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L’accabadora immaginaria e le recensioni di Massimo Pittau

di Italo Bussa - 01/04/2017

L’accabadora immaginaria e le recensioni di Massimo Pittau

Fonte: Italo Bussa

Esistono due categorie di recensori: alla prima appartengono coloro che compiutamente leggono e analizzano i testi che criticano, alla seconda coloro che esaminano questi ultimi parzialmente e distrattamente, per difendere le proprie pregresse convinzioni. L’amico prof. Massimo Pittau palesa talvolta di appartenere a quest’ultima. Infatti nel recensire i contenuti de L’ accabadora immaginaria. Una rottamazione del mito, mostra da una parte di non aver letto il libro e dall’altra di non conoscere compiutamente neppure la letteratura accabaduriale. Come il rigattiere di Voltaire, egli si dà da fare allo scopo di rivoltare gli abiti vecchi per venderli come nuovi.

L’accabadora immaginaria non è propriamente, come vien detto, un libro di storia, ma un saggio storiografico che sottopone ad analisi critica tutta o quasi la letteratura che si è occupata della materia fino a qualche anno fa. L’esame complessivo e unitario dei testi consente non solo di verificare le variazioni che, nel lungo periodo, sono state, ad arbitrio dei singoli autori, introdotte rispetto al modello originario ottocentesco di accabadura, ma anche di pervenire a conclusioni indubbiamente logiche. La domanda principale alla quale il libro si propone di rispondere è se il personaggio dell’ accabadora sia una figura reale o immaginaria. Esaminando gli scritti in una stretta sequela cronologica vien fatto di paragonare il personaggio a un fiume carsico. Nel periodo della sua scoperta, infatti, nei primi decenni del 1800, viene dato per scomparso già da un secolo e nessun sardo ne ha memoria; dopo un vuoto più che secolare, solo negli ultimi decenni del secolo XX le accabadoras saltano fuori da tutte le parti. C’è evidentemente qualcosa di singolare, che solo un esame cronologicamente ordinato e comparato dei testi mette in evidenza.

Sebbene le prime notizie sulle accabadoras siano state fornite da due “viaggiatori” non sardi, Alberto La Marmora (1826) e William Henry Smyth (1828), storicamente la scoperta del personaggio è da attribuire al padre scolopio Vittorio Angius, cagliaritano. Quest’ultimo, nel compilare le voci sarde del Dizionario geografico riguardante gli Stati del re di Sardegna, curato da Goffredo Casalis, parla, nel lemma su Cagliari (1836), di una usanza magica praticata nei casi di agonia difficoltosa e, nel lemma su Bosa (1834), di una tradizione sulla antica esistenza di vecchie pazze, chiamate accabadoras, che avrebbero abbreviato le pene di una morte stentata percuotendo la nuca (coppa) o il petto di un moribondo con un màzzero. È opportuno precisare che per usanza si intende una pratica in essere, che quindi dispone di testi oculari, mentre la tradizione implica la trasmissione orale di un racconto proveniente dalle generazioni precedenti al di fuori di testimonianze dirette.

L’usanza magica scoperta dall’Angius consisteva nel fatto che, per far portare a termine l’agonia si asportavano, dalla stanza del moribondo o dal corpo di quest’ultimo, tutti gli oggetti, sacri e profani, che venissero ritenuti protettivi della vita (per es. croci, medagliette, dipinti sacri, scapolari etc.); se la asportazione non produceva effetto, quale estremo rimedio veniva posto il giogo di un aratro o di un carro sotto la nuca del morente. Questa usanza è stata successivamente riscontrata da tutti gli studiosi del folklore sardo, che si sono occupati della materia ed è praticamente durata fino alla seconda guerra mondiale. La sua esistenza, inoltre, con forme e modalità varie, è stata attestata, anche con documenti storici, nell’Italia settentrionale e meridionale, oltre che in tutta la Francia, come ampiamente scrive Arnold Van Gennep. È importante notare che in nessuna parte compaiono figure professionali addette a mettere in pratica l’usanza, solitamente affidata, come viene espressamente attestato, al personale femminile familiare.

