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La mitologia della scienza

di Sergio Cabras - 26/08/2017

La mitologia della scienza

Fonte: Sergio Cabras

Gli 'esperti' non hanno mai una visione asetticamente tecnica delle cose, come a volte vorrebbero far credere, ma sempre vi è coinvolta la condizione dalla quale parlano, che non è data solo dal genere di studi in cui si sono formati, dai loro titoli o dalla loro specializzazione, ma soprattutto dalla loro condizione di vita. Trattandosi di persone in una posizione più o meno privilegiata - o comunque garantita - è difficile che mettano in questione le basi del Sistema più radicalmente di tanto. Ed anche per formazione, la loro regola di attenersi ai dati, sorvola troppo facilmente sul fatto che nella realtà, non solo percepita (che certo a volte non coincide con la situazione reale) ma vissuta dalla gente, ci sono anche molte cose che non risultano nei dati, vuoi perché non ci si dà la briga di cercarle e registrarle dove le si potrebbero trovare, vuoi perché bisognerebbe inventare sistemi di rilevazione adatti a poterlo fare, vuoi perché a volte si tratta di cose che per loro natura non sono registrabili statisticamente. Di fronte a ciò l'abitudine "scientista" è quella di ignorare o perfino negare l'esistenza di alcuni problemi o altrimenti sminuirne l'importanza sottoclassificandoli come dettagli, casi particolari irrilevanti.

C'è un presupposto ideologico a questo atteggiamento che è parte, come la Scienza, del paradigma della Modernità Occidentale. Essendo la Storia il procedere della Società verso il Progresso ed essendo nella fase attuale il capitalismo avanzato il sistema che regola la Società ed il motore della Storia, le conseguenze degli aspetti strutturali, necessari, inevitabili dello sviluppo capitalistico e del suo funzionamento - quali che ne siano le conseguenze subite dalla gente (che guardacaso son quasi sempre gli altri, rispetto agli esperti) - non possono che essere accettate. E ciò vale anche nel caso in cui l'ottica adottata vede questa come la strada obbligata per arrivare dall'"altra parte", eventualmente, all'abbattimento del Sistema. È il movimento della Storia che, come si sa, va verso il Meglio. Un "meglio" che pare esser tale, a questo punto, per il fatto in sé stesso di esser nuovo rispetto a ciò che lo precedeva, cioè al "vecchio". Qualunque cosa il nuovo sia, è ciò di cui dopo si dirà - storicisticamente si dovrà dire - che il suo sviluppo era necessario. E proprio per questo è meglio. Quindi "la gente" non può e non deve opporsi a questo sviluppo, né ciò avrebbe comunque senso, né in ogni caso sarebbe possibile farlo perché antistorico. Si tratta solo, si dice, di "governare" i processi in atto. In primo luogo ciò implica che saranno prima di tutto gli "addetti ai lavori" a poterlo fare: i politici al governo e la casta degli esperti.
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Tra ciò che ne deriva c'è, appunto, la credenza che una casta di tecnici in "odore di scienza" abbia in mano gli strumenti per "governare" gli avvenimenti generati da meccanismi al di là del nostro controllo. Non pare si pensi mai, però, che la soluzione migliore per un tale tipo di meccanismo sarebbe quella di non lasciarlo crescere fino a questo punto e, qualora fosse ormai troppo tardi (come nel nostro caso), smettere di alimentarlo e riprodurlo. Cioè mettere in questione radicalmente tutto il Sistema, perché per sua stessa natura non può che dar luogo alla molteplicità di fenomeni distruttivi che sono sotto i nostri occhi e che non vanno trattati come fossero solo episodici o marginalmente collaterali. Le soluzioni individuate sembrano invece non prendere in considerazione questa possibilità. Si limitano ad apportare (o più spesso ad immaginare) palliativi. 
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Però, al di là della condizione di privilegio che caratterizza perlopiù i componenti della "casta" degli esperti ed intellettuali, è in sé stessa la condizione di sostanziale stallo a cui è arrivata la riflessione filosofica, estetica, storico-artistica, ecc... a mostrare come si sia giunti ad una fase terminale della Modernità Occidentale. Il dibattito accademico e più in generale tra gli intellettuali nella postmodernità è diventato essenzialmente un esercizio circolare che ruota intorno alla critica di ciò che altri hanno già detto su ciò che altri hanno già detto su ciò che altri hanno già detto (ecc...).... ...sulla realtà. Ma è ben raro trovare qualcuno che provi ad esprimersi direttamente su di essa. Peraltro, esprimersi filosoficamente sulla realtà significa in qualche modo esprimersi sulla verità, ma oggi si nega del tutto che una verità possa darsi come alcunché di indipendente dalle opinioni.

