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Il vizietto ecclesiastico della guerra civile

di Francesco Lamendola - 05/09/2017

Il vizietto ecclesiastico della guerra civile

Fonte: Accademia nuova Italia

 

Chi non sa fare i conti con se stesso, con il proprio passato, con i propri conflitti irrisolti, prima o poi è condannato e ripetere gli stessi errori, a rivivere le stesse situazioni, senza neppure il vantaggio di avere imparato qualcosa da esse. La Chiesa cattolica non ha mai fatto i conti – per ragioni comprensibili, fin che si vuole – con la pagina forse più oscura della sua storia recente: il coinvolgimento nella guerra civile italiana del 1943-45 (con i prodromi del 1919-1921 e poi con la prova generale spagnola del 1936-39: oggi in Spagna, domani in Italia), che la vide presa in mezzo fra le due parti in lotta. Formalmente essa era neutrale, com’era giusto che fosse; salvo il fatto che il Vaticano, poco riconoscente per i Patti Lateranensi del 1929, non volle mai riconoscere la Repubblica Sociale Italiana, con la debole giustificazione giuridica che non era uso riconoscere i governi nati in un contesto internazionale di guerra tuttora in atto. Di fatto, una parte non certo piccola del clero, dai cappellani militari ai parroci, ai religiosi dei conventi, finì per trovarsi non solo coinvolta, ma schierata, sia con l’una che con l’altra delle due parti in lotta: talvolta per assoluta necessità, talaltra per scelta personale. E non fu piccolo il tributo di sangue che essa versò a quel drammatico capitolo della nostra storia nazionale: più di cento, alla fine della guerra, risultarono i sacerdoti uccisi, sia dai tedeschi e dai fascisti, per rappresaglia, sia dai partigiani comunisti, per odio ideologico: odio che si spinse fino alla tortura e alla barbara uccisione di un seminarista quattordicenne, Rolando Rivi, “colpevole” di amare così tanto la sua Chiesa, da andare in giro con la veste sacerdotale, per mostrare a tutti la propria vocazione. Da parte loro, i vertici della Chiesa stavano a vedere come sarebbe finita: ma poiché tutti avevano capito, dopo El Alamein e dopo Stalingrado, che sarebbe finita con la vittoria alleata, in pratica si trattava di aspettare che la guerra finisse, senza compromettersi troppo né con i tedeschi, che avrebbero potuto vendicarsi prima di subire l’inevitabile sconfitta, né con gli angloamericani, i quali, dopotutto, stavano bombardando selvaggiamente le città italiane e provocando decine di migliaia di morti innocenti, in attesa di “liberarle”, e sobillavano i partigiani, la maggior pare dei quali erano di fede comunista e, perciò, atei e nemicissimi del cattolicesimo. A guerra finita, sia i vivi che i morti, com’era prevedibile, subirono un diverso trattamento: i sacerdoti e i religiosi che avevano scelto la parte “sbagliata”, come don Tullio Calcagno, vennero presto dimenticati, mentre quelli che si erano schierati dalla parte “giusta”, come don Primo Mazzolari, ricevettero onori, riconoscimenti e un bagno di popolarità, e inoltre, cosa più importante di tutte, ottennero una specie di lasciapassare per accedere al mondo della cultura repubblicana e democratica, dominato dai partiti di sinistra. Furono così gettate le basi per il successo editoriale e mediatico di sacerdoti come David Maria Turoldo, i quali potevano vantare la benemerenza di essere stati antifascisti e di aver aderito alla Resistenza; mentre venne letteralmente rimossa l’opera di quei sacerdoti, alcuni di notevole spessore intellettuale (un nome per tutti? quello del pedagogista padre Domenico Bassi, barnabita, vittima di una “epurazione postuma”, visto che ebbe la buona sorte di morire nel 1940), i quali si erano compromessi col fascismo e non avevano poi prontamente ritrattato, cosa che sarebbe stata facilissima, visto che lo facevano tutti, anche nell’ambito della cultura laica, Curzio Malaparte docet: cosa che aveva il significato di una diabolica perseveranza nel “male”. Per i preti rossi, invece, si sono sprecati i discorsi, le commemorazioni e i monumenti: uno per tutti, il caso di don Giuseppe Faè (nome di battaglia: don Galera -, parroco di Montaner, un paesino delle Prealpi Trevigiane, del quale abbiamo altra volta parlato (vedi i nostri articoli: Don Galera e Frate Mitra. Ma un prete deve predicare il Vangelo della vita, non il vangelo della morte, pubblicato su Libera Opinione il 23/04/2015; e Don Giuseppe Faé: fu vera gloria?, il 30/07/2015).