Mentre l’usanza magica è dunque storicamente fondata, un esame diacronico della letteratura accabaduriale dalle origini fino al 1957 dimostra che la figura dell’accabadora sanguinaria non offre alcuna traccia, mentre la relativa tradizione appare storicamente infondata. Le argomentazioni addotte possono essere sintetizzate nei punti che seguono.

Primo. Nell’Ottocento un solo sardo, cioè Vittorio Angius, e nella prima metà del Novecento una sola sarda (tal Ofelia Pinna, che scrive nel 1921 un libro sui riti funebri e semplicemente riesuma gli scritti dei viaggiatori dell’800) mostrano di credere alla tradizione riguardante l’accabadora. Può essere attribuita a un popolo una tradizione, se non vi sono “credenti”? Il diritto processuale medievale accoglieva la massima “unus testis, nullus testis” (se vi è un solo testimone è come se non ve ne sia alcuno), che mantiene ancor oggi la sua validità, soprattutto quando parliamo di una tradizione che si pretende radicata, e quindi diffusa, in un popolo.

Secondo. Non esiste in alcun archivio pubblico, privato o ecclesiastico, antico o recente, alcun documento che faccia riferimento, in modo anche indiretto, a episodi di accabadura. Non solo non esistono, in materia, atti riguardanti sentenze, processi o episodi reali, ma non sono mai comparsi neppure atti contenenti accuse o sospetti, veri o falsi, contro qualche persona.

Terzo. Risulta del tutto inspiegabile, sul piano storico del lungo periodo, il silenzio istituzionale degli organi statuali ed ecclesiastici, capillarmente diffusi e operanti, a fronte di episodi che erano pur sempre degli omicidi volontari, perseguiti dai primi e condannati dai secondi. È possibile che per secoli, sempre e dovunque, nessuna autorità statuale si sia accorta di simili episodi o si sia astenuta dall’intervenire? È possibile che per secoli una istituzione come la Chiesa, che vigilava non solo sulle azioni ma anche sulla vita interiore dell’uomo, non abbia avvertito l’esistenza di simili pratiche omicide, diffuse nelle comunità?

Secondo Pittau esisteva una sorta di rigida omertà sugli episodi di accabadura sia da parte dei familiari del moribondo che degli eventuali testimoni e della stessa accabadora, per il timore delle pene cui tutti sarebbero andati incontro. Ora, pur essendo notorio che la previsione delle pene non ha mai impedito l’esecuzione dei delitti e che si è sempre tentato, da parte degli autori, di occultarne la partecipazione, qui ci si trova di fronte a un caso unico al mondo: mentre di tutti gli altri delitti, nessuno escluso, si ha una qualche notizia, della accabadura non si ha alcuna traccia. Ma è logico ritenere che un fenomeno cui si attribuisce una persistenza plurisecolare e una generale conoscenza da parte delle comunità, come afferma lo stesso  Pittau, non lasci alcun segno della sua esistenza? Certamente non è logico né tantomeno verosimile. Né evidentemente è un caso che l’ordinamento penale sardo non prevedesse la fattispecie astratta della accabadura quale reato. Ma in tutti i casi le pene da applicare non avrebbero potuto essere pesantissime, trattandosi di un omicidio pietoso, teso ad anticipare di qualche ora la morte di un agonizzante e senza produrre quindi dei danni penalmente apprezzabili. I timori poi manifestati da Pittau verso l’Inquisizione per una “quasi certa” condanna al rogo della accabadora sono destituiti di qualsiasi fondamento storico. La competenza dei Tribunali della Inquisizione infatti comprendeva solo i peccati contro la fede, ma non i delitti comuni, come appunto l’ accabadura. Sarebbe comunque opportuno, per evitare sterili polemiche, che Pittau indichi una buona volta le fonti delle quali si è servito per teorizzare l’esistenza dell’omertà della quale parla.

Sostenere comunque che la Chiesa non potesse sapere nulla è palesemente assurdo, non solo per la presenza pervasiva degli ecclesiastici e dei loro fedeli in ciascuna comunità, ma anche perché gli scritti dei fautori della accabadura (mi riferisco agli episodi citati da Vittorio Angius e dalla Turchi) mostrano come i preti si rincorressero con le accabadoras attorno al letto dei moribondi. Come si fa allora a dire che la Chiesa non sapeva?