Già le difficoltà che molti riscontrano nel definire in modo chiaro cosa possa intendersi per Postmodernità - pur vedendo che si tratta di una fase in qualche modo distinguibile dalla Modernità vera e propria - è sintomatico di uno stato di confusione che pervade ormai un po' tutto l'orizzonte di una civiltà che rischia di implodere (forse trascinandosi dietro il resto del mondo nel proprio destino) ma che non può non mettere in dubbio i propri presupposti fondamentali se vuole salvarsi dagli esiti inevitabili delle contraddizioni che ha creato. Il relativismo assoluto (o piuttosto l'assolutismo relativista) che permea il postmodernismo, pur senza l'onestà intellettuale di dirlo esplicitamente, è visto da qualcuno come una condizione iperavanzata rispetto ad ogni altra cultura ed alle fasi precedenti di quella occidentale stessa. Al contrario, può essere interpretato - direi, più correttamente - come l'estremo tentativo di tenere alta la bandiera della superiorità intrinseca del pensiero occidentale, ovvero, in ultima analisi, del Logos, di fronte alla scoperta cui esso stesso è dovuto finalmente giungere. Quella di non poter trovare alcuna base teorica per fondare questa superiorità - unica giustificazione del potere e della missione che pretende di poter esercitare sul mondo. Ma il postmodernismo ne tiene alta la bandiera continuando la riaffermazione circolare (nel senso che gira su sé stessa) del valore del Logos nel saper difendere proprio (la "verità" del)la relatività assoluta del tutto. Il valore del discutere senza fine di qualsiasi cosa (ma soprattutto del discutere sul discutere e sul discusso). Proprio per dimostrare che, in "ultima" analisi (si fa per dire), di qualsiasi cosa non si può che discutere, senza fine, e senza mai trovare alcun punto fermo, perché questo infinito discutere è in sé garanzia di libertà, di pluralismo, di democrazia: non smettere mai di porsi domande, non darsi mai delle vere risposte. Questa è la bandiera che tiene alta oggi l'Occidente, al di sopra del mondo che affonda intanto sotto i disastri che esso ha creato. Ciò che viene di fatto difeso sono i privilegi dei ceti intellettuali e di quelli benestanti e di potere, il che si riflette in una condizione di stallo sul piano culturale (e su quello della diffusione di una consapevolezza autentica della realtà), il quale permette a sua volta lo stallo sul piano della politica, sotto il cui ombrello di "distrazione di massa" i processi economici speculativi, quelli di potere, di sfruttamento e la distruzione ecosistemica, possono continuare a procedere sostanzialmente indisturbati.

Il complessificarsi delle conoscenze e delle teorie scientifiche, delle loro tecniche e dei dati raccolti, rendono sempre meno possibile addivenire a delle valutazioni in termini di 'meglio' o 'peggio', dal momento che non si trovano più basi valide per stabilire con quale metro o in che senso queste valutazioni dovrebbero essere intese. Il risultato di ciò è che la conoscenza diventa sempre più neutra, limitantesi a registrare storicamente le idee, le concezioni e le scoperte, ma sempre meno in grado di poter fare di queste qualcosa di utile per prendere decisioni sulle questioni di fondo. Al tempo stesso l'applicazione tecnica delle conoscenze, invece, procede spedita, grazie alla presunzione che si tratti di qualcosa in sé neutra, che può essere tanto positiva che negativa secondo l'uso che se ne fa. Il problema è che la tecnica va avanti con tutte le sue conseguenze collaterali grazie al fatto che è "neutra", mentre la conoscenza (sia scientifica che umanistica) non ci può più dare indicazioni sulle scelte valoriali che possano informare cosa ne vada fatto o non ne vada fatto, anch'essa in quanto deve attenersi ad una neutralità resa necessaria dalla visione relativista che emerge dalla conoscenza stessa. Nel frattempo, l'uso di tecniche e tecnologie resta in mano a coloro che hanno finanziato la ricerca che le ha prodotte e di chi ha i mezzi per sfruttarle e procede - con tutte le sue conseguenze - seguendo logiche che non rispondono ad esigenze etiche di alcun tipo, ma che non sono affatto neutre né neutrali, avendo solo obiettivi di profitto e di potere. Il risultato è uno stato di pericolo sempre più imminente ed, a fronte di questo, una stasi decisionale sempre più paralizzante quanto a ciò che può e deve essere fatto sulle questioni critiche di fondo della nostra epoca che minacciano il nostro ed altrui futuro.

Per valutarli in termini scientifici i fenomeni possono essere visti solo ponendosene all'esterno perché ciò permette una almeno relativa oggettività, e l'analisi deve limitarsi ad essere neutralmente descrittiva perché altrimenti lo sguardo non sarebbe equidistante tra le diverse interpretazioni possibili. Nello studio delle fasi storiche e della storia della cultura considerare i processi nella loro complessità è possibile solo a posteriori. È chiaro che una valutazione ex-post equivale ad una valutazione dall'esterno e che l'ex-post è l'unica posizione da cui poter vedere la Storia "dall'esterno". Come è altrettanto chiaro che, per questa via, il solo momento in cui si possa dare una valutazione che abbia un qualche valore scientifico/oggettivo è quando è troppo tardi per poterla utilizzare in termini di intervento pratico sul reale.

In questo modo il primato del Logos al tempo del postmodernismo diventa la riaffermazione circolare del relativismo (variamente teorizzando, dibattendo e contestando, nelle scienze umane e sociali) che fa da contesto culturale utile ad assicurare l'indisturbato procedere lineare dello sviluppismo (nell'espansione materiale di un modello di pratica economica, politica e militare), ovvero del dominio globale del capitalismo avanzato e finanziario che si presenta esteriormente come trionfo della democrazia e dei diritti civili.

tratto da "L'alternativa neo-contadina"