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La verità si controlla o si accoglie?

di Francesco Lamendola - 22/09/2017

La verità si controlla o si accoglie?

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

La cultura oggi dominante, erede dell’illuminismo e del positivismo, ha un approccio caratteristico nei confronti della verità: pensa che la si debba “controllare”, nel senso di sottoporla ad un controllo, a una verifica, a un test, per accertarne e convalidarne le credenziali; e pensa, inoltre, che i soli autorizzati ad eseguire questo test siano gli scienziati, non tutti, ma, ovviamente, quelli di tendenza scientista e riduzionista.

Di tale opinione era fondamentalmente anche il fondatore del positivismo logico, o neopositivismo, nonché del Circolo di Vienna, Mortiz Schlik (Berlino, 14 aprile 1882-Vienna, 22 giugno 1936), brutalmente assassinato da uno studente nazista sulle scale dell’università della capitale austriaca: il che ne fa una vittima coraggiosa della barbarie hitleriana (avrebbe potuto espatriare, come fecero tanti suoi colleghi), ma non ne fa, di per sé, né un genio filosofico, né un eroe del pensiero contemporaneo, ma, semmai, un esponente di quella profonda crisi intellettuale e culturale che caratterizza la filosofia europea nel periodo fra le due guerre mondiali, crisi dalla quale, in realtà, essa non si è mai veramente risollevata. Un tratto caratteristico di questo pensiero della crisi è la relativizzazione e la soggettivizzazione del concetto di verità, o, per converso, la presta di poterlo inchiodare, una volta per tutte, sul letto di Procuste dello scientismo più becero: è vero quel che la scienza, ed essa sola, dice che sia vero, avendolo verificato con i suoi strumenti logici ed empirici, mentre qualsiasi tentativo di diversa provenienza sarebbe illegittimo e, in ogni caso, non probante. Schlick, che era prima di tutto un fisico, poi un filosofo, dà alla filosofia questa particolare prospettiva, confermando la sua subordinazione logica alla scienza, che già il primo positivismo aveva proclamato in maniera più o meno esplicita. E poco importa che egli, di nuovo poco coerentemente, affermi che la filosofia, pur non essendo una scienza, è nondimeno la regina delle scienze: a parte la contraddizione logica, che egli tenta di smussare con un sofisma (non sempre le regine sono della stessa specie dei sudditi, dice), resta il fatto che egli circoscrive la finzione della filosofia alla determinazione del senso degli enunciati; non la regina, quindi, a nostro avviso, ma, semmai, la regolatrice del traffico, insomma qualcosa di simile ad un vigile urbano il quale si sforzi  ordine nella confusione del movimento cittadino.

Ed ecco il suo pensiero a proposito del concetto di controllo della verità, nello scritto La svolta della filosofia (in: Moritz Schlik. Tra realismo e neopositivismo, a cura di Ludovico Geymonat, Bologna, Casa Editrice il Mulino, 1974, p. 134):

 

Tutte le volte che sussiste un problema sensato, è sempre teoricamente possibile indicare la strada che porta alla sua soluzione, ciò consistendo, in fondo, nella specificazione del senso del problema. La pratica effettiva di una simile procedura può, naturalmente, essere ostacolata, per esempio, dall’insufficienza delle capacità umane; ma l’atto della verifica, con cui ha termine il processo risolutivo, è sempre della stessa specie; è la presenza di uno stato di cose determinato, stabilito mediante osservazione o esperienza immediata. È questo il modo in cui, di fatto, sia nella vita quotidiana, sia nella scienza, si accerta la verità di ogni proposizione. Non esiste, dunque, alcun esame o controllo della verità all’infuori dell’osservazione e della scienza empirica. Ogni scienza (nella misura in cui con tale termine intendiamo il CONTENUTO scientifico, e non i processi umani necessari per il suo conseguimento) è un sistema di conoscenze, cioè di proposizioni empiriche vere, e l’insieme di tutte le scienze, con inclusione degli enunciati della vita quotidiana, è il sistema delle conoscenze. Non esiste, all’infuori di esso, un campo di verità filosofiche: la filosofia non è un sistema di proposizioni; e, quindi, non è una scienza.

Che così’è allora la FILOSOFIA? Certo, non è una scienza; ma è parimenti qualcosa di così significativo e grande, da meritare d’ora in poi, esattamente come un tempo, il titolo di regina delle scienze. Infatti, non è per nulla detto che la regina delle scienze debba essere essa stessa una scienza. Ora noi riconosciamo in essa – e in questo consiste la caratterizzazione positiva della svolta considerata – anziché un sistema di conoscenze un sistema di ATTI. La filosofia è, insomma, l’attività mediante la quale si chiarisce e si determina il SENSO degli enunciati. Dalla filosofia le proposizioni vengono esplicate, e dalla scienza vengono verificate. Qui si considera la verità degli enunciati; là che cosa propriamente quegli enunciati SIGNIFICHINO […].