Quarto. Risulta ugualmente inspiegabile l’analogo silenzio che si riscontra in alcune fonti particolari. Come giustificare per esempio il fatto che in Grazia Deledda sia assente una figura che ben si presta alla costruzione di stati psicologici tipici della sua narrativa? Né d’altra parte si può dimenticare che la Deledda aveva svolto una ricerca sistematica sulle tradizioni popolari nuoresi, pubblicata nel 1893-95. È parimenti significativo il silenzio mantenuto da tutte le fonti mediche, cioè dagli appartenenti a una categoria professionale che non potevano essere assenti nei momenti di fine vita e che non avrebbero mancato di far sentire la propria voce nei casi in cui un proprio paziente fosse stato sottratto, in modo violento, alle loro cure.

Quinto. Nessuno studioso professionale di etnografia della Sardegna, che abbia applicato le normali regole della tradizionale critica storica, ha mai ammesso l’esistenza delle accabadoras: pensiamo per esempio a Giuseppe Ferraro, Giuseppe Calvia, Francesco Poggi, Gino Bottiglioni e soprattutto a Paolo Toschi, che nel 1951 qualifica come leggenda la relativa credenza; è recentissimo (2013) il libro di Chiara Dolce La donna del capezzale. È appena il caso di rilevare, inoltre, che nessuno studioso straniero si è mai occupato della accabadura: appare evidente che non se ne sia mai ammessa l’esistenza neppure fuori dell’ Italia. In caso contrario, infatti, dovremmo pensare che gli etnografi professionali abbiano volontariamente rinunciato a occuparsi di una tradizione di grande interesse e peraltro unica al mondo: e perché mai?

Sesto. Nel periodo in esame (e cioè fino alla metà del secolo XX) è sconosciuto, a livello popolare, l’uso del vocabolo accabadora. Anzitutto nessun vocabolario, con una sola eccezione, che viene valutata a parte, include detto termine. Non lo comprendono infatti né il primo Dizionario dialettale sardo campidanese pubblicato da Vincenzo Porru nel 1832, né il Dizionario Etimologico Sardo (1960) del celebre linguista, ma anche etnografo, Max Leopold Wagner, le cui ricerche ricadono nella intera prima metà del sec. XX. Entrambi accolgono però il verbo accabare-accabai con i suoi diversi significati. Ancor più strano è che il sostantivo accabadora sia assente dal Vocabolario Sardo Logudorese di Pietro Casu, morto nel 1954, composto in 25 anni di ricerche, che non solo, come dice Giulio Paulis,  contiene il più ricco patrimonio lessicale di una varietà linguistica sarda, ma esemplifica tutti i possibili usi, significati e combinazioni di una parola. Solo il Vocabolario di Giovanni Spano (1851) contiene il termine accabbadoras, messo al plurale. Lo Spano però, che non ha mai accennato nei suoi numerosissimi scritti alla relativa tradizione, non fa altro che riportare il titolo del paragrafo usato dall’amico Vittorio Angius nel lemma su Bosa: non avrebbe infatti senso mettere il sostantivo al plurale, se si dà per esistente la forma singolare. Da notare che il Wagner e il Casu, pur conoscendo perfettamente il Vocabolario dello Spano, non riprendono, e quindi implicitamente rifiutano, ritenendolo inesistente, il vocabolo in questione.

Ma la inesistenza del termine è confermata anche dalle ricerche territoriali organiche compiute nel periodo in esame. Si è già vista quella sulle tradizioni nuoresi effettuata alla fine dell’Ottocento da Grazia Deledda. La tempiese Maria Azara, avendo compiuto una vasta ricerca sulle tradizioni popolari della Gallura, poi pubblicata nel 1943, espressamente dice che solo qualche persona colta aveva dichiarato di aver avuto notizia della usanza della accabadura, ma avendola appresa unicamente dai libri. Anche l’analoga e ampia ricerca sugli usi e costumi della Trexenta condotta da Gino Cabiddu (1965) oltre a mettere in luce l’usanza di asportare gli oggetti sacri documenta l’inesistenza della figura e del nome della accabadora.

La sicumera con la quale invece Pittau ne sostiene l’esistenza a livello popolare andrebbe almeno corredata della indicazione delle fonti delle quali si è servito.

