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La maschera è caduta

di Francesco Lamendola - 21/07/2017

La maschera è caduta

Fonte: Accademia nuova Italia

Da tempo cominciavano a lasciar cadere la maschera: dovevamo essere più attenti

 

 

 

Da qualche anno a questa parte, specialmente a partire dall’elezione alla cattedra di Pietro del papa attuale, molti di noi sono rimasti dapprima sconcertati, indi turbati, infine sconvolti, dalla piega rapidissima e inattesa che ha preso la Chiesa cattolica, nelle parole e negli atti di parecchi cardinali, arcivescovi e vescovi, di alcune migliaia di sacerdoti, e di un congruo numero di teologi, per non parlare dei credenti laici, impegnati in una gara forsennata per allontanarsi da ciò che è sempre stato il Magistero e per costruire una nuova chiesa che, con l’antica, la vera e la sola, sembra non avere più nulla, o quasi nulla, a che fare. Eppure, la verità è che c’erano stati, e da tempo, dei segnali, degli indizi, delle avvisaglie; e che, se fossimo stati un poco più attenti, un po’ meno fiduciosi, o, per meglio dire, un po’ meno ingenui, avremmo potuto e dovuto coglierli, preparandoci, anche psicologicamente, oltre che spiritualmente e intellettualmente, alla bufera che stava per scatenarsi. Tali segnali si erano moltiplicati negli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II e hanno caratterizzato, fin dal primo giorno, quello di Benedetto XVI. In maniera meno evidente, tuttavia, essi avevano cominciato a fare capolino molto, ma molto prima: a partire dal pontificato di san Pio X, il quale papa, vigile e attento, non si era fatto cogliere impreparato, vista l‘energia e la prontezza con cui aveva fronteggiato la minaccia del modernismo. I segnali si erano poi moltiplicati dopo la morte di Pio XII, e specialmente durante e dopo il Concilio Vaticano II, che i suoi sostenitori non si sono mai peritati di presentare, gloriandosene, come una “rivoluzione”, senza preoccuparsi del fatto che un tale concetto è in se stesso contraddittorio, perché la Chiesa rappresenta la fedele trasmissione della Scrittura e della Tradizione, e, pertanto, è incompatibile con la rivoluzione, che è brusco e radicale cambiamento dell’esistente e un rifiuto inappellabile del passato. Come disse monsignor Lefebvre, il solo, forse, che avesse visto giusto e compreso immediatamente quel che stava succedendo: la rivoluzione è entrata nella Chiesa ad opera degli stessi pastori che avrebbero dovuto custodirla. E dava anche un nome preciso a tutto ciò: quello della massoneria. Tuttavia, limitandoci ai tempi a noi più vicini, e cioè dal pontificato di Benedetto XVI, sono stati parecchi gli esponenti di spicco della Chiesa che avevano incominciato a lasciar cadere la maschera; gli stessi che ora, come coribanti, ballano e cantano sguaiatamente, senza un’ombra di pudore, al ritmo della musica del pontificato di Bergoglio, mettendo in scena questo spettacolo atroce: una chiesa che si auto-demolisce, che si auto-disprezza, che si auto-denigra, e che, nel medesimo tempo, loda, complimenta ed elogia tutto ciò che è estraneo alla chiesa, anzi, tutto ciò che è nemico, da sempre, e nemico dichiarato e implacabile, della chiesa: senza che la grande massa dei fedeli si renda conto di quel che sta capitando, tale è stata l’opera di appiattimento spirituale, decerebrazione e anestetizzazione morale portata avanti, con abilità e costanza, negli ultimi decenni.

Prendiamo uno a caso di questo signori: monsignor Vincenzo Paglia, pezzo grosso della neochiesa bergogliana, arcivescovo e attuale presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Essendo anche consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio, si capisce benissimo a quale tipo di cattolicesimo si ispiri; ci domandiamo, tuttavia, se, regnante Benedetto XVI, avrebbe osato fare la sperticata e oscena apologia del defunto Marco Pannella (lo spirito di Marco ci aiuti a vivere in quella stessa direzione, aveva detto), portando ad esempio dei cattolici un uomo che ha fatto della sua intera vita una battaglia incessante contro i valori rappresentati dal Vangelo. Certo, era ancora regnante Benedetto XVI quando Paglia, in qualità di vescovo di Terni, faceva affrescare il duomo della sua città da un pittore omosessuale dichiarato, in chiave omosessualista, mediante una sacrilega “resurrezione” nella quale i peccatori salgono al cielo, portati direttamente da Cristo, senza mostrare il benché minimo pentimento dei loro peccati; peccatori fra i quali il bravo vescovo progressista non si è vergognato di farsi ritrarre, con aria estremamente soddisfatta (contento lui, contenuti tutti). Per la cronaca, e tanto perché certe cose è giusto saperle, quando ci si trova di fronte a un determinato personaggio, monsignor Paglia è anche colui che ha lasciato in eredità alla diocesi di Terni un “buco” finanziario semplicemente enorme (la stampa ha riferito di circa 60 miliardi delle vecchie lire), buco che, evidentemente, saremo chiamati noi tutti a ripianare, attraverso il meccanismo fiscale dell’otto per mille.