 

Il limite di tutta l'impostazione neopositivista consiste nel fatto che il problema della verità viene ridotto arbitrariamente al problema della proposizione che la esprime ed al suo significato. La verità diventa la verità della espressione verbale, o matematica, che la traduce in linguaggio sensato. Una volta operata, a monte, questa riduzione, ne dovrebbe discendere che la verità delle cose è tutt'uno col linguaggio che la esprime, e la filosofia dovrebbe ridursi a filosofia del linguaggio.  Schilk, tuttavia, poco coerentemente, non rinuncia a un approccio realistico ed empirico al problema della verità e sostiene che il mezzo della sua verificazione è l'osservazione fornita dalla scienza empirica. La verità consiste nell'insieme delle verità che sono state verificate mediante l'osservazione scientifica: non esiste un altro modo d'intendere la verità. La filosofia è preposta alla chiarificazione del senso delle proposizioni, mentre il controllo della loro effettiva verità spetta alla scienza empirica. 

Proviamo adesso a considerare le cose sotto una prospettiva più ampia. Il neopositivismo, partendo da una impostazione di tipo kantiano, esclude in partenza (come fa la fenomenologia) la possibilità di poter conoscere la cosa in sé, il noumeno; dunque, la questione della verità si riduce alla questione di una verità apparente, delle cose come ci appaiono. Sia la ricerca del loro senso sotto il profilo logico, sia la verifica pratica da parte delle  scienze empiriche, non si muovono, pertanto, nella sfera della verità ultima, ma in quella di una verità seconda, di una verità relativa. Ricordiamo la definizione classica della verità: essa è la concordanza fra la mente e l'oggetto. Ma l'oggetto non può essere quel che ci appare, perché in tal caso non avremmo conoscenza, ma opinione; e la verità non sarebbe altro che un gioco di apparenze. Il fatto è che la cultura moderna, dopo l'auto-castrazione del pensiero operata dal criticismo kantiano, ha abbandonato l'idea della verità  in senso assoluto e si è accontentata di una serie di verità relative (al plurale). Fatica improba, sforzo impossibile e sterile: se non c'è la verità a fondare e sorreggere le verità, tutto diventa aleatorio, opinabile, provvisorio: una cosa è vera fino a quando non ne viene dimostrata la falsità; e poiché le scienze empiriche sono in continuo progresso, ne consegue che nessuna verità è più stabile, tutte le verità sono a tempo determinato, e gli uomini si accontentano di verità provvisorie che sono, in realtà, delle finzioni epistemologiche: si sa che non sono vere, tuttavia, in attesa di qualcosa di meglio, si fa finta che lo siano e ci si regola come se lo fossero. Questo fa sì che gli uomini moderni vivano come sdoppiati su un duplice binario: da una parte sanno di muoversi in una mondo di verità convenzionali, dall'altro sono portati ad assolutizzarle, perché tale è l'istinto vitale e perché non arrivano più nemmeno a concepire che possa esservi una dimensione permanente, fatta di cose assolute; in compenso sopravvive in loro la tensione verso l’assoluto, magari relegata a livello subcosciente, e quindi essi sono portati ad assolutizzare le cose finite. La convinzione che solo la scienza empirica e l'osservazione possano controllare la verità tradisce questo slittamento di prospettiva: l'ambito della verità viene chiaramente ridotto alla sfera di ciò che è passibile di verificazione empirica da parte della scienza, e ne viene escluso tutto il resto; per essere più precisi: ne viene escluso tutto ciò che la filosofia, intesa come logica del linguaggio, ritiene che non abbia un senso. Da Kant (e da Hume) in poi, sappiamo quali siano le proposizioni giudicate prive di senso: quelle relative alla metafisica. La realtà conoscibile empiricamente viene a coincidere con la realtà tout-court; quindi anche la verità si restringe ad abbracciare lo spettro delle preposizioni dotate di senso. In realtà, le domande della metafisica sono tutt'altro che insensate; ma siccome la scienza empirica non le può verificare, esse vengono equiparate alle domande prive di senso, e accantonate nel limbo di ciò che, non potendo essere verificato, non si potrà mai stabilire se sia vero oppure no. Si crea un circolo vizioso: sono dotate di senso solo le domande alle quali si può rispondere; e le domande alle quali si può rispondere sono quelle dotate di senso. Ma il "senso" di cui parla Schlik è il senso dell'osservazione e della verifica sperimentale, non è il senso ultimo, non è la verità che si fonda dietro le apparenze.