Settimo. La presenza della accertata pratica magica rende automaticamente inverosimile l’asserita usanza della accabadura omicida. Infatti, essendo entrambe finalizzate a porre fine alla agonia difficoltosa di una persona individuata, non sarebbe potuta non emergere, ogni volta, la scelta tra le due contrastanti soluzioni operative. In altre parole, in tutti i casi in cui si parla della pratica magica non si sarebbe potuto non evidenziare che si trattava di una scelta diversa rispetto alla presunta accabadura violenta. Invece nessuno studioso della prima usanza, fino agli ultimi decenni del secolo XX, ha mai fatto cenno alla esistenza della seconda. Ma è appena il caso di osservare che se le due usanze fossero esistite contemporaneamente pare fuor di dubbio ritenere che tutti sarebbero ricorsi in prima battuta all’indolore pratica magica, riservandosi caso mai di applicare la soppressione violenta solo di fronte a un effetto mancato. Se dunque l’accabadura omicida fosse realmente esistita, essa sarebbe inevitabilmente affiorata in parallelo con la pratica magica.

È opportuno su questo punto ribadire che l’operatrice della pratica magica, solitamente una donna della famiglia, non viene mai chiamata, da nessuno studioso, accabadora.

Nel secondo dopoguerra il modello di accabadura inventato da Vittorio Angius – che comunque separava nettamente le due pratiche, delle quali però una reale e l’altra immaginaria – viene profondamente modificato. Anche in Sardegna si realizza un grande sviluppo economico-sociale e parallelamente cresce il livello culturale della popolazione, con la diffusione della istruzione primaria e degli studi universitari, del libro, delle riviste e dei quotidiani, delle biblioteche e dei mezzi di comunicazione di massa. Si diffonde a livello popolare l’ interesse per la propria storia e per le caratteristiche della propria identità, fra le quali vengono a pieno titolo inserite le manifestazioni e le conoscenze del folklore. Non è un caso quindi che nel 1957 Francesco Alziator scriva Il folklore sardo, nel quale parla in termini problematici anche della figura dell’accabadora, rievocando gli scritti dell’Angius e dei viaggiatori dell’ Ottocento e proponendo che il tema venisse affrontato su basi scientifiche, proprio allo scopo di verificarne la possibile esistenza.

Il sollecitato interesse verso lo studio della mitica figura porta ben presto a una dilatazione del modello originale di accabadura descritto dall’Angius, che fino a quel momento non aveva trovato né testimoni né sostenitori. Nel 1982 Maria Giuseppa Cabiddu scrive una tesi di laurea su accabadoras e riso sardonico (relatore il prof. Carlo Ginzburg), nella quale si prospetta l’esistenza di una categoria generale della accabadura, articolata in accabadura propriamente detta e quindi violenta e accabadura magica o simbolica. Sotto il profilo letterario l’unificazione concettuale può essere anche ritenuta plausibile in quanto entrambe le specie indicate contemplano un unico evento e cioè l’agonia di un essere umano.

Ma dopo la Cabiddu, mentre gradualmente si amplia la cerchia di coloro che si occupano del fenomeno, le due situazioni vengono completamente sovrapposte e confuse per cui anche gli episodi di agevolazione magica della morte vengono considerati atti di accabadura violenta e la “maga” viene chiamata accabadora. Come dice Paolo Toschi, le tradizioni divengono, non solo in Sardegna, s’intende, «oggetto di esercitazioni dilettantesche e sfogo di bassa letteratura ‘coloristica’». È facilmente intuibile che lo stravolgimento cui abbiamo accennato abbia portato a una fantasiosa reviviscenza del fenomeno. Un esempio sintomatico del confusionarismo teorico e pratico è dato dal libro di Dolores Turchi (l’autrice che maggiormente si è occupata del fenomeno) intitolato Ho visto agire s’accabadora (2008). Una novantenne appositamente intervistata racconta che verso il 1940 ha assistito, assieme ad altre persone, alla agonia di una vecchia. Il caso si risolve con l’intervento di una donna che, estratto velocemente da sotto il grembiule un giogo in miniatura lo pone sotto la testa della moribonda e questa subito dopo muore. Si tratta, come si vede, del più classico degli atti magici ritenuti idonei a propiziare la morte, ma senza l’uso di alcuna violenza. Eppure la Turchi lo definisce un episodio di accabadura e chiama l’operatrice col nome di accabadora. Per ironia della sorte la teste espressamente dichiara di non conoscere il termine accabadora, tanto che chiama l’operatrice “la donna del piccolo giogo”.

