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Le statue che cadono non cancellano la storia

di Antonio Carioti - 27/08/2017

Le statue che cadono non cancellano la storia

Fonte: Corriere della Sera

È una scena del film di John Ford I cavalieri del Nord Ovest, un western del 1949 che amo tantissimo. Mi è tornata in mente per via delle polemiche sui monumenti ai militari sudisti negli Stati Uniti. 


Eccola: dopo un combattimento con gli indiani, c'è un anziano soldato morente che, di fronte al capitano Brittles (John Wayne), si rivolge al sergente Tyree (Ben Johnson) e lo chiama «capitano». Non sta delirando, perché Tyree aveva in effetti quel grado nell'esercito sudista: dopo la disfatta si è arruolato come sottufficiale nella cavalleria degli ex nemici. E il vecchio soldato, che muore subito dopo, è addirittura un ex generale del Sud sotto falso nome. Brittles gli rende omaggio con un breve discorso e Tyree lo seppellisce posando sul cadavere una bandierina confederata. 

Un segnale fra tanti del modo in cui gli Stati Uniti sanarono le ferite della terribile guerra di Secessione (1861-1865): riconoscendo che i vinti meritavano rispetto. Dopo un aspro regime di occupazione militare durato diversi anni, il compromesso del 1877 aveva restituito agli Stati del Sud pari dignità nell'Unione, consentendo loro di coltivare il mito eroico (bugiardo solo in parte) della causa confederata, fino alla riconciliazione officiata dal presidente Woodrow Wilson sul campo di Gettysburg, a mezzo secolo dalla battaglia, nel 1913. 

Solo che la concordia era stata ritrovata a spese dei neri, liberati dalla schiavitù, ma sottoposti nel Sud (e non solo…) a forme brutali di segregazione e violenza, fino alla pratica orrenda del linciaggio. Che oggi la comunità afroamericana veda i monumenti ai sudisti come simboli di oppressione da cancellare è quindi comprensibile. Ma il pericolo è che, anche per via delle provocazioni razziste e delle ambiguità di Donald Trump, prevalga una visione semplificata e antistorica di una vicenda complessa come la guerra civile americana, ridotta a scontro tra cattivi schiavisti e buoni antischiavisti. 

In realtà nel 1861 la posta in gioco non era la libertà dei neri: gli abolizionisti erano pochi anche al Nord e lo stesso presidente Abraham Lincoln aveva dichiarato di non voler toccare l'istituto della schiavitù là dove era in vigore, pur rifiutandone l'estensione ai nuovi Stati da ammettere nell'Unione. Solo più tardi fece della guerra contro i ribelli una crociata antischiavista. 

Ma i veri nodi erano altri due: la lotta per l'egemonia politica tra la vecchia aristocrazia dei latifondisti meridionali e l'emergente borghesia industriale del Nord; la contesa sulla sovranità tra il governo federale e i singoli Stati. La Costituzione americana non era chiara a tal proposito: i confederati proclamarono la secessione rivendicando il diritto degli Stati di sciogliere il patto al quale avevano aderito; Lincoln sostenne invece che era l'Unione l'autorità suprema, dunque il distacco era illegittimo. A risolvere la controversia fu la forza militare. 

Ma appunto per questo è discutibile il ragionamento di chi, come il sindaco di New Orleans Mitch Landrieu e alcuni studiosi, accusa oggi i sudisti di aver lottato contro gli Stati Uniti. Il fatto è che all'epoca, del tutto legittimamente dal loro punto di vista, essi consideravano come propria patria non la federazione, ma lo Stato a cui appartenevano. 

Emblematico il caso di Robert E. Lee, il più valoroso generale del Sud: contrario alla secessione, critico verso la schiavitù, rimase tuttavia fedele alla sua Virginia, per la quale si batté fino allo stremo. Certo, i confederati difesero un sistema schiavista, il che ci appare vergognoso: senza dubbio avevano torto. 

Ma misurare gli uomini del passato con la sensibilità odierna non è il modo giusto di considerare la storia. Di quanti razzisti, colonialisti, aggressori conserviamo i monumenti? Forse dovremmo rimuovere le vestigia degli antichi Romani? Non a caso adesso a New York si mette in discussione anche Cristoforo Colombo, personaggio effettivamente non immacolato. Solo che di questo passo non si salva quasi nessuno. Probabilmente neanche George Washington e Thomas Jefferson, come ha osservato Trump. 

Forse la soluzione migliore sarebbe trasferire le statue dei confederati in qualche museo, come è stato suggerito. Di certo è scorretto farne dei capri espiatori per la permanenza della questione razziale. Se gli afroamericani poveri sono ancora discriminati, vivono in squallidi ghetti e subiscono abusi polizieschi, la colpa non si può addebitare a Lee e ai suoi compagni d'armi.