Ora, la mancata riflessione su quel che era accaduto e l’assenza di un rinnovato dibattito, anche di tipo teologico, oltre che storico, sulla questione della “guerra giusta” e sulla liceità di una partecipazione dei sacerdoti alla guerra civile, hanno fatto sì che il mal seme dei don Faè si tramandasse, senza ricevere alcuna correzione, fino ai nostri giorni; tanto che oggi, a nostro avviso, sta cominciando a rifare capolino, per fortuna non in forme violente - o non ancora tali – ma, comunque, egualmente pericolose. Alludiamo alle sempre più frequenti prese di posizione di sacerdoti e religiosi cattolici a favore dell’immigrazione/invasione dell’Italia e dell’Europa da parte di orde di falsi profughi, quasi tutti islamici; e agli atteggiamento di provocazione, di sfida, di aperto disprezzo, da parte di costoro, nei confronti di quella parte dell’opinione pubblica e di quella parte dei fedeli, che essi sanno benissimo esistere, anzi, essere maggioritarie, che non vogliono riconoscere per buone le loro ragioni; che non accettano di subire passivamente tale invasione e tale islamizzazione; che non tollerano di vedere la Chiesa tutta così schierata, papa in testa, a favore di una scelta che non è più di tipo caritativo e assistenziale, ma decisamente politico – si veda l’intromissione di Bergoglio sulla legge per lo ius soli – e che coinvolge non noi soltanto, ma la generazioni future, cioè il destino dei nostri figli e dei nostri nipoti. Da Gorizia a Roma, è tutto un pullulare di preti che chiedono la dispensa ecclesiastica per candidarsi alle elezioni, sia politiche che amministrative, per portare avanti, a tempo pieno, la loro linea dell’accoglienza e della pretesa integrazione di milioni di stranieri; alla televisione e sulla stampa, è tutta una passerella di sacerdoti che battono e ribattono su quel tasto, con il sostegno compiaciuto di giornalisti tutti schierati sulla linea immigrazionista, mondialista e omosessualista; e, quel che è peggio, che stravolgono la lettera e il senso dei quattro Vangeli canonici e se ne inventano un quarto, il vangelo secondo Bergoglio, nel quale si dice che Dio non è cattolico, che Gesù si è fatto diavolo, che l’apostolato è una solenne sciocchezza, che Dio ha risparmiato Sodoma, che il diavolo non esiste, che non si sa cosa abbia detto Gesù Cristo, che i giudei non hanno bisogno di convertirsi, che gli islamici sono amici ed ospiti graditi alla Messa cattolica, specie se è ancora fresco il sangue di un prete cattolico assassinato dai fondamentalisti islamici; e che il vero peccato non è la pratica omosessuale, ma la cosiddetta omofobia, che poi è semplicemente il rifiuto di considerare normale l’omosessualità, e sacrosanti i matrimoni gay; e che un vero cristiano deve essere per l’accoglienza dei “migranti”, altrimenti non merita di essere considerato tale, anzi, non merita neppure di essere considerato un uomo. Ed è così che don Andrea Bigalli, prete di Firenze, benedice i matrimoni omosessuali e la signora Cirinnà; don Andrea Bellavite, prete friulano, si candida a sindaco di Aiello (Udine), vince e si mette a governare con una giunta di centro-sinistra, nonostante non abbia avuto l’autorizzazione del suo vescovo, che lo ha sospeso a divinis; ecco don Mussie Zerai, il prete eritreo che si vanta di salvare le vite dei profughi in pericolo, mentre, di fatto, svolge il ruolo di telefonista dei migranti; ecco don Franco De Donno, prete romano e dirigente della Caritas, che, dopo 36 anni di ministero sacerdotale, lascia la Chiesa per candidarsi alla testa di una lista progressista, immigrazionista e buonista; ed ecco don Massimo Biancalani, prete di Pistoia che non si limita a portare i migranti in piscina (ma chi porta in piscina i nostri poveri e i nostri dimenticati?), posta le gioiose foto in rete col commento Questa è la mia famiglia; i miei nemici sono i razzisti, e, per ribadire il concetto, pone sulla sua onlus dei cartelli con la scritta Vietato l’ingresso ai razzisti.  Tutti costoro, e altri dieci, cento, mille come loro, stanno facendo, che ne siano consapevoli o no, le prove generali di una guerra civile: stanno spaccando deliberatamente, intenzionalmente, la società civile e la stessa comunità cattolica, in nome di una loro interpretazione del Vangelo, sapendo benissimo che essa non è condivisa da tutti, anzi, che molti la trovano arbitraria, eretica e pericolosa, oltre che dannosissima quanto agli effetti pratici. Eppure non si danno la pena di spiegare, di argomentare, di dialogare: proprio loro, degni continuatori dello “spirito” (con la minuscola) del Concilio, che del dialogo aveva fatto un valore assoluto, non dialogano affatto con gli altri: perché dare agli altri dei razzisti non è dialogare, è insultare, e definire gli altri dei nemici, da parte di un sacerdote, equivale a chiudere ogni spiraglio, ogni possibilità di dialogo; ed è semmai un provocare, e chi provoca non deve poi stupirsi se attira delle reazioni, non deve poi fare del vittimismo, non deve poi puntare il dito contro l’intolleranza altrui e lamentarsi della cattiveria altrui.

