dogma della risurrezione dei corpi è strettamente legato alla concezione unitaria dell’uomo passata dal’aristotelismo al cristianesimo.

Il macrocosmo dell’universo non è altro che il gigantesco ingrandimento del microcosmo dell’uomo. Anch’esso è sottoposto alla regola d’oro dell’unità delle parti che lo compongono. Ogni fenomeno terrestre ha il suo corrispondente celeste, e viceversa; il dogma del corpo mistico della Chiesa, nel suo triplice aspetto militante, sofferente e trionfante, sottolinea ancora una volta la stretta solidarietà che esiste fra la concezione gerarchizzata e unitaria del “cosmos” aristotelico e la teologia cristiana.

L’uomo si trova dunque in accordo fondamentale con l’universo nel quale s’inserisce per destino di nascita, Senza dubbio, il peccato originale ha allentato questa relazione, ma non l’ha ritta completamente. L’uomo è stato escluso dal beneficio della grazia ma la natura in lui, per quanto ferita, non è stata corrotta al punto da non essere più natura…

 

Una immagine storpiata e deformata del Medioevo, di ascendenza illuminista, e passata di generazione in generazione fino ai nostri giorni, soprattutto per merito di quel conformismo intellettuale che è così tipico della modernità (con buona pace del suo tanto sbandierato “senso critico”, che si riduce, in realtà, alla critica di ciò che le si oppone o che risulta inconciliabile con essa), ci presenta, invece, l’uomo medievale come intimamente scisso e lacerato fra i desideri e gli appetiti della carne e il richiamo delle cose spirituali. Tale, ad esempio, è l’immagine che emerge da romanzi come Il nome della rosa, di Umberto Eco; e tale è l’immagine che molti commentatori del carteggio fra Abelardo ed Eloisa vogliono trasmettere alla mente dei lettori; per non parlare di quei commentatori di Dante che citano il quinto canto dell’Inferno, e l’episodio di Paolo e Francesca, come tipico esempio dello sdoppiamento cui il Dante teologo e moralista costringe il Dante uomo e poeta. Nient’affatto: nessuno sdoppiamento, nessuna lacerazione, e, quindi, nessuna contraddizione: non è contraddittorio il fatto che Dante, pur partecipando intensamente al dramma umano di Paolo e Francesca, li ponga tuttavia all’Inferno: la contraddizione, se c’è, non appartiene alla cultura medievale in quanto tale, ma alla condizione umana. La lacerazione incomincia con l’Umanesimo e l’abbiamo vista in Francesco Petrarca, per la sua stessa bocca. È Petrarca che non riesce a mettere d’accordo l’uomo carnale e l’uomo spirituale, che in lui convivono e si fanno la guerra; l’uomo medievale conosce quella guerra, ma è proteso verso la pace, perché sa come essa si combatte e come si vince: lo ha mostrato Cristo, lo ha insegnato san Paolo: si vince facendo la volontà del Padre. Quando si è nella grazia di Dio, la guerra fra i sensi e l’anima si acquieta e subentra la pace. Si noti, peraltro, che “i sensi” non sono il corpo, non sono tutto il corpo; e nemmeno la carne è tutto il corpo: i sensi sono ciò che induce la carne verso il peccato, sono le vie d’accesso alla tentazione attraverso la fragilità umana; ma sono anche gli strumenti che consentono all’uomo di apprezzare la creazione in tutta la sua bellezza e il suo splendore: Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate Sole, o quale è iorno, et allumini noi per lui

E qui il discorso cade inevitabilmente sui digiuni, sulle mortificazioni, sul cilicio e sulle confraternite dei battuti o flagellanti. La moglie di Jacopone indossava il cilicio sotto la veste da festa: ciò apparve quando il suo corpo venne ricomposto, dopo il crollo del pavimento della sala in cui si ballava; nemmeno suo marito lo sapeva. Ora, si dice, se l’uomo medievale praticava queste forma di penitenza, ciò significa che era interiormente scisso. E perché mai? Essere scissi, significa sentirsi presi fra due opposte spinte, fra due tendenze tanto prepotenti, quanto inconciliabili. Il desiderio di mortificarsi, e di mortificare il corpo, è un’altra cosa: non nasce dal disprezzo del corpo, ma dalla coscienza della fragilità della condizione umana sotto il profilo morale. Anche la raccomandazione di Gesù: Vegliate e pregate per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole, può essere facilmente fraintesa. È chiaro, infatti, che ad essere debole non è la carne, di per se stessa, bensì proprio lo spirito, attraverso gl’impulsi della carne. Ciò equivale al riconoscimento che vi è piena integrazione fra il corpo e l’anima, e che non si può pensare all’anima separandola dal corpo, dal suo legame indissolubile con esso (nella vita terrena: perché il corpo risorto sarà un corpo glorioso, non fatto di materia, ma splendente e incorruttibile). Mortificando il corpo, l’uomo medievale non esprimeva rabbia, disgusto e odio contro la peccaminosità del corpo, ma ricordava a se stesso che, per vivere in grazia di Dio, bisogna tenere a freno le tentazioni della carne. Nello stesso tempo, e, forse, ancor prima di questo, la mortificazione del corpo aveva un significato imitativo, piuttosto che punitivo: si voleva imitare la Passione di Cristo, essere simili a Lui nella sofferenza, per diventare poi degni della Sua misericordia, nella gloria. Perciò esse non erano solo uno strumento di auto-repressione, ma, in primo luogo, di auto-elevazione: cosa che noi moderni facciamo fatica a capire e ad accettare, perché siamo talmente immersi in un orizzonte edonista e permissivo, da non poter neanche comprendere un simile linguaggio.

Il fatto che l’uomo medievale non fosse affatto un odiatore della natura, e quindi neanche del corpo e della sessualità, permette di rendere ragione pure di un altro fatto, che, diversamente, resterebbe pressoché inspiegabile: la preferenza accordata dalla cultura cristiana alla filosofia di Aristotele, attraverso la mediazione di san Tommaso, rispetto a quella di Platone, che, di primo acchito, parrebbe assai più vicina alla spiritualità cristiana. Invece, a ben guardare, in Platone, e più ancora nel platonismo, vi è un dualismo irriducibile fra anima e corpo (non si diceva forse, di Plotino, che viveva come uno che si vergogni di avere un corpo?), dualismo che giungerà al culmine con il manicheismo e, più tardi, con il catarismo: un’eresia che la Chiesa combatté colla massima durezza, proprio perché avrebbe trascinato il cristianesimo fuori dai suoi binari, sulla strada dell’odio e del rifiuto della carne, svalutando la stessa Incarnazione e, addirittura, contrapponendo Cristo, il Dio fattosi uomo (che, a quel punto, non era più tanto divino…) al Padre celeste. È quindi logico che la cultura cristiana medievale abbia trovato una maggiore consonanza con l’aristotelismo (non con l’averroismo), che non postula un contrasto insanabile, ma una stretta unità fra l’anima ed il corpo...