Ebbene, questo signore, insieme al giornalista Franco Scaglia, nel 2012 - Benedetto XVI regnante – ha pubblicato un grosso libro di trecentocinquanta pagine, sotto forma d’intervista o di colloquio, intitolato Cercando Gesù, sottotitolato: In un mondo sempre più confuso, saremo ancora capaci di amore?, nel quale, sia pure con una certa cautela, paragonata ai furori attuali, non esita a lasciar trapelare abbastanza chiaramente, almeno ad un lettore attento, le sue profonde convinzioni e i suoi autentici obiettivi. Non intendiamo occuparci di tutto il libro e nemmeno di singoli capitoli; sarebbe cosa troppo lunga, e, in realtà, assai poco interessante, se non come studio psicologico: cioè per vedere con quanta serpentina abilità egli lasciava filtrare le idee che oggi esprime a tutto campo, infischiandosene allegramente dello scandalo e della confusione che ha provocato in milioni di cattolici. E non ci riferiamo solo alle lodi sperticate di Pannella, né solo allo scandaloso affresco di Terni, ma a tutta una serie di atti totalmente inaccettabili per qualsiasi cattolico, non diciamo per un arcivescovo, sempre più frequenti, l‘ultimo dei quali è consistito nell’avere invitato a far parte della Pontificia Accademia per la Vita un teologo anglicano, tale Nigel Biggar, favorevole all’aborto (oh, ma solo fino alla quarta settimana di vita del feto!; ci vuole un po’ di umanità, dopotutto, non siamo mica dei selvaggi…). Diciamo solo che, nel libro, le “puntate” e le insinuazioni eretiche procedono di pari passo con le omissioni ed i silenzi assordanti. Per fare un esempio, nel lungo capitolo introduttivo Vincenzo Paglia si diffonde, per pagine e pagine, sull’importanza della Bibbia, di leggere e conoscere la Bibbia, anche con considerazioni estranee e del tutto peregrine, come quando lamenta che la gente legge poco di tutto, compresi giornali e riviste; ma non dedica una pagina, né una frase, né un rigo, alla sacra Tradizione. Se ne desume che, per lui, come per Lutero, la Scrittura è tuttala Rivelazione: sola Scriptura (beninteso, interpretata alla maniera dei vari Sosa Abascal, Martin, Galantino, eccetera), e la Traduzione è nulla. Viceversa, il Magistero ecclesiastico ha sempre affermato e ribadito - e il Concilio non l’ha smentito, fino a prova contraria - che due sono le fonti della divina Rivelazione: la Scrittura e la Tradizione.

Dunque, Paglia la pensa, riguardo alla Rivelazione, come i protestanti; eppure è un arcivescovo cattolico. E il fatto d’ignorare la Tradizione si riflette, nel suo libro, nel fatto che, sui diciotto capitoli dei quali è composto, non uno solo è dedicato a Maria Santissima. Non si tratta, pertanto, di questioni meramente teologiche, ma anche pratiche: eliminare la Tradizione equivale a eliminare, o svalutare, il ruolo di Maria nel piano della salvezza. E il culto di Maria è uno degli aspetti essenziali e qualificanti del cattolicesimo: fino a prova contraria. Fino a prova contraria, milioni e milioni di cattolici pregano, da secoli, recitando il santo Rosario: pregano, cioè, l’Ave Maria. Nel libro di Paglia si parla di tutto o quasi tutto, e non solo in ambito religioso: dell’etica, della carità, della giustizia, della guerra, del Terzo Reich, del perdono, della gratuità e della nuova arca dell’alleanza; si citano una quantità di filosofi, molti dei quali non cristiani o anticristiani, e quasi tutti moderni, ma, soprattutto, tutti politically correct, cioè tutti debitamente progressisti, democratici, liberali, libertari, antifascisti, eccetera. Di Maria, dei Santi, degli Angeli, però, non si parla altrettanto, o non si parla affatto. Forse per non dispiacere ai non cattolici e ai non credenti? Forse perché, come amabilmente ha ricordato a noi tutti il papa in persona, Dio non è cattolico? Ora, se la Madonna ha un posto centrale nella fede cattolica, ma Dio non è cattolico, allora è perfettamente logico che un fedelissimo di Bergoglio, come Vincenzo Paglia, “oscuri” la Madonna e metta invece al centro le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e via dicendo, per additarci un Gesù Cristo che somiglia molto, moltissimo, al Gesù di Lutero, ma un po’ meno al Gesù che noi cattolici abbiamo sempre conosciuto, amato e venerato. E quindi, avanti con Jacques Derrida e Hans Jonas, con William Stryon e con il Dalai Lama: complimenti, questa sì che è una cultura aggiornata e tutt’altro che clericale: secondo gli auspici del papa, che considera il “clericalismo” come la peggiore piaga possibile della sua Chiesa (un po’ strano, vero?); e silenzio su quelle cose che sono specificamente cattoliche, e care al cuore di milioni e milioni di cattolici, da innumerevoli generazioni. Questo significa saper marciare al passo con i tempi: tempi di progresso, s’intende!