La letteratura accabaduriale, peraltro, nel tentativo di dare fondatezza documentale alle proprie tesi, da una parte si avvale di una raccolta di poesie dialettali del sec. XVIII, che contiene espliciti riferimenti al fenomeno (Deus ti salvet Maria. Testi poetici inediti di Bonaventura Licheri), pubblicata nel 2005, e dall’altra, a cominciare dall’Angius, segnala diversi episodi di accabadura che sarebbero realmente accaduti. Per quanto riguarda la raccolta poetica, essa risulta, come viene inoppugnabilmente dimostrato, del tutto apocrifa riguardo all’autore, ai contenuti e all’epoca di presunta scrittura. Per quanto riguarda invece i pochissimi episodi addotti, una attenta analisi critica mostra che essi sono o palesemente inattendibili o collocabili fra i casi del rituale magico o assolutamente privi di riscontri reali, requisito, quest’ultimo, che non si può non pretendere per fatti che si indicano avvenuti nel secolo XX.

Il prof. Pittau ci informa però che, sulla base dei suoi studi di Filosofia morale, non possiamo dubitare delle notizie fornite da autori “che risultino essere stati del tutto disinteressati e in piena buona fede”. Applicando tale raffinato principio dovremmo ancor oggi credere che il Sole giri attorno alla Terra. È comunque appena il caso di rilevare che l’esame di un autore costituisce solo una parte della complessiva indagine da compiere su un testo, tenendo anche conto che il più delle volte gli autori non hanno avuto una conoscenza diretta dei fatti che raccontano. È l’esame di questi ultimi che riveste una importanza decisiva per la valutazione non solo della loro veridicità, ma anche della loro compatibilità con i dati storici in senso lato.

Ma il prof. Pittau respinge i risultati della analisi critica condotta nel libro sui singoli episodi, sostenendo che è assurdo pretendere prove certe che potrebbero essere date solo dall’uso di telecamere. L’affermazione appare, sul piano storico, semplicemente peregrina. Forse che la mancanza di telecamere ha impedito a Lorenzo Valla di dimostrare la falsità della donazione di Costantino e di numerosi altri documenti confezionati da magliari ecclesiastici e laici? Theodor Mommsen ha forse utilizzato telecamere per mostrare la falsità delle Carte d’Arborea? Il gesuita Hippolyte Delehaye, pur non usando telecamere, non ha forse collocato fra le leggende le miracolistiche panzane contenute negli “atti dei santi”? Ma ci sono anche dei casi in cui, pur in presenza di atti giudiziari, di testi e addirittura di confessioni, elementi tutti che il prof. Pittau riterrebbe “prove certe”, ci si trova di fronte a episodi destituiti di qualsiasi fondamento reale. Si pensi per esempio ai processi contro le streghe, accusate tra l’altro di volare e di avere rapporti di vario genere con personaggi irreali come i cosiddetti diavoli.

Ora, di tutti gli episodi riportati nella letteratura accabaduriale solo due dispongono della presenza di testi. Uno è quello citato dalla Turchi nel libro Ho visto agire s’accabadora, del quale abbiamo parlato e che è una espressa vicenda magica. Il secondo episodio viene invece narrato da Raimondo Calvisi e sarebbe accaduto a Bitti nel 1906 (ma “rivelato” solo nel 1960): esso però non solo viene esposto due volte con particolari diversi e contiene incongruenze tali da far pensare a un racconto fantasioso a scopo edificante (l’autore è un religioso), ma in nessun passo esplicitamente indica un esito omicida. Non è un caso che Pittau eviti di citare i due casi che, ripeto, sono gli unici che accennino alla presenza di testi. 