Ora, è sotto gli occhi di tutti che la società civile si sta svegliando, si sta scuotendo, sta realizzando che ciò che viviamo non è solo un brutto sogno, un incubo, ma una realtà tremenda che ci viene imposta, e alla quale si deve reagire, finché ciò è ancora possibile. È sotto gli occhi di tutti che moltissime persone, esasperate dalla invasione dei sedicenti profughi, dalla ormai quotidiana criminalità cui essi si abbandonano, senza neppure darsi la pena di vedere se le loro domande di asilo verranno accolte (criminalità di cui gli organi d’informazione parlano pochissimo, insabbiando le notizie sgradevoli per non incrinare l’immagine del “povero migrante” che cerca solo sicurezza e lavoro), incomincia a organizzarsi e a reagire. In moltissimi luoghi i sindaci e i cittadini protestano contro l’arrivo dell’ennesima infornata di migranti, che vengono sistemati dai prefetti, con atto d’imperio, in strutture pubbliche o private, spesso senza minimamente tenere conto delle situazioni locali e della volontà della popolazione. È sotto gli occhi di tutti che questa situazione sta per esplodere; e che, mentre i cosiddetti migranti, come accade in questi giorni a Pordenone, si lamentano e vanno a protestare dal prefetto perché devono mangiare sempre lo stesso menù, molti cittadini italiani hanno perso la pazienza, non vogliono più sentir parlare né di accoglienza, né di buonismo, e neppure di adozioni gay o di utero in affitto; che non tollerano più di vedere che, mentre l’Italia sta diventando una succursale del Marocco o dell’Africa nera, dove è pericoloso girare nei dintorni della stazione ferroviaria di Roma o di Milano, anche in pieno giorno, la signora Boldrini si vale della sua carica istituzionale per tenere lezioni di neolingua, spiegando che una donna sindaco deve essere chiamata sindaca, e una donna ministro, ministra, e una presidentessa del consiglio, presidenta del consiglio (ma perché poi  si deve consiglio, che è maschile, visto che ne fanno parte anche delle donne?), altrimenti si è sessisti, maschilisti e reazionari. A causa di tutto ciò, di questa espropriazione delle decisioni a danno del popolo e di questa arroganza, fatuità e sconsideratezza da parte di molti esponenti della vita pubblica, si stanno creando le condizioni, purtroppo oggettive, per una guerra civile, nel senso che i margini di dialogo e di compromesso sono quasi azzerati e si fronteggiano due Italie, due chiese, due modi di vedere i maggiori problemi odierni, che sono opposti e assolutamente inconciliabili. E la Chiesa cattolica, che avrebbe la possibilità, le risorse e l’esperienza per fare opera di mediazione, e