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Autodeterminazione dei popoli:  ecco tutto quello che non vi dicono

di Lorenzo Vita - 24/09/2017

Autodeterminazione dei popoli:  ecco tutto quello che non vi dicono

Fonte: Gli occhi della guerra

Settembre è un mese caratterizzato dal ritorno della questione del separatismo per via referendaria. In una curiosa coincidenza temporale, Kurdistan e Catalogna hanno infatti deciso di indire unilateralmente un voto popolare per chiedere la secessione dallo Stato centrale, dividendo non solo l’opinione pubblica ma anche il mondo degli osservatori, degli analisti e della politica di tutto il mondo. In questi casi è facile dividere la questione in bianco e nero, pro o contro la secessione, ma anche solo pro o contro la via referendaria. La domanda che tutti si pongono è innanzitutto perché una determinata regione voglia sperarsi e poi, domanda anche più complessa, se è lecito che lo faccia o che uno Stato centrale non permetta tale libertà di scelta. Non è un tema semplice, perché in esso rientra il concetto stesso di Stato come lo conosciamo ai nostri giorni. Ma va detto che, in molti casi, si parla fin troppo facilmente di diritto all’autodeterminazione dei popoli come chiave di volta per costruire una narrativa utile al separatismo. In realtà, il principio di autodeterminazione va definito nei suoi contorni, perché si rischia di espandere i suoi confini al di là del valore che esso possiede non solo nel diritto internazionale, ma anche nella politica internazionale.

Il diritto all’autodeterminazione dei popoli è un principio che va prima di tutto compreso studiando il momento in cui è divenuto applicabile a livello internazionale, e cioè con la Carta delle Nazioni Unite. Dopo la Seconda Guerra Mondiale e la caduta degli antichi imperi coloniali, le Nazioni Unite avevano cercato di dare un assetto giuridico piuttosto esteso del diritto che avevano i popoli sottoposti a dominio straniero di autodeterminarsi, cioè di scegliere il proprio assetto costituzionale, il proprio ordinamento e dunque di rendersi indipendente da uno Stato terzo che ritenevano estraneo. A questo diritto, che si ripete, nacque prettamente per via del fenomeno della decolonizzazione non ha però mai fatto seguito un diritto alla secessione riconosciuto a livello internazionale, tanto è vero che nella comunità internazionale ha prevalso quasi sempre il diritto dello Stato all’integrità territoriale. E questo è abbastanza evidente se si pensa che nessuno Stato nazionale possa dare il proprio assenso al diritto di una regione a secedere da esso, altrimenti assisteremmo a un continuo mutamento dei confini che è quanto di più pericoloso per il sistema internazionale. In sostanza esiste un diritto all’autodeterminazione dei popoli, ma non esiste, di fatto, un diritto a secedere. E questo non è un puro gioco di parole a livello giuridico, ma il vero e proprio bandolo della matassa. Perché un popolo possa autodeterminarsi, stando a tantissime sentenze dei tribunali internazionali e nazionali, è necessario che esso sia oppresso da dominazione straniera, apartheid o regime coloniale. E questi sono gli unici casi in cui il diritto internazionale contempla un diritto vero ed effettivo all’autodeterminazione. Un principio che, non va dimenticato, riguarda i popoli sì, ma i destinatari del diritto internazionale sono gli Stati.

Sono gli Stati a essere garanti del diritto internazionale, non i popoli (concetto tra l’altro assolutamente labile nella dottrina giuridica internazionale) e dunque è fondamentale che sia la comunità degli Stati a riconoscere tale diritto o l’ordinamento stesso dello Stato. In Scozia, ad esempio, fu il Regno Unito a garantire la possibilità di indire un referendum, così come garantisce quello al popolo irlandese qualora tutta l’Irlanda decida di votare a favore del distacco dell’Irlanda del Nord da Londra per unirsi a Dublino. L’esempio catalano, in questo senso, è emblematico per il contrario. La Catalogna è una “comunidad autonoma” all’interno di un ordinamento statale che riconosce autonomia e garantisce il pieno dispiegamento di diritti politici, linguistici e culturali. A Barcellona c’è una Generalitat che ha ampie funzioni amministrative, un “Parlament” in cui si legifera, un “Govern” che ha addirittura delegazioni estere, ma soprattutto c’è un rispetto totale del bilinguismo e della cultura catalana, pur non ammettendo la secessione. In reazione al periodo franchista, la Costituzione spagnola riconosce grandi margini di manovra alle identità culturali di cui è composta la Spagna e dunque non è possibile che altri Stati terzi si accordino nel dare a Madrid la definizione di dominaio straniera su un popolo oppresso. Anche solo dal punto di vista storico, risulta difficile ritenere che dal Regno d’Aragona, fuso con il Regno di Castiglia attraverso un matrimonio, discenda un diritto all’autodeterminazione del popolo catalano. Ecco dunque che, di fronte a delle semplificazioni eccessive quando si parla di autodeterminazione, va sempre tenuto conto del panorama giuridico e politico specifico e di quello internazionale. Altrimenti si rischia di creare non solo falsi miti, ma false speranze. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli non è parallelo al diritto alla secessione, né la secessione viene ritenuta un rimedio (c.d. remedial secession) a ogni tipo di sentimento identitario. Qui ci sono partiti indipendentisti che rappresentano una parte della popolazione catalana. Aspirazioni legittime e anche affascinanti, ma che non vanno messe in correlazione diretta con l’autodeterminazione di un popolo oppresso. Questo è indipendentismo, che è diverso.