Tutti gli altri episodi, nessuno escluso, che potrebbero far pensare alla accabadura sanguinaria, sono privi non solo di testimonianze dirette ma anche di qualsiasi prova documentale o di altro genere e tutti poi (meno l’infantile racconto della “giovinetta oliata” proposto dall’Angius nel 1834) sono stati riesumati dopo il 1960, man mano che si diffondeva la cultura accabaduriale, prima pressoché inesistente. Quando Pittau pretende dagli altri le telecamere, fa finta comunque di dimenticare che l’ onere della prova spetta ei qui dicit, cioè a chi afferma un fatto o una tesi.

In certi casi, d’altronde, le prove non dovrebbero mancare. Prendiamo, per esempio, l’episodio che sarebbe accaduto a Luras nel 1929, citato dagli autori A. Bucarelli-C. Lubrano. È stato detto che nel paese della Gallura l’ostetrica avesse aiutato a morire un vecchio settantenne, ma che il Procuratore del re e i Carabinieri abbiano archiviato il caso, non ritenendolo un omicidio. L’ostetrica viene però qualificata dai due autori come accabadora. Ma nonostante le indagini archivistiche effettuate, relativamente all’episodio non è mai stato trovato alcun documento, che nessuno, tra l’altro, avrebbe avuto interesse a nascondere; peraltro, l’ostetrica era una dipendente pubblica. In secondo luogo non esiste alcuna memoria collettiva che ricordi l’episodio. Infatti le ricerche sulle tradizioni popolari galluresi, effettuate verso il 1935-36 da Maria Azara non avrebbero potuto non registrarlo; tanto più che la ricercatrice si è avvalsa anche della collaborazione di due illustri personalità di Luras, come i proff. Giuseppe Meloni e Filippo Addis.

Sul piano generale, poi, si pongono due problemi, che non possono essere elusi. In primo luogo, essendo comunque pochissimi i casi che vengono ritenuti, dalla letteratura in materia, episodi di accabadura sanguinaria, come si fa a sostenere la tesi della esistenza di una tradizione popolare, che, in quanto tale, sarebbe dovuta essere stata conosciuta e diffusa nelle società interessate? In secondo luogo, sulla base di quali elementi ogni soppressione, vera o presunta, di malati o di anziani può essere qualificata accabadura? Come si fa, infatti, a parlare di accabadura nell’episodio di Luras (e in quello di Orgòsolo) se gli autori della notizia si guardano bene dal riferire una sia pur minima circostanza dell’evento?

Al riguardo è opportuno ricordare, a Pittau e ai sostenitori del partito accabaduriale, la delimitazione operata dall’inventore del fenomeno, cioè Vittorio Angius, secondo il quale non rientrano nella “empia pietà” delle accabadoras le soppressioni di un malato la cui morte non sia certa e “prossima”, cioè imminente o quelle dovute al rancore di una matrigna, a un amore adultero, alla cupidigia per l’eredità, alla convinzione che il malato sia un ostacolo per raggiungere un obiettivo “disonesto”, né vi rientrano le eliminazioni poste in essere per il fastidio recato dai lamenti di un afflitto o per la stanchezza dovuta alle continue attenzioni verso di lui: “le quali cose scellerate, che esistono spesso in tutte le genti, non sono nella nostra questione”.

L’archetipo angiusiano, come si vede, riduce l’accabadura al solo caso della agonia difficoltosa, il cui esito (la morte) è però certo e prossimo. Ma una simile usanza sarebbe del tutto insensata e paradossale. Per quale ragionevole scopo, infatti, dovrei permettere che venga fracassato il cranio o lo sterno di un mio parente, se so che la morte è certamente prossima?

A fronte delle distinzioni operate dall’Angius sorprendono le notazioni linguistiche di Pittau, che egli ritiene “di importanza decisiva”, ma che in realtà sono semplicemente intrise di confusionarismo semantico. Se esistono, egli sostiene, i vocaboli accabadora (accoppatrice) e accabadura (finitura, accoppamento), da accabare (finire, terminare, accoppare, uccidere), significa che essi facevano riferimento a fatti reali e concreti, non a leggende inventate. Ora, è noto che il verbo sardo deriva da quello iberico (castigliano e catalano) acabar. Ebbene, entrambe le lingue iberiche hanno i sostantivi corrispondenti ad accabadora (acabadora) e accabadura (acabamiento, acabament), ma in nessun tempo e in nessun luogo della Spagna gli studiosi di storia, di linguistica, di antropologia o di etnografia hanno mai intravisto figure analoghe alle fantomatiche accabadoras sarde che sopprimono agonizzanti. Come mai? Semplicemente perché, in tutte e tre le lingue, si tratta di un termine generico. Ogni lavoro e ogni opera hanno un inizio e una accabadura (una fine); la vita dell’uomo ha un inizio (la nascita) e una accabadura (la morte); qualsiasi omicidio è genericamente una accabadura. È un dato di fatto che il campo semantico, cioè dei significati, legato al verbo acabar-accabare è stato nei secoli ed è ancor oggi pressoché identico nelle tre lingue.