che, in passato, lo ha fatto per secoli e secoli, ha deciso ora di gettare, invece, benzina sul fuoco, schierandosi con estrema convinzione con una delle due parti, e lanciando anatemi furiosi contro l’altra; o, se non proprio tutta la Chiesa, una buona parte di essa, partendo dal papa e arrivando fino all’ultimo don Zerai. Così facendo, tutti costoro si stanno assumendo una responsabilità tremenda: dopo aver tradito gli italiani e i cattolici, in favore degli stranieri e degli islamici che vengono nel nostro Paese con il fermo proposito di non integrarsi affatto, ma semmai di conquistarlo in maniera incruenta, al ritmo di sempre nuove nascite, essi, dopo aver rinunciato al crocifisso, al presepio, ai canti di Natale e alla carne di maiale nelle mense scolastiche, per non offendere le sensibilità islamica, non si peritano di soffiare sul fuoco di una conflittualità sociale che sta raggiungendo i livelli di guardia. E questo, secondo noi, significa tradire il Vangelo, anche se del “vero” vangelo essi hanno sempre piena la bocca, come se loro soltanto avessero capito quale sia questo “vero” vangelo, e tutti gli altri, compresa la Chiesa degli ultimi diciannove secoli, quella anteriore al Concilio Vaticano II, non l’avessero capito per niente. Questa mentalità esagitata, folle, irresponsabile, da guerra civile, i preti di sinistra l’hanno mutuata principalmente da due sorgenti: la teologia della liberazione sudamericana (frutto, a  sua volta, di una realtà da guerra civile: vedi la scelta guerrigliera del padre Camilo Torres, in Colombia) e la cultura studentesca del ’68, entrata poi nel bagaglio ideologico del terrorismo rosso negli “anni di piombo”). Il laboratorio di questo incontro scellerato e di questa fusione tra i due elementi è stato offerto dai gesuiti, specie dall’opera del gesuita spagnolo Pedro Arrupe, nel ventennio fra gli anni ’60 e gli anni ’80 del Novecento, e dall’Istituto di studi politici Pedro Arrupe di Palermo, fucina dei vari esperimenti di catto-comunismo, in Sicilia e fuori.

A questo punto, vorremmo porre solo una sommessa domanda ai cattolici progressisti e ai “preti di strada” su nominati: non vi sorge alcun sospetto nel vedere che le vostre parole, le vostre idee, coincidono perfettamente con le parole e con le idee di George Soros, dei Rockefeller, della Banca Mondiale e della Banca Centrale Europea, cioè della élite finanziari che ci governa, e che dispone del controllo totale dell’informazione? Voi, che vi sentite di sinistra, non siete neanche un po’ imbarazzati? Strano, perché dovreste esserlo: volete far la rivoluzione col sostegno dei poteri forti...