Come si può uscire da questo circolo chiuso? Esattamente come ci si è entrati: percorrendo a ritroso la strada che ha portato ad equiparare la realtà (apparente) alla verità, e recuperando l'idea della verità come qualcosa a cui ci si può aprire o chiudere, perché esiste indipendentemente da noi, e non come qualcosa che si può "controllare", perché il controllore non ha alcun potere effettivo su ciò che è più grande di lui, e l'oggetto della verità è certamente più grande delle singole verità parziali dei singoli osservatori. Questa prospettiva non è in contrasto, ma in armonia, con la definizione classica della verità: l'adeguamento della mente alla cosa, purché si ammetta che la mente degli enti non può mai adeguarsi del tutto alle cose (basta un semplice disturbo della percezione, e la verificazione fallisce), per cui la verità, nel senso forte del termine, non può essere altro che la visione che la Mente assoluta ha delle cose. Solo in Dio vi è una perfetta corrispondenza fra colui che conosce e ciò che viene conosciuto; e solo in Lui esiste la verità. Ora, è proprio questa Verità, Dio, che sostiene e garantisce le verità con le quali dobbiamo fare i conti nell'ambito del reale al quale siamo circoscritti. Noi, infatti, menti finite, abbiamo una realtà nella dimensione del finito, e possiamo conoscere le cose in maniera necessariamente limitata e parziale. Non vi sono verità assolute nel mondo al quale apparteniamo; anche le verifiche più rigorose sono sempre e solo verifiche parziali e provvisorie. Proprio la scienza, così ingenuamente assolutizzata dai neopositivisti, nel procedere incessante delle sue nuove acquisizioni, dimostra la parzialità, e quindi la non verità, delle verità precedentemente acquisite e accumulate: e ciò dovrebbe essere sufficiente a far capire che, per questa via, non si andrà mai oltre l'ambito di ciò che sembra vero, non di ciò che è vero.

Per giungere a capire la verità, è necessario rinunciare all'idea di controllarla, perché essa è la verità di qualcosa, e questo qualcosa è al di fuori di noi e al di sopra di noi. Perciò non si tratta di controllare se una cosa sia vera oppure no, ma di aprirsi alla cosa come essa realmente è; e non lo si può fare se si esclude in partenza che la cosa in sé sia conoscibile e si ritiene che tutto quel che si può conoscere come vero siano i fenomeni. La verità è una relazione (adeguamento della mente alla cosa), ma non relazione astratta, bensì relazione concreta: relazione fra un soggetto e un oggetto. Ma perché questa relazione sia possibile, bisogna che l'oggetto si riveli, e solo allora lo si potrà conoscere. Ne consegue che vi sono molte cose, e non le meno importanti, al contrario, le più importanti, la cui verità non può essere verificata sul piano empirico. Kant lo sapeva, e ha creduto di eliminare il problema eliminando il noumeno, o meglio, escludendolo dalla nostra capacità di conoscerlo. Singolare pretesa: eliminando la cosa in sé, restano solo le cose come appaiono; ma chi potrà garantirci la loro verità? Nemmeno la scienza empirica potrà farlo, se non in maniera provvisoria e parziale. E una conoscenza provvisoria e parziale non merita il nome di verità, ma solo quelli di opinione o d’ipotesi. Finché si pretende di esercitare un controllo sulla verità, non si va lontano: perché, se la verità è una relazione, bisogna anche precisare che essa è una relazione in continuo movimento, non è una relazione statica: e come potrebbe il Logos individuale, che rimane sempre fermo sulle proprie posizioni, rendere ragione di una relazione che non permane mai uguale a se stessa? In una relazione dinamica, che si svolge – come abbiamo visto – nell’ambito del finito, la mente finita, mutando la relazione, muta anch’essa: muta la sua prospettiva, muta il suo modo di percepire la realtà. La percezione del mondo di un bambino di sei giorni non è la stessa di quella di un bambino di sei mesi, né di quella di un bambino di sei anni, né di quella di un uomo di sessanta. Ne consegue che la verità è un adeguamento della mente alla cosa, nel senso che anche la mente si deve continuamente adeguare a se stessa; e, poiché la cosa non dipende da lei, essa non la può controllare (non può “controllare” nemmeno se stessa!...), ma solo accogliere o non accogliere; e, per farlo, non le è sufficiente l’esprit de géometrie, come direbbe Pascal, ma serve anche l’esprit de finesse, perché, sempre come diceva il filosofo francese, il cuore ha delle ragioni che la ragione non arriva nemmeno a conoscere. C’è un mistero al fondo di ogni persona: pretendere di conoscere la verità ignorando tale mistero, significa domandare troppo, non solo alla ragione, ma anche a Dio…