Qui però stiamo parlando non di un termine generico ma specifico, legato a una presunta usanza che sarebbe consistita nella soppressione rituale di un agonizzante, del quale si pronostica la morte certa e imminente, effettuata da una donna con un oggetto e con modalità particolari. Ma di questa usanza non esistono tracce, mentre, come abbiamo visto prima, non esisteva, nella prima metà del 900, la diffusione popolare del nome della operatrice.

Pittau richiama l’esistenza della corrente di ricerca linguistica “Woerter (scil. Wörter) und Sachen” (Parole e Cose) per sostenere che se esistono dei verbi e vocaboli come accabare e accabadora esiste pure la relativa “cosa”, cioè l’accabadura. Nessuno evidentemente può negare che lo studio della cultura materiale (le cose, sostanzialmente) possa essere di importanza fondamentale, e talvolta determinante, per la glottologia delle diverse aree geografiche, ma nel nostro caso il richiamo alla sopra indicata corrente di ricerca non risulta pertinente. Per due motivi. In primo luogo perché, come sostengono i linguisti F. Cugno e L. Massobrio proprio con riferimento alla corrente “Wörter und Sachen”, occorre avere una “conoscenza precisa e diretta del referente” designato da una parola, tenendo conto che “uno stesso termine può essere associato a oggetti diversi o a modelli e tipi differenti di un medesimo oggetto” e dei “casi in cui alle distinzioni morfologiche se ne associano altre di natura semantica”. Ciò è quanto abbiamo detto prima, parlando dei termini generici.

In secondo luogo, molti vocaboli, che derivano dall’immaginario (fantasia, religioni, letteratura, credenze popolari, mitologie etc.) o non hanno alcuna connessione con le “cose” o sono comunque privi di realtà. Per esempio il sardo menziona la sùrbile, un personaggio che succhia il sangue dei neonati (il verbo di riferimento sarebbe surbire), ma nessuno, almeno finora, ne ha ammesso la realtà. Esiste, in latino e in italiano, il verbo ascendere, ma non hanno riscontro reale le “ascensioni” al cielo di esseri umani. Esistevano le costruzioni chiamate ninfei, in onore delle ninfe: ma queste sono esistite solo nella mitologia, cioè nella fantasia dell’ uomo. Potremmo ovviamente continuare all’infinito. Ma è abbastanza chiaro che una cosa sono le più o meno raffinate indagini etimologiche, un’altra la reale esistenza e consistenza delle “cose”, delle figure, dei personaggi.

Quantomeno esilarante, per non dire insensata, appare la comparazione che Pittau fa tra le prove riguardanti l’esistenza della accabadora e l’esistenza di grandi personaggi storici, quali Napoleone, Leonardo, Dante, Platone etc. Nel primo caso non vi sono né fatti documentati, né tracce, né tantomeno nomi propri. Nel secondo abbiamo persone fisiche, col proprio nome individuale e della cui esistenza nessuno ha mai dubitato, avendo lasciato, di essa, tracce significative. Per il resto, è da ritenere che abbia ragione un grande maestro di Storia quando dice che “non si possono accettare ciecamente tutte le testimonianze storiche” (Marc Bloch), riferite o meno a grandi personaggi, e che quindi sia d’obbligo applicare costantemente le ormai consolidate tecniche della critica storica. Colpisce invece, nel caso dei sostenitori della accabadura, la presenza di una inerzia mentale che porta alla ripetizione e quindi alla accettazione di qualsiasi strampalata notizia uno di essi abbia fornito. Voltaire attribuirebbe loro la “rozza credulità” che criticava in molti autori, antichi o contemporanei.