Fermeremo la nostra attenzione solo su un brano che si trova verso la fine del libro, e che sembra concepito in polemica aperta con sant’Agostino (op. cit., Edizioni Piemme, 2012, p. 306):

 

Il Vangelo ci suggerisce che non ci sono due storie, una di Dio e l’altra degli uomini, e neppure due città, quelle della terra e quella del cielo. C’è una sola storia, quella di Dio che continua a cercare l’uomo e quella dell’uomo che cerca ovunque Dio. E così pure non ci sono due città, ma una sola: quella che viviamo e che il Vangelo ci invita a rendere “nuova”. Il peccato pensare che la storia finisce con noi o, peggio ancora, con l’io. C’è una pericolosa idolatria del “soggetto”, dell’”io”, che nel vuoto di pensiero si afferma sempre più largamente.

Una giustizia, ossia un impegno politico per la società, intesa anche in senso largo, se è privata della carità, facilmente raggiunge le derive dell’imbarbarimento, dei totalitarismi e dei fondamentalismi. L’amore rende la giustizia più umana, rende la città degli uomini più solidale, aiuta a globalizzazione a essere più a misura dell’uomo.

Avviciniamo la figura di Gesù, in qualche modo, all’uomo del nostro tempo, e immettiamo nel “mercato” (anche quello finanziario) il suo insegnamento. Ciò non significa avvicinare la Bibbia alla strada. Ma avere un rapporto semplice e naturale e non sacrale con il linguaggio della Bibbia.

Gesù stesso, come è riportato nei Vangeli, non ha mai utilizzato una cadenza sacrale, parlava in aramaico, semplice nella sintassi, ricco di immagini e vicino alla vita quotidiana. È questo il Gesù con cui facciamo il patto. Se lo spirito della scrittura è paragonabile al fuoco, allora la lingua è il legno. Dal legno ci si aspetta che bruci bene.

 

Poche righe, molti spropositi e parecchie affermazioni eretiche. Dire che non ci sono due storie, quella di Dio e quella degli uomini, equivale a dire che la storia è tutta e solo la storia umana; e dire che non ci sono due città, ma solo quella che viviamo e che il Vangelo ci invita a rendere “nuova”, equivale a negare la dimensione soprannaturale. Tutta la realtà si riduce al mondo terreno, dove Dio, dice (ma quale dio, a questo punto?) cerca l’uomo, e l’uomo cerca Dio. Fra parenesi, dove vede monsignor Paglia tutti questi uomini che cercano Dio? A noi pare che il problema della civiltà moderna è proprio che gli uomini non cercano affatto Dio, anche perché ritengono che sia morto, e di averlo ucciso proprio loro. Dire, poi, che sono gli uomini a dover costruire la loro città, equivale a negare o sminuire il ruolo della Grazia e della Provvidenza, e ancor più quello dell’Incarnazione. Dire che l’amore deve rendere il mondo più a misura d’uomo, senza specificare che l’uomo, da solo, non è capace di un tale amore, è sbagliato; senza contare che il mondo, per un credente, non deve diventare più a misura d’uomo, ma più a misura del Vangelo: perché è col Vangelo che l’uomo rinasce e diventa più uomo, non da se stesso. Dire che bisogna avvicinare, in qualche modo, la figura di Gesù (si noti: non la Persona di Gesù, ma la sua “figura”) all’uomo del nostro tempo, è un’eresia e una bestemmia, perché abolisce la differenza ontologica fra creatura e Creatore: Gesù è Dio che si fa uomo, e, semmai, è l’uomo che deve “avvicinarsi” a Lui; Lui non si è “avvicinato” all’uomo, si è incarnato, il che è leggermente diverso. Auspicare l’abbandono di un rapporto sacrale con la Bibbia è un’eresia e una bestemmia: la Bibbia è Parola di Dio, come si fa a non considerarla sacra? E affermare che Gesù non utilizzava una “cadenza sacrale” è una stupidaggine e una falsità: Gesù parlava in maniera semplice, sì, ma, nello stesso tempo, estremamente sacrale. Faceva riferimento alle Scritture in continuazione, e di continuo si rivolgeva a Dio e invitava gli uomini a fare altrettanto: come si chiama, tutto ciò? Ma Gesù, dice il nostro, parlava in aramaico. Di grazia, monsignore, e in quale lingua avrebbe dovuto parlare? L’aramaico era la lingua parlata allora in Palestina. Forse che doveva parlare in ebraico, una lingua morta da secoli, o in greco, o in latino? Quanto a immettere Gesù sul mercato, anche finanziario, che dire? Ecco la maschera che scivola…