Ma per tornare a Pittau, occorre aggiungere che ugualmente dovuto a confusionarismo semantico è il riferimento all’uso del martello di legno, chiamato lu mazzolu (in Gallura). Tale strumento compare, nella letteratura accabaduriale, solo nel 1991, in una intervista fatta da Franco Fresi. Non si tratta anzitutto, come dice Pittau, di una testimonianza su casi avvenuti in epoca recente. L’intervistato è infatti un ottantenne, che racconta la generica attività di accabadora della nonna. Tenendo conto delle fasi generazionali, quest’ultima sarà nata verso il 1850-60: non si può quindi parlare né di testimonianze né di epoche recenti. Il racconto poi è talmente zeppo di incongruenze e di incompatibilità etnografiche da far pensare alla narrazione di un mitomane. Fermiamoci però solo al martello, che quindi compare sulla scena a distanza di oltre 150 anni dalla scoperta della accabadura. Nel prototipo dell’Angius viene indicato, quale strumento soppressivo, il màzzero, che, nell’Italiano del tempo (Vocabolario della Crusca, IV ed.) significava bastone pannocchiuto, equivalente al Lat. Clava: un bastone cioè che va ingrossandosi verso una estremità. Angius lo chiama in Sardo sa mazzucca e Vincenzo Porru, nel suo Dizionario campidanese (1832) così traduce il suo lemma mazzocca: màzzero; baston pannocchiuto, capocchiuto. Siamo quindi ben lontani dal mazzolu gallurese, che è un martello di legno e che pare una cattiva traduzione, stranamente accolta da Pittau, del termine angiusiano mazzucca da parte dell’ottantenne intervistato da Franco Fresi. Pensiamo però che non sia un gran danno scientifico per il prof. Pittau. La clava o màzzero, infatti, è stata usata fin dai primordi dell’umanità: non gli sarà quindi difficile trovarne riproduzioni in numerosi reperti, non solo della civiltà etrusca, ed associarli quindi alla accabadura sarda.

Un altro caso di confusionarismo semantico può essere ravvisato nell’accostamento che egli fa tra un personaggio delle fiabe infantili sarde (Maria Filonzana, Filatrice) e la Parca Àtropo (l’Inflessibile), che tagliava il filo della vita, come l’accabadora. Si dà però il caso che la Parca che propriamente filava e che quindi veniva associata alla vita e non alla morte, era Cloto (Klothó, appunto “filatrice”). È appena il caso di accennare che in un suo Dizionario della Lingua Sarda (2000) Pittau aveva associato questa Maria Filonzana alla seconda Parca, Làchesi. Esiodo diceva che le Parche erano figlie della Notte: c’è da ritenere che sia vero, se qualcuno, ancora oggi, non riesce a distinguerle, pur essendo solo tre. In tutti i casi un parallelismo tra Átropo e la figura della accabadora appare del tutto scriteriato: la parca si occupa infatti a tempo pieno di tutte le persone, nessuna esclusa; l’accabadora è una avventizia che solo eccezionalmente si occupa di una ristrettissima categoria di persone.

È opportuno segnalare, per concludere, che posizioni analoghe a quelle sostenute ne L’accabadora immaginaria sono contenute in un libro, al quale ho già accennato, uscito quando il primo era già in composizione. É scritto da Chiara Dolce e si intitola La donna del capezzale. Storia e antropologia dell’accabadura. L’autrice ha seguito ultimamente un dottorato di ricerca scientifica nell’ambito della Antropologia Filosofica presso l’Università di Cagliari. Il consistente saggio, di oltre 400 pp., nel negare la reale esistenza del personaggio, “ci racconta di come sia possibile ricostruire e reinventare una tradizione per farne attrazione turistica, materiale per romanzi di successo e argomento forte a favore dell’eutanasia. Una lettura che invita a riflettere sulle ragioni e sulla complessità dei fenomeni culturali”. Occorre aggiungere che è la prima volta che uno studioso non sardo, appartenente al mondo accademico, affronta in modo organico la materia, senza la frammentarietà dello scritto occasionale, con la competenza che non può essere riconosciuta a certi ricercatori domenicali nostrani e col distacco necessario in chi vuole condurre una attività di ricerca scientifica.